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Sleepmakeswaves – Love of Cartography

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Quando decollano le prime note (“Perfect Detonator”) del secondo full length targato Sleepmakeswaves, la prima preoccupazione da cui il mio istinto ha cercato di sfuggire è stato dovermi sciroppare dieci pezzi di una mistura Emo Pop dalle venature sinfoniche con un qualche vocalist dall’imbarazzante intonazione in stile Gerarg Way (My Chemical Romance) a massacrare la mia pazienza. Per fortuna, la memoria funziona ancora abbastanza bene e, con facilità, ho potuto distinguere, nelle note di Love of Cartography, lo stesso stile (una specie di Ambient Rock prettamente strumentale) melodico e dalle tendenze a una certa epicità che mi colpì, senza far danni, tre anni orsono con …And So We Destroyed Everything e ancor prima, nel 2008, con In Today Already Walks Tomorrow (non sono queste però le prime produzioni del quartetto di Sidney, le cui radici vanno invece ad affondare ancor più in là, agli inizi del 2007).

Rispetto al passato, il sound di Jonathan Khor (chitarre), Alex Wilson (basso, programming, tastiere), Tim Adderley (batteria) e Otto Wicks-Green (chitarre), diviene ancor più rapsodico, gonfiandosi di un’energia che si sfalda nell’ inoltrarsi dei minuti, disfacendosi nell’incapacità di plasmare una trepidazione sonica di sorta. Perspicace la scelta di non abbandonare la melodia, alla ricerca di una sperimentazione che li avrebbe resi ancor di più difficile ascolto e costruttivo è l’uso dell’elettronica che si fa più incalzante da “Emergent”. Eppure, Love of Cartography annoia, non incanta, non fornisce la giusta carica che solo certi album strumentali riescono a dare (penso a Lift Yr. Skinny Fists Like Antennas to Heaven! dei Godspeed You Black Emperor! o The Earth Is Not a Cold Dead Place degli Explosions in the Sky) e finisce per somigliare a un album ancora abbozzato al quale si debba aggiungere una voce, più che a un’opera compiuta. Provano a spezzare la monotonia alcuni brani più elastici come “A Little Spark” e convincono altri più vicino al rock strumentale moderno (“How We Built the Ocean”) ma nel complesso, nel già intricato e contorto mondo del fosco Post Rock, c’è ancora troppa roba con un passo decisamente oltre quello di questi nuovi Sleepmakeswaves.

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Alt-J – This Is All Yours

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Sono in tre, sono inglesi e sanno bene cosa fanno. Gli Alt-J nascono nel 2007 e pubblicano il loro album di debutto (An Awesome Wave) nel 2012. Un disco che lascia la critica piuttosto spiazzata, considerata la massiccia mole innovativa che lo compone. A distanza di due anni, il 22 settembre corrente anno, pubblicano il loro secondo lavoro: This Is All Yours. Senza dubbio alcuno questo è stato uno degli album più attesi di questo 2014. Sarà che il precedente e pluripremiato (si veda il Mercury Prize) An Awesome Wave fu nel 2012 acclamato dalla critica come tra i migliori esordi di sempre, sarà perché, come diceva qualcuno, “Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista”, sarà perché gli Alt-J sono riusciti a sfiorare le vette del mainstream internazionale con un sound talmente proprio e identitario da potersi dire tutt’altro che commerciale e sarà perché a gennaio di quest’anno hanno annunciato l’abbandono del bassista Gwil Sainsbury, tra lo scompiglio degli ormai già affezionatissimi fans e della band stessa.

