La band screamo messicana torna con un album che racconta solitudine, tensione e psicosi di un mondo che va troppo veloce.
[20.06.2025 | Persistent Vision, Tormentas, Torque | screamo, post-hardcore, post-rock]
Un grigio perfetto. A questo penso, mentre i miei occhi ripercorrono la crepa che graffia delicatamente il muro di questo palazzo, cicatrice su pelle di cemento armato. Troppo liscio per essere il lavoro grezzo di qualche amatore, troppe asperità per essere definito un muro da dieci e lode. Eppure il colore, quel grigio nulla, lo conosco troppo bene e mi parla di casa mia. Gli alberi su cui mi arrampicavo ora sono pali della luce. L’arido parco in cui giocavamo a calcio è stato annegato dalla malta, i ghigni dei muratori l’ultimo ricordo di quella zolla d’erba stopposa prima che una betoniera rigurgitasse i suoi interni su di essa.
Qualche spanna dietro allo scivolo, su quel grigio ormai perfetto, le impronte di un gatto che ha osato marchiare quell’atto meschino, a imperitura testimonianza del suo passaggio. I miei pensieri tremano quando penso al ricordo della città in cui sono cresciuto, e quando la paragono a ciò che è oggi. Gli occhi mi si colorano di quello stesso grigio nulla, i ricordi sfumano.
Pérdidas Variables è il quarto album dei messicani Joliette, ed esce a dieci anni esatti di distanza da quel Principia che ha fatto tremare l’ago della bussola della musica urlata, spostando le nostre traiettorie verso l’enorme e misteriosa Città del Messico. Ed è proprio della metropoli centroamericana che parlano gli otto brani di questo nuovo lavoro, sia in concreto che in astratto, andando ad analizzare quelle sensazioni di paura, disconnessione, apatia, che arrivano dalla frenesia della vita urbana di tutti i giorni.

Quando il cielo non si vede.
Todos Pierden apre il disco mettendo subito le carte in tavola: “El tiempo se escapa / Las horas se nos van / Los días se rompen / En un eco mortal” mentre la chitarra sibila come una sirena sullo sfondo, prima che il ciclo si rompa e tutto esploda. La controparte di questo brano è la title-track, Pérdida Variable, dove lo scorrere del tempo diventa accettazione, il dimenticare è la chiave per sopravvivere ai traumi, mentre il brano incede come una nenia religiosa, più post-rock che screamo nel suo aprire crepe tra basso, chitarra e batteria, la voce a sgretolarsi in un unico cumulo di macerie insieme agli strumenti.
Il cielo ha lo stesso colore dei muri, ormai. Grigio asettico perfetto senza nuvole, oppure sono solo nuvole senza possibilità di chiaroscuro, una coltre stesa da una serie di pennellate perfette, tanto da non distinguerle l’una dall’altra. Sotto questo cielo anche il resto delle cose ha iniziato a perdere i colori. Il rosso della tenda del bar in piazza è anemico, così come i fiori nelle aiuole davanti alla chiesa. Lo stesso verde dei pochi alberi rimasti è diventato ormai marrone scuro, come se fossero imprigionati in un autunno perenne, le foglie ormai derubate di ogni goccia di sole disponibile.
Qualcuno ha detto che sono stati il cemento, i nuovi palazzi, l’autostrada il cui eco arriva costante da qualche km più giù. Altri danno la colpa alle auto, ai motorini, ai camion, allo smog in generale, una cappa appiccicosa che ha avvolto la città in questa bolla di nulla. Io penso che ormai questo cielo lo vedo sempre più spesso, e sempre uguale, in troppi posti diversi tra loro. E ogni volta che lo vedo il cervello rallenta, la vista sfoca, il sorriso cede.
Cielo Sordo è forse il mio pezzo preferito del disco, credo per l’ineluttabilità che sprigiona. Il crescendo della prima metà è quasi marziale, prima che le urla di Gastón Prado strappino questa coltre di nebbia con un’esplosione, risvegliandoci da quello stato di ipnosi e smarrimento in cui ci aveva indotto la band. È bello quando le canzoni suonano esattamente come ciò di cui raccontano, vero?
Cielo Sordo è ispirata dalla metropolitana di Città del Messico, da quel turbinio di persone, dal suono del metallo, della pietra e delle voci che passano rapide, come fantasmi. Dall’altra parte, in chiusura, c’è Gris Protagónico, altro brano di saliscendi emotivi rapidi, che parla invece di come ci si sente quando tutto attorno a te sembra muoversi troppo velocemente, lasciandoti indietro come un’ombra sullo sfondo, una comparsa nella tua stessa vita (“Un fantasma, un espectro / Encapotado en el concreto”) e, nonostante tutto, continui ad andare avanti.
Post-tutto, per non arrendersi.
Nonostante possa sembrare che provengano davvero dai confini dell’impero (ma è lì che spesso nascono le ribellioni), sono anni che i Joliette affastellano, pietra dopo pietra, un sentiero che unisce generi diversi. Screamo, certo. Post-hardcore, ovviamente. Post-rock, non può mancare. Mathcore, magari non più come un tempo, anche se permangono echi.
Ed è in questa commistione di chitarre, basso, batteria, urla senza compromessi, testi sentiti che sembrano essere stati scritti col sangue di chi quelle cose le vive ogni giorno sulla propria pelle e spirito DIY, che Pérdidas Variables emerge come uno dei lavori più solidi della discografia della band, e sicuramente uno dei dischi dell’anno per chi vi scrive. Un po’ perché tutti gli ingredienti sono pesati con precisione sopraffina (i momenti di pieno e vuoto, le melodie dei riff e i momenti di assalto sonoro senza compromessi), un po’ perché anche quando si mette a piovere (Nimbus) o se la terra trema (Arsénico), questi brani aprono le crepe, mi mostrano macerie, si allungano fino al cielo e, come una lama, fanno un taglio netto e preciso.
Ed è a quel punto che torno a vedere a colori.
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album 2025 Joliette Messico Persistent Vision Records Post-Hardcore post-rock Screamo Tormentas Records Torque Records
Last modified: 25 Giugno 2025




