Angelo Violante Tag Archive

Yumiko – Tutto da Rifare

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Ascolto: in macchina verso un week end di live

Umore: soleggiato e rilassato come di chi scappa dalla sua vita.

Davvero, e questo non significa che ho ascoltato solo questo, il disco degli Yumiko si può spiegare tutto dai primi trenta secondi del primo pezzo. O meglio, l’ascolto di tutto il disco conferma pienamente l’impressione di pancia che l’incipit ti fornisce. Produzione stratosferica, suoni sintetici di gran gusto e potenza, sezione ritmica europea e un timbro di voce non particolarmente riconoscibile ma pur sempre capace e adatto al suono complessivo del progetto. A questo punto in una recensione interviene il signor MA e questo è il punto in cui nella mia irrompe a gamba tesa come un arcigno difensore di annata: il punto dolente degli Yumiko, o per lo meno del loro disco “Tutto da rifare”, è il messaggio testuale. Faccio la telecronaca dei miei pensieri in quei fatidici trenta secondi di cui ho parlato: metto su il disco e subito si staglia un basso synth potentissimo e distorto, ecco che entra la batteria con un quattro quarti ruggente e al tempo stesso non antico, campioni e riverberi in sottofondo non banali (questo è davvero piacevolmente inusuale),  poi entra la voce;  dico ” ok,  timbro alla Depeche Mode, ci sta tutto”, assaporo meglio come un degustatore di vino con l’orecchio la linea della voce pensando “questa linea l’ho già sentita dai Depeche Mode, poco male, pure Morricone dice che il plagio nella musica moderna non esiste”, mi gusto ancora un pò l’arrangiamento ossevando che anche le doppie voci per terze siano stilisticamente vicine a quelle di Dave Gahan e soci, ma mi piacciono quindi prosaicamente penso “Sti cazzi!!!”.

Il pezzo oramai è al culmine della salita verso il ritornello, ci siamo quasi. Il mio spirito sta già danzando e si aspetta una frase di quelle che dice tutto e non dice nulla, una di quelle cose che ti rimangono in testa per tutto il giorno, una di quelle cose che sotto la doccia stai tutto il tempo a rimuginare sull’interpretazione giusta e sulla bellezza della scelta della parole. Arriva il ritornello e cito testualmente: “Fammi entrare nel tuo inferno, l’unica sicura via per capire in fondo la follia”.  E’ la poca cura delle parole e il criminale uso italiano della rima baciata che distingue un disco da ascoltare sotto la doccia da uno che ti fa pensare sotto la doccia.

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Klogr – Till You Turn

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Ascolto: durante la preparazione di un pranzo post sveglia.

Umore: impreparato per il metal di prima mattina.

Confesso una cosa che un recensore non dovrebbe mai dire: non sono il tipo più adatto per recensire un disco di metallo pesante, non mi appartiene come modo di sentire la musica e forse non mi apparteneva neppure quando avevo 14 anni e avevo capelli lunghi e rabbia adolescenziale ammassata in gran quantità dentro. I Klogr per di più non sono nemmeno male e il loro disco si lascia anche ascoltare: riff di chitarra molto energici e ben congegnati, sezione ritmica buona e inappuntabile. La voce è esattamente quello che vuole ascoltare un estimatore dell’Hard Rock, completo il campionario di graffi, urla ad ottave che confinano con i richiami per i cani, metrica dei testi sempre serrata e ben avvitata all’arrangiamento.

I Klogr suonano da manuale ma forse troppo in stile; il metal nei suoi mille e cinquecento rivoli diversi che non ho mai imparato né avuto la pazienza di capire nel dettaglio continua ad essere uno stile inossidabile e sembra nonostante tutto non patire flessioni, forse perché legato ad un pubblico coriaceo e ostile alle mode. Questo, va detto con fermezza, è un punto a favore anche dei Klogr che suonano il loro disco “Till You Turn” davvero con maestria e sorprendentemente come una band planetaria abituata ad esserlo da anni, il che è facilmente riscontrabile nelle ultime tracce registrate dal vivo. Il loro limite, o forse il mio nel doverli giudicare freddamente e senza alcun attaccamento a questo suono, è che non si capisce bene quale band planetaria sia, il disco suona talmente in stile che sembra essere un disco di un’altra band. La coriacea ostilità alle mode ed anche alle contaminazioni che spostano l’asticella del progresso musicale un po’ più in là colpisce, come quasi tutti gli ascoltatori metal, anche i Klogr: troppo attenti ad essere perfetti da sembrare perfettamente una band qualsiasi. Una band di cui non conosco il nome. Ampia sufficienza ai Klogr, pienamente meritata, insufficienza inevitabile per il recensore impreparato.