Per capire dunque se la band sia riuscita a superare l’affannosa “prova del due” ci occorre premettere, per onestà intellettuale, un aspetto assai importante: This Is All Yours e An Awesome Wave sono dischi molto diversi tra loro. I ragazzi di Leeds con questo ultimo lavoro hanno certamente maturato un sound più introspettivo e spettrale, con chiari (e nemmeno troppo celati) richiami alla musica medievale (soprattutto dal punto di vista vocale, come si può notare in “Intro”) e alle sonorità soffuse alla Sigur Ròs (basti pensare a “Choice Kingdom”, settimo episodio della serie). Se cerchiamo singoli alla “Breezeblocks” o “Fitzpleasure”, per intenderci, rimarremo delusi. Non c’è traccia di quella brillante tensione metropolitana ben confusa con la furia della natura che caratterizzava le sonorità e le atmosfere dell’esordio. Da This Is All Yours traspaiono una cupezza disincantata e un’alienazione divertita. I bassi sintetizzati e le percussioni triggherate sono diventate assai meno invadenti e ci si sorprende un po’ quando con la bucolica “Warm Foothills” (decisamente l’episodio meno originale dell’opera) arriviamo ad essere cullati dolcemente, tra un fischio Folk e la delicatissima voce della gradita ospite Lianne La Havas. “Nara”, “Left Hand Free” e “Every Other Freckle” sono probabilmente i brani più significativi dell’intero disco. “Nara” è un inno alla libertà, dedica dichiarata alla città giapponese dove i cervi scorrazzano senza barriere o restrizioni di sorta, indicativa per capire il cambio introspettivo della band e che, insieme con il resto della trilogia (“Arrival in Nara”, “Leaving Nara”), sembra completare una preghiera pagana dai toni oscuri e processionali. “Left Hand Free”, capitolo numero cinque, è il brano più “radiofonico” e sembra volerci ricordare che questo “allontanamento dalla città” non è che un momento di passaggio, un po’ come lo è un secondo disco all’interno di una lunga carriera. “Every Other Freckle”, oltre ad essere una track dallo spessore non indifferente, è senza esitazioni un capitolo importante, rappresentando il legame diretto con le sonorità che valsero la fama del primo disco e quello che è il loro presente più contemporaneo. La traccia si presenta in piena dote di una grandissima coscienza d’arrangiamento e caratterizzata da una vena artistica naif ribelle e anarchica, che sfida la forma canzone classica e che punta dritto al futuro davanti a noi.

Niente più tempeste, dunque, niente onde imponenti in cui disperderci, ma un gradevolissimo viaggio lungo un’ora, che attraversa il tempo (sull’internet si vocifera che il disco sia stato registrato in una chiesa medievale) e che vuole superarlo, consapevole della maturità acquisita, capace ancora di sorprendere, pur se in maniera assai meno diretta. Per la seconda volta il giovane trio passa le selezioni e punta alla vetta, mantenendo le promesse fatte a suon di musica appena due anni fa. Tutte quelle promesse contenute in  un’opera impressa su disco, sotto il titolo di An Awesome Wave.

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Phantom Love – Crave For Lust

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Phantom Love è il nuovo volto di Valentina Fanigiulio, una degli migliori espressioni dell’avanguardia musicale. Un’artista che collochi difficilmente in un’area geografica. Crave for Lust, il suo ultimo lavoro, raccoglie tre tracce di grande suggestioni. Niente parole, ma molti suoni, che pescano da più tradizioni insieme: Elettronica, Shoegaze, New Wave, Psichedelia e Kraut. Pezzi ipnotici che ti proiettano, come minimo, in qualcuno dei migliori locali che puoi aver frequentato finché il tuo fisico ha saputo sopportare ore di trance e luci colorate. Sì, probabilmente per apprezzare fino in fondo questo lavoro devi essere un appassionato. Sì, forse non è un disco che ascolti in perfetta scioltezza, ma in queste tre tracce c’è la sintesi di una frontiera musicale che continua a sperimentare, incrociando digitale e analogico senza timore. Phantom Love, oppure Mushy, oppure ancora Valentina, così si legge nella sua presentazione, ha tra i suoi “fari”, Kenny Carpenter,  Michael Mann e la scena elettronica underground che va da Detroit a Roma. Che possa avere tutte le carte in regola per avvicinarsi ai suoi artisti di riferimento lo conferma il fatto che abbia creduto in lei la newyorkese ZeroKilled Music. Va bene, non metterei questo Ep nello stereo dell’auto per farlo girare a ripetizione, ma il lavoro di Phantom Love è tutt’altro che da scartare.

