NEVER ENOUGH dei Turnstile è davvero abbastanza?

Written by Recensioni

Cosa pensare del chiacchieratissimo nuovo album della band di Baltimora? Due dei nostri redattori provano a rispondere a questa domanda attraverso un immaginario botta e risposta con un terzo interlocutore.
[06.06.2025 | Roadrunner | alternative rock, post-hardcore, hardcore punk]

NEVER ENOUGH. Mai abbastanza. Vorremmo partire da qui per parlare di quest’album, perché il primo interrogativo sul nuovo disco dei Turnstile che ci siamo posti è “ma è davvero abbastanza?”, e allora abbiamo chiesto ai nostri due hardcore kids della redazione Daniel Molinari e Sebastiano Orgnacco di dirci la loro.

In questi ultimi mesi si è parlato in abbondanza della band di Baltimora che, da quel Nonstop Feeling dei primi anni ‘10, di strada ne ha fatta, eccome se ne ha fatta. Glow On del 2021 l’aveva infatti proiettata in cima a tutte le chart con il mix di hardcore punk e una commistione di generi che sfumava tutti i confini possibili. Un’operazione chirurgica e riuscita.

Quattro anni di attesa sono tanti e la fear of missing out sembra essersi impossessata degli ascoltatori della band americana. Dal teaser con Charli XCX che sul palco del Coachella dichiara, tra le tante, la Turnstile Summer, fino alla pubblicazione di NEVER ENOUGH in grande stile con un’anteprima cinematografica degna di una produzione A24 al Tribeca di New York: quattordici brani per una visual experience da godersi poi in sale selezionate.

Nel mezzo, un clamoroso – e gratuito – show di beneficenza al Wyman Park della loro città natale, con migliaia e migliaia di persone accorse per sostenere Health Care for the Homeless e creare un’ondata di die hard fan (o semplici curiosi) che non si vedeva dalle VHS nostalgiche degli anni ’80. Soprattutto per una band di nuova generazione che suona in modo “tradizionale”: voce, basso, chitarre e batteria.
Arrivare al 6 giugno con tutto questo background non semplifica di certo il lavoro di recensire il nuovo dei Turnstile.

E allora torniamo alla domanda iniziale: ma è davvero abbastanza?

Daniel: Credo che i Turnstile siano entrati a pieno regime nella fase di carriera in cui stanno per essere codificati dalla enormità degli ascoltatori che si sono conquistati al di fuori della scena hardcore e starà a loro giocarsi al meglio le carte per il futuro. Una volta abbracciato lo stardom mainstream di un generico mondo che definiremo alternative, quello su cui c’è da riflettere è come NEVER ENOUGH punti ad ampliare lo spettro punk di Glow On, salvo poi ritrovarsi immerso dentro un livello sonoro che annacqua le stesse soluzioni che li hanno resi vincenti. 

Non sono un amante della fossilizzazione dell’hardcore: sono cresciuto con le bandane di Mike Muir e dei Suicidal Tendencies, l’album che mi ha cambiato la vita è The Shape of Punk to Come, amo le melodie intime di Witness dei Modern Life Is War e non vedo l’ora di ascoltare quello che proporranno i The Armed ad agosto, quindi quel che mi sorprende è che qui la parte che per comodità chiameremo sperimentale sia in realtà riservata a outro, intro, allacciamenti tra un brano e l’altro, senza mai approfondire realmente a dovere: da una parte flauti, dall’altra house music, poi un glitch. L’unica soluzione di continuità è il tappeto di pad che inizia l’album e fa capolino nuovamente qua e là.

Un altro, semplice esempio: la lunga intro di BIRDS, uno dei pezzi migliori per chi scrive, che ci ricorda qualcosa di Tyler, The Creator in New Magic Wand, che va a liquefarsi nel nulla cosmico. O ancora, pezzi come DULL sembrano invece una lezione sulle power chord dove viene dimenticata qualsiasi progressione a favore di un rumore ambientale di A.G. Cook, lasciando il brano incompleto, proprio come avviene nell’atmosferica MAGIC MAN che qui è la chiusa, ma pare più l’intro dreamy di un disco dei Beach House.
Un retrogusto amarognolo che sciupa collaborazioni di livello anche con Shabaka Hutchings o i BADBADNOTGOOD, lasciandomi il feeling che ci sia un problema compositivo di fondo…

Sebastiano: La penso come te. Il problema è che i pezzi assomigliano – e dopo quattro anni di lavoro non penso sia un caso – a quelli di Glow On (lo stesso non si può dire del passato: Glow On non aveva rip-off di Time & Space, che non ne aveva da Nonstop Feeling).

