Ambient Tag Archive

Recensioni #05.2017 – Phoenix / Piccoli Animali Senza Espressione / Penguin Cafe / Andrea Laszlo De Simone …

Written by Recensioni

Bonobo @ Fabrique, Milano | 13.03.2017

Written by Live Report

Il producer londinese Simon Green in arte Bonobo approda a Milano per la prima data in Italia prevista per il 2017. Il concerto sold out da mesi ha richiamato al Fabrique molti fan e non sono mancate le lunghe file all’ingresso e qualche disagio per chi è riuscito a entrare a concerto già iniziato.

Continue Reading

Read More

10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #03.02.2017

Written by Playlist

Bonobo – Migration

Written by Recensioni

Top 30 Italia 2016 | la classifica di Maria Pia Diodati

Written by Classifiche

Le Classifiche 2016 di Silvio “Don” Pizzica

Written by Articoli

10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #04.11.2016

Written by Playlist

I DISCHI CHE NON TI HO DETTO | Italia sintetica

Written by Recensioni

I confini tra Rock ed Elettronica sono ormai estremamente labili e da tempo la materia sintetica si insinua anche nelle produzioni nostrane, contaminando e rinnovando la tradizione cantautoriale o rinnegandola totalmente con lo sguardo proiettato oltre i confini della Penisola.
Tra le uscite degli scorsi mesi di questo 2016 abbiamo selezionato alcuni dischi in cui, sebbene giochi di volta in volta un ruolo diverso, la componente Elettro è di certo essenziale e imprescindibile.

Continue Reading

Read More

President Bongo – Serengeti

Written by Recensioni

Perché un artista islandese dovrebbe narrare in note terre tanto lontane fisicamente e idealmente? La risposta è nella definizione che Stephan Stephenson (suo vero nome) si è cucito sulle spalle: lui è un carpentiere emozionale e in quanto tale non può che superare ogni sorta di limite per costruire addosso a ognuno di noi l’emotività voluta. Se a qualcuno il nome President Bongo non ha detto nulla, considerando anche che questo è un disco d’esordio, il succitato nome di battesimo dovrebbe ricordarvi una band fondamentale per l’Elettronica nordica che si è sviluppata dai Novanta. Il nostro President è stato, infatti, dalla formazione al 2015 uno dei membri dei GusGus, band di Reykjavik che ha brillantemente esplorato territori vasti dall’House alla Techno, dal Trip Hop all’Elettronica passando per il Pop più “sintetico”.

Se non lo avete capito dall’incipit, Serengeti (disco uscito nell’ottobre 2015 ma, in edizione italo-francese con bonus, nel 2016) narra dell’Africa e, più nello specifico, dell’annuale e mastodontica migrazione dei mammiferi nella regione orientale del continente, raccontando attraverso una miscela molto aderente al concetto dell’opera, la ciclicità eterna di tale spostamento, in apparenza sempre uguale a se stesso ma in realtà ogni volta difforme a causa di diverse condizioni climatiche e non, piccole variazioni che rendono ogni esperienza unica. Quasi a esprimere e ampliare uno dei concetti fondamentali di Eraclito, President Bongo vuole esprimerci tutta la forza del mutamento, del cambiamento e del divenire anche quando l’apparenza sembra suggerire un’illimitata reiterazione del momento.

Per esprimere tutto questo, l’artista islandese sceglie strumenti tutto sommati simili a quelli usati nel progetto GusGus ma il risultato è certamente differente, molto più teso verso un’Ambient e un’Elettronica old style, di chiara ispirazione Eno e con elementi etnici e Afro Jazz che tanto ricordano i Dead Can Dance, oltre ad elementi Folk, Blues e Neo Classic (“Levante”) ed è proprio questa varietà che finisce per fare da legante tra le terre gelate del nord e il Serengeti.

Nonostante i pezzi siano stati scritti tra paese d’origine, New York e Berlino, il riferimento al continente nero non è solo frutto del suo ingegno ma deriva anche dall’esperienza che l’autore ha fatto su queste terre cariche di vita e musica ancestrale; e la scelta di questa terra è anche un omaggio alla sua musica che in fondo è la genesi di tutto quello che abbiamo oggi.

