In giro in un distorto mondo techno pop: intervista ai P L Z

Written by Interviste

Un’opposizione in termini, una creatura polimorfa-perversa.

(di Marika Falcone)

È così che si autodefiniscono i P L Z. A prima vista un po’ inquietanti ma al primo ascolto molto interessanti, aggiungiamo noi.

In Milano d’agosto, singolo di esordio pubblicato per Costello’s Records lo scorso 25 settembre, i P L Z mostrano la faccia più autentica e brutale della città nel periodo estivo, ma anche la parte più fastidiosa di noi stessi, quella dalla quale ogni tanto vorremmo davvero prendere una pausa. Il video, in formato analogico, descrive precisamente l’inserimento surreale e ambiguo dei P L Z nella quotidianità, grazie alla scrupolosa regia di Michelle Pan.

Regia che non sarà la stessa per il video di Secoli, secondo singolo del progetto, fuori dal 6 novembre, che ci svela invece l’esistenza di un’unica certezza: quella dell’incontro, del momento. Il gruppo, tra sintetizzatori e techno pop, ci racconta infatti con questo pezzo la storia di due persone che si ritrovano per caso, e tra mille dubbi, incertezze e cambiamenti, riescono comunque a stare bene proprio grazie a quell’incontro e a quel momento.

Non sono state solo le maschere e i volti distorti ad incuriosirci, anzi, dietro i P L Z abbiamo subito riconosciuto una provocante genialità e l’occasione di parlare con il duo ci ha dato un’ulteriore e gradita conferma.

“Ma che strani sono questi P L Z?!”. Scusate, credo sia la prima cosa che hanno pensato tutti appena vi hanno scoperto, ma non è assolutamente negativa, anzi. Non mi aspetto una risposta normale, ma ci provo: chi sono, da dove vengono e dove sono diretti i P L Z?

P L Z è una cosa, un’idea che si manifesta in due persone complementari: una schiva, riflessiva, metodica; l’altra estroversa, compulsiva, caotica. Lo yin e lo yang, la luce e la tenebra, il femminino e il mascolino. Insomma pensa a un’opposizione in termini: eccoci! Siamo appena apparsi a Milano, dove ci sentiamo a casa. Siamo appena arrivati, per cui per ora è un po’ difficile dire dove siamo diretti. Per ora ci giriamo intorno. Movimento circolare. In alto mare. In senso astrale.

E com’è nata l’idea delle maschere in lattice e delle identità distorte e un po’ inquietanti?

Avevamo bisogno di qualcosa che ci tenesse insieme le personalità, qualcosa che limitasse la dispersione, rendendoci neutri ma riconoscibili. Ora abbiamo fatto reset, siamo tabulae rasae. Ci siamo guardati dentro e non ci piacciamo: meglio coprirci. Che bello essere di nuovo vergini!

Quanto alla distorsione, non ci interessa essere nitidi, definiti, veri, almeno nel senso un po’ stantio e retorico del termine. Le persone, gli artisti, i cantanti sono così occupati a dimostrare di essere veri, sinceri e onesti, che non si accorgono di quanto questa cosa sia così poco vera e interessante. Almeno a noi certi valori assoluti non interessano. Siamo troppo presi nel cercare di capire come sopravvivere. Ci interessa capire questo: come imparare a stare al mondo senza fare troppi danni. Forse è questo che inquieta di noi: il fatto di non sapere cosa vogliamo e dove stiamo andando.

Nella bio su Facebook è citato “The Lobster”: si può dire che Lanthimos sia il re del surreale conturbante. Ci sono altri film, dischi, opere d’arte, performance che pensate riescano in qualche modo a completare l’immaginario che vi siete creati?

“The Lobster” ritrae una società distopica delle coppie. Si dà per scontato che quello sia il paradigma sociale necessario, si nega il diritto all’esistenza come individui, si colpevolizza la solitudine.

Invece siamo attratti da individui che hanno fatto della propria esistenza un’eccezione alla regola, snaturandosi, cambiandosi i connotati, rendendoli disturbanti. Come Jon Rafman, Ed Atkins, Leigh Bowery. Come Planningtorock, Arca o Björk. Come Raymond Queneau o Georges Perec. Borges o Dürrenmatt. Come l'”Ubu roi” di Jarry o la “Cantatrice calva” di Ionesco. Come una satira menippea di Luciano di Samosata. Individui e storie che in un modo o nell’altro si sono imposti al proprio tempo, gli hanno rotto le palle.

Crediamo che gli artisti debbano rompere le palle, non essere accomodanti o confortanti. E crediamo che gli artisti siano fondamentalmente individui consapevoli della propria condizione di solitudine.

Secoli racconta la storia di amanti che si ritrovano più o meno uguali in un universo che intorno cambia velocemente e continuamente e che riescono a consolarsi in un presente senza risposte né certezze. Questo pezzo nasce dalle vostre esperienze?