La title track scimmiotta Mystery, SOLE è la copia di Don’t Play, LOOK OUT FOR ME riprende Fly Away, la prima parte della sopracitata BIRDS fa lo stesso con T.L.C. e, per finire, SLOWDIVE si ispira dichiaratamente al riff di Sweet Leaf dei Black Sabbath. Tale pigrizia per me è ingiustificabile di base, ma poteva essere mitigata da una sperimentazione che portava il discorso hardcore a fare un effettivo salto di qualità. 

Altre divagazioni sono affidate a soluzioni estemporanee, come la tromba in DREAMING, che per me è uno dei momenti migliori, sicuramente il più divertente per quanto camp, o il bizzarro filtro vocale di CEILING, un interludio che arriva dopo un pezzo che è già per metà interludio, LOOK OUT FOR ME.
Sembra quasi che, nel dubbio di non sapere cosa fare, i Turnstile abbiano scelto di fare tutto. Peccato che il risultato finale sia sconclusionato, confuso, gli americani hanno questa bellissima espressione che è “all over the place”.

Turnstile © Atiba Jefferson
Come possiamo dare un giudizio d’insieme all’album?

Daniel: Domanda da jackpot. Mi arrovello e penso che alla fine si debba semplificare per giudicare correttamente NEVER ENOUGH, avvicinandomi al pensiero di Stereogum: è una band arena rock, che suona qua e là delle spruzzate scheletriche di hardcore o al più dei Bad Religion velocizzati, con una produzione bombastica. 

E, dove osa di più, lo fa in maniera disomogenea e fin troppo semplicistica. Un simbolo: io amo Daniel Fang, lo reputo creativamente validissimo, ma qui mi suona depotenziato. C’è anche una dimensione catchy meno preponderante che invece aveva reso imperdibile Glow On (i boom boom boom).

Sono il fenomeno del momento ed è innegabile, mi piacerebbe però che sull’onda dell’hype venissero lasciate fuori band come Refused che negli anni ‘90 avevano tutto un altro manifesto programmatico o addirittura artisti seminali come i Fugazi. È ingiusto nei confronti dei Turnstile stessi, che sono una band che si diverte e prova a contaminare universi non suoi, nulla più.

Sebastiano: È tosta. Ci sono pezzi smaccatamente pop, e non sarebbe affatto un problema. C’è spazio per un eventuale ponte tra l’hardcore e il lato patinato della musica, a patto che a supportare questo incontro ci siano canzoni che uniscano davvero universi apparentemente così inavvicinabili. Il compito, per esempio, spetta a SEEIN’ STARS, che però non abbraccia mai il lato hardcore, preferendo rimanere su coordinate puramente anni Ottanta (e, ribadiamo, non c’è niente di male).

Un altro pezzo che vuole unire surf pop e hardcore è I CARE, che però ha un problema: è moscia. Moscia perché la parte pop è svogliata e ingenua (l’esibizione da Fallon restituisce un quadro ancora più tragico della versione su disco), moscia perché la parte hardcore è breve, pigra e non azzanna neanche un po’, finendo per essere un non-ritornello con una chitarra un po’ più cicciona di prima. 

Poi c’è la situazione voce, con Brendan Yates che ormai rincorre linee vocali già utilizzate in passato – e non è un caso che alcuni pezzi somiglino così tanto a quelli dell’album precedente – e la situazione riff, ormai appaltati a Pat McCrory, che non ha però la creatività di quel Brady Ebert dimissionario nel 2022 (Meg Mills non ha partecipato alle registrazioni dell’album), che aveva di fatto costruito quegli storici giri di chitarra che tanto dinamismo davano alla musica dei Turnstile.

Forse la domanda finale da porsi è: se l’incontro tra hardcore e pop era già stato fatto, in quel disco che si chiama Glow On, serviva abbassarsi a scrivere pezzi così brutti?

Ma quindi: c’è del buono dentro questo NEVER ENOUGH? C’è qualcosina che vi convince oppure proprio nulla?

Daniel: Quello che riconosco e riconoscerò sempre ai Turnstile è la volontà di sdoganare certi codici del linguaggio e della scena hardcore alla massa ed è l’atto più pregevole: odio il gatekeeping, quindi di default mi fa stare dalla loro parte, mostrare che un’attitudine è molto più di una etichetta.