In atto di ossequio all’Italia, gli otto brani che rappresentano un diverso momento di questa grande migrazione, a volte attimi, a volte intere giornate, hanno tutti il nome di venti italiani (l’autore è affascinato da come ogni nostro vento prenda nome diverso secondo la provenienza cardinale) e lo stesso nome non è stato scelto a caso ma con riferimento alle caratteristiche del vento stesso e a come queste si legano con il suono del brano.

Serengeti è un disco complesso nella sua genesi e non semplicissimo all’ascolto, variegato e multiforme, la cui descrizione è fondamentale per comprenderlo al meglio. Allo stesso tempo è opera di pregio assoluto, con alcuni spunti strepitosi, decisamente in grado di esprimere tutto quello che si era preposto in fase di scrittura. Non aggiungerà molto al panorama nel quale possiamo inserirlo ma il pregio e la cura con cui è realizzato e la resa all’ascolto ne fanno uno dei migliori dischi dell’anno passato che noi poveri italiani possiamo goderci nell’anno in corso.

Read More

Fast Listening | Luglio 2016

Written by Recensioni

Le Larve – Non sono d’accordo (Cantautorato, Rap) 6,5/10
Ispirato, audace e incazzato: Non sono d’accordo de Le Larve, al secolo Jacopo Castagna, è proprio così. Il suo cantautorato in-opposition sa di rabbia verso la società e la falsità di certi rapporti umani. Un fiume in piena colmo di spunti interessanti ma che avrebbe bisogno di essere arginato quel tanto che basta per esprimere al meglio tutto il proprio potenziale.  Da non perdere “Fantasmi” e “Quello che sono”, con il prezioso feat. di Chiara dello Iacovo.

[ ascolta “Fantasmi” ]

The Great Saunites – Nero (Heavy Psych) 6/10
Più meditato dei suoi predecessori, Nero, suite di 35 minuti divisa in tre parti, conferma l’ossessione dei lodigiani per il tribalismo e per la circolarità del suono, andando però a perdere un po’ troppo in fisicità, soprattutto lungo i 19 minuti dell’iniziale title-track. Funzionano meglio i due successivi movimenti (“Lusitania” e “Il Quarto Occhio”) ma ci si trova in definitiva di fronte ad un lavoro che ad ascolto concluso non ci lascia dentro grandi tracce di sé, risultando meno scuro e misterioso di quanto probabilmente si sarebbe voluto. Insomma, un piccolo passo indietro per due musicisti che comunque non si discutono.

[ ascolta “Lusitania” ]

The Star Pillow – Above (Ambient, Drone) 7/10
Registrato al Btomic (storico locale spezzino chiuso ad inizio anno) davanti al solo Jacopo Benassi (tra i proprietari del locale),  questa nuova fatica del toscano Paolo Monti è una cosmica escursione chitarristica Ambient-Drone. Un intimo viaggio nel buio siderale dalla durata di 48 minuti suddivisi in 5 coinvolgenti tracce, morbide, sognanti, crepuscolari, abissali e cinematiche che rappresenta indubbiamente uno dei migliori dischi nel genere firmati da un artista italiano in questo 2016. Ad impreziosire il già pregevole lavoro, prodotto da Time Released Sound, troveremo nell’edizione limitata il CD inserito nel box di una pellicola Kodak del 1969 (anno dello sbarco sulla Luna di Neil Armstrong) ed all’interno della confezione foto originali della NASA scattate in quello stesso anno.

[ ascolta “Sleeping Dust” ]

Le Scimmie – Colostrum (Doom Metal) 6,5/10
Formazione nuova (ingresso di Simone D’Annunzio all’effettistica oltre che un cambio dietro le pelli dove ora siede Gianni Manariti) e nuova forza espressiva per la band di Vasto. Lontano dal poter dirsi originale, Colostrum è comunque un disco che libera una grande potenza e che, anche grazie ai nuovi componenti della band, riesce a fissare e descrivere meglio le atmosfere del trio guadagnando in densità e tensione, risultando indubbiamente superiore al precedente Dromomania. Un buon passo avanti ed un convincente lavoro per la band capitanata dal chitarrista Angelo Mirolli.