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Le Ceneri e i Monomi – La Sciarpa

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Bologna, classe 1995. Irene Cassarini (voce, chitarra), Luca Jacoboni (voce, tastiere), Andrea Turone (basso, cori) e Nicolò Formenti (batteria) portano alla luce un progetto decisamente interessante, celato dietro un nome altrettanto interessante: Le Ceneri e i Monomi. Appena diciannovenni, danno vita, corrente mese, al loro terzo EP: un disco pienamente invernale, dalle sonorità all’immagine di copertina fino al titolo: La Sciarpa. Il lavoro si realizza attraverso cinque capitoli perfettamente amalgamati in grado di donare un ascolto omogeneo e lineare che in nessun momento riesce pesante e che scorre dal primo all’ultimo episodio pulito e vergine. Apre con un malinconico inno alla fuga, per poi dare spazio a sonorità in perfetta linea con quelle proposte da band quali Il Disordine delle Cose o Amycanbe. Probabile che si tratti di pura casualità, ma mi si perdoni il paragone: è inevitabile. “Aspetti” è il capitolo numero uno e traccia dopo traccia, le due voci si alternano in un dialogo in riva al mare in una notte di novembre, raccontando i disagi ed i sogni di una gioventù in balia degli eventi. Ma non di quelle gioventù bruciate e fredde di cui oggi, bensì di una generazione che non smette di sperare nel domani. Che si tratti di un domani reale o di un domani artistico non ci è dato sapere, ma il messaggio è l’idea, la metafora, non di certo la materialità della cosa. I capitoli successivi si articolano fra chitarre e synth tutt’altro che invadenti ed in perfetta armonia con le voci e la delicatezza della batteria, che trovano la massima ispirazione in “Irene in D maggiore”, capitolo numero tre dell’opera. Dopo soli 19’ e 38’’ i quattro emiliani ci salutano con il brano che dà il titolo all’intero EP: “La Sciarpa”, la perfetta sintesi fra malinconia, speranza, realtà e musica. Si lascia sufficiente spazio ad uno strumentale che fa vibrare corde Alt Rock, ma senza prepotenza e senza stonare nel complesso.

In buona sostanza il disco si presenta candido, ma al contempo dal carattere pretenzioso. Ascoltarli è trovare un quadrifoglio e poi riderci su, dicono di loro. Il messaggio è quello di quattro amici con la voglia di fare musica e null’altro, ma di farla bene. Lievi difetti stilistici sparsi fra i vari capitoli e qualche piccolo errore che soltanto il tempo sarà in grado di correggere. Non siamo innanzi ad alcuna pietra miliare, ma di certo non siamo neppure in presenza di un lavoro da poco. Sono giovani, la strada e lunga e di scalini ce ne sono ancora tanti, ma la cosa certa è che queste Ceneri sanno proprio il fatto loro ed hanno ben afferrato la strada da seguire: una strada fatta di sonorità organiche e composte, leggere, ma sapienti. Dunque, non ci si può aspettare virtuosismi e prestazioni da capogiro, ma, personalmente, ancora una volta voglio accordare fiducia a questi giovani emiliani e lascio un voto di mezzo, a metà fra qualcosa di bello e qualcosa che è soltanto alle prime luci del Sole. Magari chissà, novembre che viene potrei andare anch’io a fare una passeggiata in riva al mare.

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The Suricates – Storie di Poveri Mostri

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Tornano The Suricates, band abruzzese che fa seguire ad un EP del 2012 questo disco dalla genesi affascinante: racconti sonori che vanno ad intersecarsi con le narrazioni e le fotografie dello scrittore/fotografo Antonio Dragonetti. Storie di Poveri Mostri è composto da sette brani dalla pasta oscura e dall’andamento quasi cinematografico, da colonna sonora. Le trovate ad effetto sono spesso curiose e interessanti (l’andamento a tratti rettilineo e a tratti arzigogolato di “Il Sacrificio”, ad esempio), e la ricerca di soluzioni non ovvie si srotola accanto all’utilizzo di passaggi più sentiti e più comodi. Tutto ciò però viene trascinato verso il fondo dalla ruvidezza del reparto tecnico. I suoni sono terribili, con le tastiere che sanno di finto e le chitarre che ronzano in distorsioni dall’apparenza poco curata. La voce tenta la via della teatralità senza forse poterselo permettere (“Le Streghe”). Il mixaggio, in generale, suona confuso, e in certi momenti le ritmiche sovrastano la voce, rendendola incomprensibile, oppure creano pastoni incostanti con le tastiere. Storie di Poveri Mostri è un disco che parte interessante, con una composizione che s’indovina lucida e a tratti audace, ma che purtroppo, alla fine dell’ascolto, non riesce a confermare i lati positivi che, qua e là, svettavano nel caos cupo di questo concept coraggioso. La stoffa c’è, il vestito è cucito male.