Alla fine penso che NEVER ENOUGH si giochi tutto su una questione di prospettive: se le si rovesciano e lo si guarda come un potenziale lavoro entry level, con il quale si varca la soglia di un mondo fatto di distorsioni e urla, probabilmente è azzeccato. Credo sia stimolante il giusto per chi non è affine a certe sonorità, dimostrandosi un buon propulsore per la curiosità, ma, per chi invece mastica e digerisce suoni hardcore e contaminazioni come una marmellata a colazione, probabilmente ci si poteva aspettare di più – il che, lo so, sembra paradossale per come è stato percepito all’avanguardia il disco. 

Se allargo il perimetro alla band e devo muovere una critica, in un periodo storico in cui l’ICE deporta persone nel cuore di Los Angeles, in cui il mondo occidentale assiste al genocidio palestinese, il conflitto russo-ucraino continua nelle sue atrocità, così come nel Sudan, nello Yemen e in tante altre aree geografiche il mondo brucia, vedere una band punk che non urla nitidamente (o lo fa molto timidamente) il suo dissenso, usando le piattaforme a disposizione, quando colleghi di palco si espongono in modo ben più deciso e netto, mi fa storcere il naso. Credo che questo sia il momento sociale in cui una scena come quella hardcore debba far valere il suo peso politico che ha sempre avuto nel DNA.

Sebastiano: Nell’intro citavamo Charli XCX quando ha annunciato la Turnstile Summer. Ecco, ero contento: ho pensato “finalmente una band che scrive musica di un certo livello e arriva da una scena con dei valori che supporto e condivido, ha l’esposizione che merita”. Poi è uscito il disco e mi sono detto “Ma davvero questa Turnstile Summer deve arrivare così?”.

 Testi e interviste iniziano a raccontare una band che forse è intrappolata tra le onde: in SUNSHOWER, Yates canta “This is where I wanna be/ But I can’t feel a fuckin’ thing”, alludendo alla difficoltà di gestire la pressione, la popolarità e ciò che ne consegue. Al tempo stesso, il bassista Franz Lyons, divenuto ormai icona di stile, parla dell’importanza di condividere lo stage con il pubblico, della vicinanza ad esso, delle lezioni che questo ti insegna, ma lo fa in un momento in cui la band ha smesso da un po’ di suonare concerti senza barriere o su palchi facilmente raggiungibili (se si esclude il recente show-evento benefico citato in apertura).

 Cosa vogliono fare davvero i Turnstile? Quanto questa fama tanto agognata sta spremendo i membri della band? Quanto sono vicini alla propria dimensione ideale e quanto sono vittime di direttive PR dell’etichetta e insormontabili regole da major?

Ok, questo NEVER ENOUGH vi ha scatenato un fiume di pensieri, ma quale sarebbe la vostra conclusione?

Sebastiano: Forse è vero che i Turnstile saranno sempre never enough per una parte di pubblico, quella più intransigente, quella che vede l’hardcore con i paraocchi e li ha sempre trattati come quelli strani della festa. Dall’altra parte c’è pure la sensazione che ormai non si possa muovere delle critiche a questa band, pena essere tacciati di hating cieco, ma questo è un discorso che va ben oltre il mondo della musica, e che avvelena i pozzi della critica e del confronto.

Probabilmente non avremo mai una risposta da questo universo parallelo, ma credo che NEVER ENOUGH avrebbe funzionato meglio se la sperimentazione della band fosse andata in un’unica direzione, cercando di meticciare le proprie radici hardcore con un unico sottogenere (fosse esso il dream pop, la house, lo spiritual jazz di Shabaka). Elementi, questi, comunque già testati singolarmente (gli EP Share a View con il DJ e producer Mall Grab e New Heart Designs insieme ai BADBADNOTGOOD) e che hanno dimostrato di poter funzionare.

Daniel: Il pensiero finale? NEVER ENOUGH va isolato da quello che rappresentano i Turnstile, mai come in questo caso sono convinto di un divario tra produzione discografica e l’ecosistema invece che ruota attorno a una band.

Purtroppo, se spremo il succo dell’album vi riscontro la loro proposta discografica più debole, se guardo il quadro complessivo penso invece che siano una band che può aiutare un movimento che è nato dal basso e che continuerà a nascere dal basso, ma che ora può avere l’ambizione a guardare un pochetto più su con una certa punta d’orgoglio, perché i valori comunitari sanno trascendere dischi e persone.

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Last modified: 11 Giugno 2025