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The Spezials – Crazy Gravity

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Ascolto: in riva al mare. Luogo: Barcellona, spiaggia dei nudisti adiacente  hotel Vela. Umore: vacanziero e tendente alla traversata alcolica della giornata in solitaria.

Dopo aver messo su il disco dei The Spezials il mio primo pensiero e’stato: “ci vorrebbe un’organizzazione che impedisca alle band di ogni latitudine di applicare il flanger sulla voce (nell’intenzione dovrebbe far percepire la voce come se cantasse in una bottiglia e molto più spesso invece la fa arrivare dal mezzo delle tette di una cicciona nera di Harlem al fastfood  dopo la messa della domenica). Ci vorrebbe qualcuno che in giacca e cravatta bussasse alla porta del cantante e lo prendesse a scappellotti sulla nuca urlandogli: “non si fa più”. Flanger e scherzi a parte questo Crazy Gravity e’ un disco davvero godibile, The Spezials sono un trio che nulla ha da invidiare alle band di cui si intravede la scia creativa: Artic Monkeys su tutti. Pezzi tutti molto centrati, sezione ritmica davvero in palla e suono molto ben strutturato. La voce e le tracce di chitarra di Giovanni Toscani hanno nelle corde il pontile sul mare di Brighton, le nebbie dei sobborghi di Manchester e una  dose di rabbia in cravatta, un’ostentazione di precisione estetica quasi Mod, pure qualche eco Ska alla Madness. Pochi appunti alla produzione:  una certa tendenza, secondo me veniale, a suoni di chitarra che portino l’orecchio più negli  Stati Uniti che in Inghilterra e un limite, questo un po’ più grave, nel non lasciare un tema memorabile (forse solo “Two Girls”) alla fine del disco. Mille buone idee musicali. Ogni pezzo ha spunti a sufficienza per tre, troppo per una band che dichiara  la sua vocazione Dance Rock. Peccato, perché le buone premesse ci sono tutte. I The Spezials non devono far capire ad ogni costo e in ogni singolo pezzo quanto siano bravi , la distanza per dimostrare l’ arte si misura in decenni, non in minuti.

I secondi dischi, comunque, esistono per questo.

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Fabio Biale – L’Insostenibile Essenza Della Leggera

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Ascolto: di corsa sulla spiaggia. Località: Barceloneta. Umore: come di chi volesse scoprire un altro continente a piedi.

Che voce che ha questo Fabio Biale. Non si può non esclamarlo dopo l’ascolto del suo primo disco. Opera prima molto  buona con alcuni bagliori di eccellenza sparsi qua e là come fiori tra una mattonella e l’altra del pavimento del giardino. Musicisti davvero capaci, arrangiamenti mai banali e archi utilizzati in modalità molto innovativa. Certo, avrei evitato la traduzione di “Psycho Killer” dei Talking Heads, le traduzioni ti catapultano nell’imbarazzo di ricordare che molti testi culto anglosassoni non significano quasi un cazzo ma linguisticamente suonano da Dio. Ti fanno pensare che se De Andrè fosse, che so, di Buffalo pisciava in testa pure a Dylan. Un po’ di indulgenza sulle facili rime e qualche verso davvero azzeccato come “terzo: una richiesta blues ma senza assolo, che se riesco lo suono io mentre volo“. Indomabilmente schizofrenico, questo lavoro ha proprio nell’eccessiva distanza tra i terreni toccati il suo limite. Fabio Biale sembra Fred Buscaglione in  “Al Mio Funerale”, tentativo rauco, ironico e ben riuscito, di immaginare il suo su un tappeto tzigano alla Django Reinhart; sembra Sergio Caputo in altri episodi più attinenti allo Swing da fiati; sembra  i Beatles di “I’m The Walrus” in “Il Fiore Non Colto”, sembra Marco Conidi in “Canzone d’Amor  Per un Nonno Addormentato” (il quale somiglia al Liga, il quale come e’ noto somiglia a Springsteen con la colite), sembra Neil Young nel meraviglioso e commovente quasi recitato “D.C “. Ecco,  l’unico limite di questo lavoro è che Fabio Biale somiglia non ancora abbastanza a Fabio Biale. Ma abbiamo tutta la pazienza di aspettarlo.