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Area765 – Altro da Fare

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Nel 2011 i Ratti della Sabina si sciolgono, abbandonati dal loro fondatore Roberto Billi. Ma i ragazzi della band hanno ancora molto da dire, e riformano la band senza Billi, la battezzano Area765 e, mentre portano dal vivo i brani storici in una veste più immediata e Rock, pubblicano un nuovo primo disco, Volume Uno. Passa qualche anno e si arriva al presente: esce Altro da Fare, un lungo (diciotto brani) disco unplugged dove i quattro componenti della band si divertono a riarrangiare in chiave acustica pezzi tratti da Volume Uno e dalla lunga storia dei Ratti. Il risultato è piacevole, un disco leggero e fresco, davvero immediato, che si fa ascoltare con desiderio. I brani sono vari, e se gli arrangiamenti sono scarni e nudi, questo non fa che concentrare l’attenzione sul nucleo fondante dei pezzi, rendendo il disco un ottimo punto di partenza per chi volesse approcciare la band (anzi, in questo caso, “le” band) per la prima volta. I due inediti (“Altro da Fare” e “L’Ultimo Tango”) si inseriscono perfettamente nella lunga teoria di ballate sostenute dagli strumenti a corda (chitarre acustiche, bouzouki, dobro), da una voce che suona vicina e intima, da poche percussioni e ancor più rari strumenti solisti (violino soprattutto, ma anche diamonica, armonica). Un disco da consumare anche con facilità, se si vuole. Un disco semplice, ma non banale. Un disco che è un concentrato di ottime canzoni, distillate dalla storia pluriennale di una band che sa fare molto bene il suo mestiere. Come un concerto privato, solo per noi, sulla spiaggia, sotto le nuvole, senza pensare a niente.

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Ponda – Vinavil

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0882 è il prefisso telefonico di quella parte della provincia di Foggia che ha a che fare con santi, laghi salati, isole al largo del mediterraneo e piccoli borghi ad alto consumo di Birra Peroni. La 0882 Fam è quella invece citata sulla copertina Vinavil, ultimo disco di  Ponda, un lavoro autoprodotto, registrato e missato dove capita, prodotto grezzo e genuino, come specificato sul retro della copertina. Vinavil, la colla vinilica che tutti almeno una volta nella vita si sono spalmati sulle dita per poi tirarla via, come una pelle che ormai non ci appartiene più; Vinavil, l’adesivo universale inodore, che poi in realtà un odore ce l’ha, e credo sia rimasto impresso nella mente di molti. I riferimenti al Sud ed alla Puglia in particolare sono tanti, a partire già dall’“Intro”, dove a tratti fa capolino l’inconfondibile voce di Lino Banfi; ma l’elemento distintivo principale  di questo prodotto made in Sud è l’utilizzo del dialetto come forma espressiva nella quasi totalità del disco, cosa che caratterizza enormemente il lavoro ma che rischia di renderlo incomprensibile al di fuori del territorio locale. Tuttavia questo non sembra essere un problema per Ponda, che per la sua musica ed i suoi testi sembra non aver bisogno di sottotitoli.

