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Daughn Gibson – Me Moan

Written by Recensioni

Daughn Gibson, per chi non lo sapesse, è il nome d’arte di Josh Martin, trentunenne ex-camionista della Pennsylvania che con la sua voce tenebrosa e le sue trucide storie di disagio, miscelate ad un Country elettrificato, sta conquistando pezzi di un pubblico sempre più vasto. L’immagine è quella di un ragazzo che percorre chilometri di asfalto sul suo camion in giro per gli USA: nottate in squallidi motel, soste in bettole di provincia piene di ubriaconi e il rapporto con le proprie origini, conservatrici, di provincia. La sintesi del personaggio è stata accostata al mitico Johnny Cash, sia per il tipo di storie raccontate, storie di gente emarginata, borderline, sia per il modo di interpretare il proprio personaggio. Ovviamente, anche se ci sono punti in comune fra i due, Daughn dovrà fare la sua parte e dimostrare nel tempo, con una dose massiccia di creatività, questo accostamento a un mito del Rock Made in U.S.A..

Dopo il suo primo lavoro All Hell (2012), edito dalla White Denim Records e scovato da Pitchfork che l’ha reso noto al grande pubblico, Me Moan è il suo secondo album, uscito all’inizio di quest’estate. Pieno di un Country sgocciolante e una ritmica abissale ha sorpreso tutti quando la mitica Sub POP Records l’ha rilasciato. Ma c’era da aspettarselo che una qualche etichetta di rilievo si occupasse di una voce così spessa e profonda. Nel passaggio tra le due case discografiche Gibson al momento perde parte della narrazione, le storie diventano storielle meno definite e più aperte allo specchio dell’ascoltatore con la melodia che segue provando ad essere meno introspettiva e più addolcita per un pubblico più vasto; Meno suoni campionati e una ritmica minimale. Rimane validissima la sua rielaborazione della Country Music che si porta dietro fatta di note elettriche miscelate alla classica strumentazione Rock che attribuisce uno stile evocativo ai suoi testi che insieme alla sua voce ci trasportano in una sorta di altare dove vengono sacrificati emarginati, disadattati, mignotte, tossici e marchettari.

Anche se Me Moan si distanzia dal precedente lavoro sacrificando originalità e scaltrezza a favore di un risultato più tondo e immediatamente usufruibile per il pubblico, rimane sempre la sua voce baritonale che ci schiaccia vorticosamente in questi oli raffiguranti situazioni ai bordi della società. Un po’ a tinte scure e struggenti come in “Franco” storia di isolamento, un po’ ballata Country come nel primo singolo estratto “Kissin on the Blacktop” che potete ascoltare qui sotto e un po’ Dance con ululati di fantasmi campionati con “Phantom Rider”. Un album più disomogeneo e meno raffinato rispetto l’esordio ma nel complesso produce un onda tra le varie canzoni che lo fanno scorrere per tutti i suoi settanta minuti. Da non perdere assolutamente anche “Mad Ocean”, “You Don’t Fade” e la finale “Into The Sea”.

Mr Gibson con la sua voce si spinge sicuramente sempre un po’ più nell’eden dei cantautori americani anche se per arrivare anche solo alla cinta di Mr Cash avrà bisogno di molta fortuna nel panorama vaporoso della musica attuale e probabilmente di una chitarra.

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Dead Man Watching – Love, come on!

Written by Novità

Genere arduo, almeno per il sottoscritto, quello con cui si misurano i Dead Man Watching, trio veronese che dopo due Ep pubblica il suo primo “Full lenght”. Genere in cui è facilissimo sbagliare e risultare, come dire, un po’ banali.  Fosse realmente alt country sarebbe facile bollarlo come un tedioso tentativo di sentirsi piccoli Neil Young alla riscossa. E invece l’album è una piacevolissima scoperta ascolto dopo ascolto. Ricchissimo di spunti, contaminazioni che vanno dallo slowcore al brit-pop i Dead Man mostrano di saperci fare e di catturare l’attenzione a piccoli colpi di classe e intelligenti accorgimenti che denotano stile ed eleganza. Avete presente quell’arguzia di Jeff Tweedy  in grado di riabilitare cantautori solitari mid-seventies e farli apparire moderni e sensati rileggendoli in chiave anni novanta? E’ più o meno così che suona quest’album. Mascherata la tecnica e messe da parte volontà individuali di eccellere, il trio trova costantemente il giusto equilibrio tra i moltissimi ingredienti desiderati senza sbilanciarsi mai troppo. Minimale quanto basta per dare sensazioni più che lasciare soddisfatti, il disco passa con disinvoltura da momenti più acustici e intimisti (August Burns, Love, come on!) a spunti più devoti al classic rock (Give it a sound) sempre affrontati in maniera consapevole e originale: il crescendo finale di chitarra in Red Baloon non solo è da manuale ma è ancor più intrigante e spettacolare l’idea di smorzarlo quasi sul nascere evitando un evolversi banale e scontato. Piccoli grandi Wilco di casa nostra crescono.

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