[ ascolta “Crotalus Horridus” ]

Mesarthim – Isolate (Atmospheric Black Metal, Doom, Elettronica) 6,5/10
I growl lontani e riverberati non sporcano più di tanto questo disco di Black Metal travestito da Post-Rock atmosferico (o è il contrario?). Sono ambienti distesi e armonie avvolgenti quelli attraversati dai Mesarthim con le loro chitarre ultra-distorte, i loro assoli retrò e le loro batterie col doppio pedale continuo, in un mistone di rilassatezza e tensione che pende forse più verso la prima che verso la seconda. Qua e là spuntano persino curiosi arpeggiatori, synth frizzanti e pianoforti lievi, in un crossover Metal-Ambient che ricorda qualcosa dei Junius e che incuriosisce più del previsto.

[ ascolta “Declaration” ]

Dubioza Kolektiv – Happy Machine (Balkan, Ska-Punk, Dub, Hip-hop) 7/10
Gruppone bosniaco ribelle che mescola stralci di musica tradizionale e generi alternativi per cantare dai bordi d’europa la voglia di un mondo diverso, con pochissimo cinismo e tanta fame di cambiamento e festa. Il disco è divertente, ballabile e intenso: pur senza inventare granché, riesce a rimanere interessante mescolando suoni e culture in un marasma che, nel caos, coinvolge facilmente. Con partecipazioni di, tra gli altri, Manu Chao e Roy Paci.

[ ascolta “No Escape” ]

Fiumi – The Fat Sea Time (Indie Rock) 6/10
Dopo due EP e una  decennale esperienza sui palchi i Fiumi ci presentano il loro primo disco. E lo fanno molto bene, offrendo dieci tracce variegate e godibili. La matrice di partenza è un sound ispirato agli anni 90, ma che sa essere moderno, giocando sapientemente a volte con la psichedelia, a volte con sporcature di elettronica o lievi distorsioni.  Un disco che riesce trasmette con leggerezza un senso malinconico, che ti avvolge con piacevolezza ed equilibrio, mai eccessivo e mai carente nell’ispirazione.

[ ascolta “In The Noise” ]

Monaci del Surf – Vol. 3 (Surf Rock) 5/10
I Monaci del Surf sono degli ottimi musicisti e degli ottimi performer che fanno scatenare il pubblico a botte di surfer riff. Il loro terzo capitolo non si discosta dai precedenti lavori ed composto completamente da cover riadattate in chiave surfer. Ce n’è per tutti i gusti, dai Nirvana ai Depeche Mode, agli Offspring, senza dimenticare la madrepatria con Donatella Rettore e Nicola di Bari. Come tradizione vuole per i Monaci del Surf è vietato prendersi troppo sul serio quindi, tra la cover della sigla di Game Of Thrones a “Sognando la California”, mettete le cuffie e let’s surf.
[ ascolta “California dreamin’ “ ]

Alessandro Sipolo – Eresie (Cantautorato, Folk) 6,5/10
Sipolo è un cantastorie d’altri tempi, dalla voce suadente e dalla penna fine, e il suo Eresie un concentrato di atmosfere: Folk, soprattutto, ma anche Manouche, Blues, Rock e latine, impregnate sempre di una forza lirica e una coerenza ideale degne di ammirazione. Raffinato e multiforme, capace dell’intensità dolorosa di “Tra Respirare e Vivere” e dello sberleffo ironico di “Comunhão Liberação” con la stessa credibilità, soffre un po’ il cliché del Folk impegnato (Modena City Ramblers, Bandabardò) ma riesce spesso ad arginare il déjà vu grazie a uno sguardo che dimostra di possedere, qui e là, una sensibilità non comune.
[ ascolta “Comunhão Liberação” ]