Il disco scorre, e score bene; dalla prima all’ultima traccia (“Roosh Roosh”) Ponda crea un flusso, un unico fiume di suoni senza interruzioni, dove però trova comunque il modo, tra uno scratch ed un finto inserto pubblicitario di promozione del disco, di cambiare ritmo e “musica”. I racconti sono quelli di una terra in cui chi resta, e resta per fare musica, tra milioni di difficoltà da superare, ha anche l’arduo compito di confrontarsi con chi gli chiede “ma quando la finisci”?  Un disco semplice, nell’eccezione buona del termine, senza troppi fronzoli, “genuino”, per prendere in prestito le parole di Ponda; un disco che parla di vita vissuta, in un territorio difficile, in un posto dove a detta di molti non si produce musica, ma i fatti di tanti dimostrano il contrario.

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Shellac – Dude Incredible

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Vi ricordate di quel derelitto, occhialuto e schivo, che ha forgiato a suon di sferragliate il Rock alternativo degli ultimi trent’anni? Inutile ribadire l’importanza di Steve Albini, sia come musicista che come produttore (tra i più famosi Nirvana e Pixies); ciò che ha veramente rilevanza è che a distanza di sette anni dallo splendido Excellent Italian Greyhound, interrompe il suo mutismo e torna a violentare la nostra psiche con Dude Incredibile ultima fatica dei suoi Shellac. Accompagnato come sempre da Bob Weston (basso) e Todd Trainer (batteria), Albini ci ripropone la sua formula; battito marziale, geometrie pitagoriche e spigolosità chitarristiche, appuntite come cocci aguzzi di bottiglie. Tutto magnificamente abbinato ai classici stop and go da sindrome di Tourette, vero marchio di fabbrica del loro sound.

Certo, la misantropia furiosa del passato (Big Black, Rapeman) si è affievolita, lasciando spazio persino a tratti definibili melodici, senza mai abbandonare quello humor nero e perversamente violento che pervade i suoi testi. La grandezza di Albini è sempre stata quella di vomitare addosso all’umanità le putride meschinità concepite dal cosiddetto homo sapiens sapiens: non a caso la copertina dell’album ritrae due primati che lottano, immortalati nella loro istintività fatta di brutale purezza che risulta meno aberrante di qualsiasi periferia del nostro Paese, dominata da degrado ed emarginazione sociale. La title track apre le danze con oltre sei minuti di cupo e cigolante Post Hardcore a tinte Prog, dove questo power trio dialoga splendidamente generando un frastuono ferroso e controllato. “Complicant” è uno di quei pezzi dove la nevrastenia schizoide dei nostri raggiunge livelli drammatici nei conati finali di Albini, risultando il brano migliore del disco; il Post Rock slintiano di “Riding Bikes” accompagna magistralmente il cantato di Albini che si tuffa in un nostalgico, quanto doloroso, tuffo nel passato fatto di quell’ irriverenza bellicosa che si possiede solo a venti anni. “All the Surveyors” spiazza per la somiglianza con il Crossover rabbioso dei primi Rage Against the Machine; “Mayor/Surveyors“ è una breve jam funkeggiante che ricorda molto i Minutemen in salsa Noise.

“Surveyors” (pionieri) chiude l’album con il suo incedere diretto e viscerale, il ritmo è  scandito come un metronomo dalle sei corde di Albini grattugiate dai suoi plettri di rame, mentre Weston si dimostra uno tra i migliori bassisti in circolazione. A proposito di pionieri, innegabile che Albini lo sia, è altrettanto innegabile che sia un gradasso tirannico e sadico che concede la propria mostruosa genialità con meticolosa intermittenza, vista la cadenza temporale delle sue produzioni da musicista. Ovviamente il disco non è stato promosso con alcuna pubblicità e non ci sarà un tour conseguente, soltanto rare apparizioni live; Albini è  padrone totale della propria libertà compositiva. Può esserci vittoria più grande per un artista? Credo di no…ma ora alzate il volume e  fatevi flaggelare da sua maestà che reclama il proprio tributo, sperando di non dover aspettare di nuovo sette anni.