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Daushasha – Canzoni Dal Fosso

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Ascolto: durante la preparazione della cena di un lunedì. Località: il mio paese. Umore: da sereno a nostalgico poi tendente all’inquietudine violenta.

Complimenti ai Daushasha: complimenti perché mi hanno provocato un moto spontaneo di vergogna. Anch’io ascoltavo e andavo ai concerti dei Modena City Ramblers: avete presente quei tipi sotto il palco tutti scompigliati con i denti viola, vestiti come se si fossero tuffati nell’armadio al buio? Io ero così, come molti di voi che state leggendo, non lo negate; ero uno di quei ragazzi che stava più al centro sociale a dividere il pasto con i cani che a casa. Nel loro comunicato stampa dichiarano di rifarsi, tra gli altri,  a De Andrè: davvero? Non mi pare che Canzoni Dal Fosso sia un disco memorabile, anzi: melodie semplici al limite dell’infantilismo,  insistito e strumentale richiamo al vino e alle droghe leggere come se fossero i primi musicisti a sballarsi un po’, temi da sagra di paese senza però le meravigliose storie di poesia del paese. A parte il fatto di proporre uno stile che sembra uscito dal Cretaceo, a parte il fatto di rifare il verso ai Modena e agli Yo Yo Mundi, senza averne capacità di arrangiamento e intuizioni testuali. A parte la chitarra distorta come nemmeno in In Utero dei Nirvana. A parte tutto, non si può dire che ti ispiri a De Andrè e poi scrivere: “buona sera, voglio sbatterti ancora, birra chiara e gandja e poi tra le tue lenzuola” oppure il memorabile “e quando tra cinquantanni anni le rughe solcheranno il tuo viso, tu sarai proprio un gran cesso ma la campagna sarà bella lo stesso“. I pezzi migliori di questo disco sono quelli cantati in russo, solo perché non conosco il russo.

Dori Ghezzi, citali per diffamazione: non si può, ogni volta che chiunque voglia darsi un tono poetico, dire che ci si ispira  a De Andrè. Ci vuole la poesia, prima.

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La Rivoluzione Possibile.

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Questa settimana sta facendo il giro della rete il link a un blog in cui si riporta un lunghissimo sfogo di un giovane musicista ritrovatosi nella condizione di ricevere, durante un’esibizione, un bigliettino in cui il proprietario del locale comunicava che fosse meglio smettere per l’eccessivo volume. I musicisti che hanno avuto modo di leggere questo contributo, ovviamente, hanno iniziato un indignato passaparola sui social network, spesso rincarando la dose raccontando simili esperienze di vita vissuta. Più che indignarsi, però, sarebbe il caso di individuare il reale problema o i problemi che stanno alla base di questi tipi di comportamenti, tenendo conto dello showbiz, della cultura musicale, della considerazione di cui gode la dimensione live in Italia, del grado di competenza e rispetto reciproci che si instaura, mediamente, tra l’organizzatore di un evento e l’artista.
Checché se ne dica in giro, l’ignoranza dei gestori dei locali, spesso additata come principale problema, non è certo stata prodotta dall’indiscutibile trattamento borderline della cultura da parte della politica. Il gestore di un locale che fa live, in genere, è un appassionato di musica, magari un ex musicista o un musicista molto scarso. Il problema non dipende dal gestore in quanto essere umano, ma dal fatto che gli introiti del suo locale sono il suo pane e quindi, umanamente, ciò lo porta a considerare la musica come merce. Questo, piaccia o non piaccia, è un fatto. Accantoniamo le responsabilità politiche di chi rende un concerto una lotta alla sopravvivenza burocratica del promoter, accantoniamo i controlli a macchia di leopardo e spesso assurdi cui deve esser sottoposto. Accantoniamo pure la concorrenza sleale di taluni locali o associazioni formalmente non a scopo di lucro che invece il profitto lo fanno eccome (a cinque euro a birra per trecento persone), ma senza pagare le tasse come gli altri. Questi sono problemi politici. E per quelli oggi ci vuole la rivoluzione della ghigliottina in piazza o la pazienza di un Bonzo. Accantoniamo l’idea che un gruppo possa far schifo al gestore durante il live: se lo chiama lo ha sentito e benché ci possa essere differenza anche considerevole con il disco questa non è certo percepibile dal gestore che, come detto, ha a che fare con la musica come un pappone ha a che fare con le donne (gli sono sempre piaciute ma sfruttandole non ne capisce più la poesia).