Read More

Julianna Barwick – Will

Written by Recensioni

Dopo i buoni riscontri ottenuti con The Magic Place, lavoro minimale per piano e voce, e col successivo Nepenthe, registrato in Islanda da Alex Somers, dove il suono si faceva più ricco grazie alla collaborazione dell’ensemble d’archi delle Amiina e del chitarrista dei Múm, Julianna Barwick torna con questo Will, album piuttosto atteso per quanto uscito in un periodo nel quale pagare dazio ai vari Radiohead, James Blake ed Anohni risulta pressoché inevitabile.
In questo nuovo lavoro la Nostra torna a scrivere e produrre da sola, senza però farsi mancare il sostegno, in svariati brani, del violoncello di Maarten Vos, dell’elettronica di Thomas “Mas Ysa” Arsenault (presente in un paio di episodi anche alla voce) nonché della batteria di Jamie Ingalls nel pezzo conclusivo del disco.
Il canto, che per la Barwick è un linguaggio etereo e simbolico (difficile riconoscere parole se non qualche titolo dei brani) ma assolutamente capace di farsi a suo modo graffiante (come se su esso, per dirla alla Fernando Pessoa, o se preferite alla Bernardo Soares, aleggiasse la minaccia di un temporale che però infine si verificaaltrove), in questo disco si fa meno centrale, completamente immerso nelle textures realizzate dal Minimalismo strumentale andando così a creare un effetto, se possibile, ancor più evanescente che in passato.

Registrato in perenne viaggio, isolandosi in luoghi più o meno desolati tra Stati Uniti e Portogallo, Will vive di questa propulsione risultando volutamente meno compiuto e definito dei precedenti lavori dell’artista di Brooklyn ma, nonostante questo senso di incompletezza, indubbia è la sensazione di trovarsi di fronte ad un disco dalle grandi potenzialità e con alcuni momenti che risultano essere tra i migliori in assoluto che la Barwick abbia fin qui inciso, per quanto uno sviluppo migliore avrebbe aumentato l’incanto, ad esempio, della già ottima apertura di “St. Apolonia” e del suo doloroso eco (mai come in questa occasione risulta evidente la formazione nei cori ecclesiastici della Nostra) al quale il violoncello aggiunge ulteriore drammaticità o, ancor più, della misteriosa “Wist” che invece così proposta regala più che altro un senso di bellezza incompiuta.
L’ammaliante voce della Barwick, incorporea e stratificata, regala vertigini in brani spettrali basati su synth piuttosto statici ed essenziali che svaniscono impercettibilmente (“Nebula”), dona carezze durante le armonizzazioni con la voce di Arsenault tra armoniose tessiture di violoncello e synth (“Same”), si rivolge a cose care, ma lontane e perse, in deliziose fusioni tra voce e piano dal grande potere mistico (“Big Hollow”), si sposta, tra tasti di pianoforte premuti dal peso della malinconia ed echi violoncellistici, verso il Neoclassicismo descrivendo il desiderio di casa di un’anima che ha viaggiato troppo (“Heading Home”) e crea, in luoghi indefiniti e illimitati, scrigni dorati contenenti questi pensieri, queste speranze e queste illusioni realizzando con la complicità della voce di Arsenault, qui ancor più flebile, dolci intrecci catartici e contemplativi (“Someway”).
La conclusiva “See, Know” col suo ritmo più sostenuto va un po’ a stridere con il resto del lavoro, la batteria crea trame circolari piuttosto corpose ed i synth si fanno molto più insistenti che altrove contrastando con la voce, sempre delicatissima.

Viaggio interiore perennemente coperto da un velo di nebbia dal quale però è sempre possibile scorgere uno spiraglio di luce; come se dopo The Magic Place, dedicato ad un vecchio albero della fattoria dove la Barwick visse la sua infanzia e Nepenthe, farmaco che nella mitologia greca lenisce il dolore, la Nostra con questo nuovo full length abbia trovato una personale forza di volontà che, per quanto fragile, le permette di vivere e curare le proprie malinconie dentro di sé, dovunque si trovi.
Will è un disco che prende più di uno spunto dai lavori precedentemente pubblicati dando però più sostanza ai riverberi ed ad un sintetismo, escludendo il brano conclusivo, sempre giustamente misurato che permette alla Barwick di risultare ancora più incorporea durante le sue stratificazioni corali confermando le sue innate doti vocali ed il suo gusto compositivo, ciclico e minimale, con quello che è sicuramente il suo lavoro più aleatorio ed impressionistico. Una soluzione che in futuro, su lavori maggiormente coesi, potrebbe regalarci dischi che rischieremo di portarci dentro per molto, moltissimo tempo.