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Airportman – David

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Io non so cosa abbia potuto spingere gli Airportman a pubblicare un album del genere e a volerlo far girare in web e in copia fisica se non, forse, perchè almeno l’idea di base è davvero molto intrigante e interessante. David è il frutto di varie take di improvvisazioni che compongono le sei tracce del CD, completato da un book dove si trovano vari scritti riguardanti “il fantomatico David”, ma sinceramente non si capisce né dove bisogna iniziare a leggerlo e né tanto meno dove finisca. Il proposito dovrebbe essere quella di ascoltare ogni brano leggendo il book ma siamo qui a parlare di musica, è questo che conta più di ogni altra cosa e la musica sarà valutata prima che il resto. A tal proposito, ammetto di non aver avuto il coraggio di ascoltarlo più di due volte e a distanza di una settimana l’una dall’altra, perché questo è davvero un prodotto inquietante, noioso e piatto. Le take alternano tracce di chitarra, batteria, basso e  pianoforte più vari lead synth e pad, e sono proprio questi ultimi ad aprire l’album. C’è da dire che non sono utilizzati male, buona la scelta dei suoni e ottimo l’accostamento corale che ne viene fatto; la chitarra invece è priva di qualsiasi senso, a parte per un piccolo riff sulla “Traccia 3” che mi ricorda “Lateralus” dei Tool, anche se non per la somiglianza nelle corde; il pianoforte è monotono e ansiolitico, punta molto sulle note alte e anche in questo caso ha avuto rilevanza solo in una piccola chiusura; la batteria la si sente davvero pochissimo e quando attacca pare dare un po’ di speranza al brano, ma è mera illusione pronta a deludere di lì a poco; il basso..beh, quasi mi viene il dubbio che non ci sia davvero un basso, molto nascosto come è dietro i pad e la chitarra, ma per quel poco che si riesce a captare non sarebbe affatto male se spostato in primo piano. Inoltre, sembrerebbe che il primo ed il secondo brano, così come il terzo con il quarto, siano accomunati, come formassero tra loro una sola traccia divisa in due; il punto è che l’eventuale divisione è stata fatta senza un criterio tanto che se ascoltassimo solo il primo o solo il terzo pezzo resteremmo turbati da una chiusura improvvisa, tagli netti all’ascolto che disturbano non poco; allo stesso modo e per lo stesso motivo anche le aperture del secondo e del quarto pezzo risultano fastidiose, in quanto repentine e di cattivo gusto. Nel complesso è un lavoro studiato per catturare l’ascoltatore e farlo immergere nella sua complessità; il cd va ascoltato senza interruzioni provando ad accompagnare l’ascolto con la lettura del book eppure non è opera che suggerirei a nessuno, anzi, la sconsiglierei vivamente a chi è soggetto al cattivo umore, all’apatia e alla depressione. L’unico punto a favore, la sola nota positiva è per il sound adottato fatto di timbri caldi e intensi; per il resto è poco più di un tre pieno.

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Subsonica – Una Nave in una Foresta