Parliamo di volumi: la responsabilità è doppia. Spesso è ignorante il gestore che pensa che i Deep Purple possano suonare al volume di Jobim; spesso altrettanto ignorante è il musicista che per capire che ogni spazio ha le sue esigenze di volume e setup ci mette lo stesso tempo di un elettore per capire che un politico non fa i suoi interessi: trent’anni. Responsabile è il gestore che non paga il pattuito nel momento della chiusura della data o che non mette tutti i suoi mezzi a disposizione per creare le buone premesse di un live (impianto decente, palco e fonico), altrettanto responsabile è il musicista che non denunci e sputtani il gestore favorendo nome del locale e del promoter in una rete virtuale in cui tra musicisti e locali tutti oramai possono sapere tutto di tutti. Partendo dalla buona fede dell’articolo, quella è indiscutibile, la cosa che mi lascia perplesso è l’anonimato dettato dalla paura. Capisco un commerciante taglieggiato dalla mafia, ma non un musicista che rimane in silenzio per paura di non esser più chiamato. Quel locale, se si comporta male abitualmente con la band, deve esser messo nella condizione di non poter trovare band.

Una rivoluzione che ci vuole è, insomma, quella che possiamo attuare tutti quanti: come protestare all’ufficio postale, quando ti passano davanti facendo finta di niente. Per quella non c’è bisogno della ghigliottina in piazza. E neanche di tutto questo coraggio.

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The Geex – The Geex

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Inizia con un robusto fill di batteria questo ep, il primo,  dei The Geex e  poi ecco un giro di chitarra cazzutissima con un bel basso plettrato. Dopo appena dieci secondi di The Geex ecco che pensi di trovarti a che fare con un fottutissimo disco alla Placebo, ti sorprendi a sorridere pensando che ti aspetti una bella serata di musica Indie Rock nella tua stanzetta semi buia del tuo condominio di periferia.

Invece, come a volte succede nel sesso, ciò che ben comincia non è detto che non finisca di lì a pochi secondi: entra la voce in un finto inglese di quelli che si utilizzano per fare i primi provini e d’incanto mi trovo ad ascoltare un emulo di Rocky Roberts nel celeberrimo “Stasera mi buccio”: unica differenza è solo che qui un italiano cerca di sembrare inglese e non un nero che cerchi di sembrare Lando Fiorini; il pezzo si intestardisce in una melodia a metà tra lo scanzonato e il musicalmente scurrile, il giro di chitarra cazzutissima rimane lo stesso fino alla fine del disco mirando con cazzutissima precisione chirurgica al basso ventre dell’ascoltatore, la batteria non molla un attimo il charlie in sedicesimi e il rullante non molla il tre come nemmeno i migliori Def Leppard avrebbero osato, nel pieno degli anni 80. La voce, infida, insiste su parole appena appena stropicciate da qualche decennio di canzoni: Love, Hope e soprattutto Dream: ci tengo davvero a soffermarmi sull’inciso del secondo pezzo “Empty” dal titolo evidentemente riassuntivo dello spirito dell’ep; da quando ascolto musica non mi era ancora riuscito di ascoltare un vocalizzo di così tante note e così tanti secondi (sulla i di Dream per l’esattezza). Con un vocalizzo così lungo The Geex possono provare ad insidiare il record mondiale di vocale indoor dei migliori Verdena, i quali almeno allungavano vocali nella loro lingua madre. Vocalismo patriottico is better, passatemi l’inglesismo, anche io a scuola ho studiato un po’. Il disco volge al termine in altri due pezzi: “Africa” mi sembra giusto un pelino di un livello compositivo più alto degli altri. Ma è come se il sesso sia durato dieci secondi e poi ti abbiano propinato venti minuti di coccole. Che ne dite donne, quante volte avete provato la stessa esperienza con i vostri partner?

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