Read More

Niagara – Hyperocean

Written by Recensioni

“Musica dell’altro mondo”, come si suol dire, perifrasi entusiastica di cui spesso si abusa, a voler condensare in poche parole la sensazione tonificante di star ascoltando qualcosa di inedito. Giunti al terzo album in studio i Niagara ci mettono in condizione di poter usare l’espressione senza risultare poi così esagerati.
Non che nelle puntate precedenti Davide Tomat e Gabriele Ottino abbiano mancato di sorprenderci piacevolmente, ma c’è uno scarto sostanzioso tra le intuizioni del passato e l’ambizione con cui Hyperocean è nato, come luogo ancor prima che come disco, perchè questo terzo atto ha davvero la pretesa di essere musica dell’altro mondo, colonna sonora di un pianeta immaginario e immaginifico: brano dopo brano, le sue undici tracce modellano le fattezze di un universo che non contempla terre emerse, in cui apprendere l’arte dell’ascolto in apnea è condizione necessaria per la sopravvivenza.
L’attrazione dei Niagara per lo stato liquido, che pure era tangibile nei suoni immersi nel fluido elettrico di Don’t Take it Personally, si spinge fino a diventare principio ispiratore di una dimensione parallela governata da logiche compositive ancora da scoprire, in cui l’acqua è elemento imprescindibile, che lasciato a reagire con le strutture melodiche le disgrega e ne disperde il senso.

Il duo cementa il sodalizio con la londinese Monotreme Records e conferma la necessità di guardare oltre i confini della Penisola nel caso in cui ci si voglia sforzare a collocarli entro correnti e tendenze: le arguzie compositive di producer come Arca e Lapalux, le perturbazioni ovattate di Oneohtrix Point Never, l’ossessività degli Animal Collective. Nelle liriche sommerse dei Niagara trova spazio un nuovo modo di fare cantautorato, che rifugge i costrutti collaudati eppure mantiene la vocazione Pop, scegliendo la musicalità della lingua inglese che si confà al suo ruolo, perchè il cantato ha lo stesso peso degli altri layer sonori.
L’analogico è ridotto all’osso, percussioni e acqua, catturata da idrofoni in ogni condizione e stato, dagli abissi marini al ghiaccio in una bacinella. Il resto è lavoro in digitale di sovrapposizione strato per strato di anomalie e pulsioni emotive. Sui gorgheggi metallici dell’opener “Mizu” si incastra una voce femminile robotica, sopraffatta poi dal crescendo dei synth.  Materia sonora di ogni tipo confluisce nei brani e ne esce snaturata: orchestre di archi acidi che suonano come vetri rotti in “Escher’s Surfers”, molecole di nebbia elettrica che sibilano in “Fogdrops”, abrasioni regolari a cadenzare linee vocali e riverberi Psych plastificati di “Blackpool”. Nell’accumulo di elementi sonori, sono piccoli escamotage quelli che innescano la detonazione, come ad esempio un lieve sfasamento, quello tra i sample che si rincorrono nella title track, o quello tra i singhiozzi sintetici e i loop vocali di “Solar Valley”.
L’impasto è artefatto ma suona vivo e pulsante, dall’inizio al finale incompiuto di “Alfa 11”, una nenia disturbante che degenera dilatandosi in sferzate apocalittiche per oltre dieci minuti, fino a placarsi in una calma che ha tutta l’aria di essere solo apparente.

Al termine del viaggio le linee guida del sound dell’altro mondo sono ben delineate, e il disco che ne porta il nome suona organico, più oscuro e inquieto del suo predecessore. Quelli esotici e tecnologici di Don’t Take it Personally sono stati luoghi affascinanti, ma pur sempre parte del nostro pianeta e confinati in quel limbo che è il presente, mentre Hyperocean ha le ispirazioni giuste e l’audacia sufficiente per inventarsi un possibile futuro post-elettronico.

Read More