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C’è un detto torinese che parla di una barca in un bosco per esprimere attraverso una semplice metafora la non facile situazione in cui ci si sente pervasi da uno spiacevole senso d‘inadeguatezza e non appartenenza. Una sensazione maledettamente universale, che i Subsonica hanno cercato di esprimere fin dai loro esordi, in vari modi e attraverso varie vesti espressive: dall’Elettronica spinta, al Rock, dalle sperimentazioni estreme alle più recenti attitudini Pop. Questa volta, la settima, la formula narrativa scelta è forse la più articolata e complessa, una super sintesi di tutto quello che è stato, degli anni passati, del percorso di un gruppo, sempre però filtrato attraverso la contemporaneità e mitigato dalle persone. Gli attori dell’iperbolico Una Nave in una Foresta sono tanti, ci sono tante versioni di noi stessi: innamorati, peccatori, giovani ragazze anoressiche, fino a una vecchia auto, tutti alla ricerca di un riscatto, spronati alla svolta, ma consapevoli delle proprie fragilità. Un viaggio spesso tormentato, ricco di dubbi, ma che ci mostra anche una possibile via salvifica con l’ultima traccia “Il Terzo Paradiso”, sintesi in musica della più alta espressione idealista dell’artista Michelangelo Pistoletto. Musicalmente parlando, il disco rappresenta un ritorno verso i suoni delle origini del primo album omonimo, soprattutto rispetto ai precedenti Eden ed Eclissi. In generale i bpm si abbassano, rispetto alla media del gruppo, la cassa e il basso dimettono la loro veste Drum & Bass, fatta eccezione  per il brano “Lazzaro”, a favore di basi sintetiche che si ripetono in sottofondi ipnotici, e soluzioni ritmiche che giocano con la forma canzone standard. “Una Nave in una Foresta”e i “Cerchi degli Alberi” sono un buon esempio in cui una base ripetuta genera un senso di dipendenza musicale e i cambi di ritmo donano spessore ai brani. Le atmosfere sono scure e cupe ed i suon profondi e ampi, brani come “Licantropia” ricordano le atmosfere rarefatte e pulsanti di brani come “Nicotina Groove” e “Giungla Nord”, mentre la chitarra di Max si ritaglia ampi spazi in “Tra le Labbra” e nella melodica e minimale, ma tremendamente immediata, “Di Domenica”, secondo singolo uscito. I brani meno convincenti sono “Specchio” che utilizza un sound Funk anni 70 con un ritornello molto orecchiabile e “Ritmo Abarth dal ritmo intenso ma meno coinvolgente rispetto ad altri pezzi. In mezzo a synth e alle stratificazioni sonore la voce di Samuel, il sesto componente della band, riesce in maniera vincente a creare quell’amalgama magica tra suoni e voce che dona a tutti i brani una vibrante energia, senza dubbio in questo lavoro più che in altri si sente un forte lavoro sull’uso della voce in maniera più ampia e melodica. Una Nave in una Foresta è un disco ben fatto, curato nei minimi dettagli, ma dimenticatevi il disco danzereccio del ventenne incazzato, dimenticatevi finalmente Microchip Emozionale, e il raggio di sole di Eden, siate pronti ad ascoltare un disco maturo, appassionato e passionale, che cattura nella sua ragnatela emotiva senza necessariamente togliere dieci anni di vita e fiato, che vi racconta come essere un vaso di terracotta in mezzo ai vasi di ferro, col coraggio di chi scopre di essere vivo come non mai. Se qualche anno fa eravamo tutti esperti di chimica forse stavolta diventeremo tutti appassionati di dendrocronologia. Per ultimo, ma non meno importante, se vi manca l’esperienza live approfittate dell’imminente tour.

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Red Shelter – Nothing More…Nothing Less

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Attaccano con “Alone” e tu hai la voglia irrefrenabile di metterti il tuo parka verde e andare a farti una birra nel pub più inglese che c’è in circolazione. “Ok” la balleresti fino a perdere il fiato, “Little Closer” o “Just a Game” ti fa rimpiangere di non aver mai imparato a suonare la chitarra per bene. Continui ad ascoltare le dieci tracce dell’album dei Red Shelter e ripensi con una certa soddisfazione a un passato non troppo lontano, contraddistinto dalle risse dei fratelli Liam e Noel, dai cugini nemici Blur e dalla meteora degli Elastica. Un po’ di Supergrass e un po’ di Franz Ferdinand, qualche eco Punk e di Elettronica. Un tributo alla migliore musica dei primi Duemila, ma non una semplice copia di quello che è stato già fatto, suonato e cantato. Un tributo a quello che sono le sonorità che hanno ispirato fin dall’inizio Carlo (voce e chitarra), Clod (basso), Luigi Mic.Rec (batteria) e Jack C (tastiere), ma Nothing More… Nothing Less è la viva conferma di come la musica sia universale, oltre la geografia. E di come, partendo da punti di riferimento, si possa creare per diventare originali e mai scontati. Cantano in inglese i campani Red Shelter, perché è la lingua della loro musica, dicono loro. E perché l’inglese è senza confini come lo è questo disco che starebbe bene nella programmazione di qualsiasi radio Rock.  La conseguenza di tutto questo è che l’album lo ascolti e riascolti senza stancarti. Ti sbatteresti anche come un indemoniato se non fosse per la vicina di casa, che è molto poco tollerante. Tanto vale prendere il parka, uscire e andare a cercare il primo palco dove sentirli suonare.

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Psychopathic Romantics – s/t EP

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Un lavoro valido e schietto che meriterebbe di mandare in panchina un sacco di posticcio indie rock italico.
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