Due persone, due amanti o, come si dice oggi, due scopamici si ritrovano dopo tanto tempo a una festa. È un dejà-vu. È già successo. Conoscono le regole del gioco: la più importante è non fare domande su quel che sarà e vivere quel momento come se fosse unico e nuovo. In realtà sanno benissimo entrambi che non c’è nulla di nuovo. Sanno che quella sera faranno l’amore e che il giorno dopo si separeranno come sempre e ripasseranno secoli prima di rivedersi. È un gioco delle parti. Ma almeno è una certezza. Non sappiamo se vada davvero così, ma l’idea di due individui, di due monadi impazzite che periodicamente si scontrano nel turbinio dell’universo ci affascina ed è a suo modo un’ipotesi consolante.

Per quanto riguarda il processo creativo e produttivo del brano, com’è avvenuto? Musica e testo sono nati insieme o separatamente?

Secoli è nata come una traccia strumentale, giocando con un registratore analogico portatile in cui far passare campioni suonati di batteria acustica e sequencer. Non ricordo come si chiamasse il pezzo: aveva un titolo in inglese, ma il tiro della ritmica tutta storta c’era già.

Poi abbiamo cercato di cantarci su. In inglese all’inizio. Ci piacciono le parole sdrucciole, che rotolano bene con quell’effetto terzinato. La parola ‘Centuries’ ci stava bene: altisonante, universale, ma anche piuttosto facile da inserire in una storia. Il pezzo diceva una cosa tipo “Are we not centuries ahead of those we’re following?”. Insomma, tirava verso il solito “io e te contro il mondo”, che su un pezzo techno/electro ci sta. Poi ci siamo accorti che la pronuncia era improbabile, che forse era il caso di dire le cose chiaramente.

È stata una scelta giusta alla fine, ne valeva la pena. Il testo in italiano ha perso parecchia spocchia rispetto a quello originale. È diventato più piano e romantico. Deve essere una specie di maledizione/benedizione della lingua italiana: si finisce volenti o nolenti a parlare d’amore.

Più in generale invece, tra voi c’è chi pensa alla musica e chi scrive il testo o siete entrambi coinvolti allo stesso modo nei due campi?

A volte capita che uno dei due proponga all’altro un’idea, ma è solo un pretesto per cominciare a lavorare insieme. Le parole nascono da uno così come la produzione è più cosa dell’altro, ma la scrittura, melodia e armonia, è sempre condivisa. La cosa bella è appunto riuscire a non partire mai con le idee troppo chiare, per tenere a bada i cliché personali, i propri automatismi musicali che sono sempre dietro l’angolo. Cerchiamo di spiazzarci a vicenda e, quando funziona, è una gran cosa. Ci piace stare in studio, è la nostra navicella spaziale.

Per il video di Secoli avete voluto sperimentare una regia diversa da quella di Michelle Pan. Diteci di più.

Vogliamo coinvolgere persone e visioni diverse nel percorso che è appena iniziato. Ci siamo fatti fotografare da Cheplero, perché ci piace il suo modo di usare la distorsione panoramica in modo naturalistico, senza editing di sorta. Poi con Michelle Pan abbiamo cambiato completamente il mezzo: lei con la sua camera vhs e il suo sguardo documentaristico, noi con un monopattino elettrico in giro per una Milano ancora frastornata.

Per Secoli abbiamo di nuovo scombinato le carte, andando a fare un giro su una Lada Niva con Iacopo Carapelli e una go-pro a 360 gradi puntata davanti. Le cose devono andare così. Devono accadere semplicemente. Ci saranno altre collaborazioni, che ancora non possiamo rivelare, ma altrettanto all’insegna del vedersi, capirsi al volo e fare. Vogliamo che gli artisti visivi con cui lavoriamo si sentano liberi di usarci come meglio credono. Vogliamo essere creta, statuine fittili, bamboline vudù nelle loro mani.

Forse è presto per pensarci, ma siamo curiosi di sapere se in futuro vi piacerebbe collaborare con artisti del panorama italiano.

Certo che ci piacerebbe. Siamo innamorati di Whitemary, una producer e ragazza davvero fantastica. L’abbiamo vista la prima volta all’ultimo Mi Ami invernale “in presenza” prima della pandemia e nulla, boom! Amore. E poi EXWYFE, un ragazzo che ha un immaginario estremamente ricco di suoni e una voce che sarebbe bello infilare ovunque.

C’è Treega, altro produttore sfuggente e dolcemente complicato, ma che tira delle bombe a mano quando si mette al laptop. Ci piace molto anche Broke One, conoscitore raffinatissimo della techno detroitiana, del suo lato più decadente e romanticamente marcio. Tutti artisti che hanno un tratto loro, un modo unico di interpretare l’elettronica e il beat. Li stiamo corteggiando e in qualche caso è già nato qualcosa di molto interessante. Ma non possiamo dirti nulla di più per ora.

Aspetteremo! Sono passati già alcuni mesi dall’uscita dei singoli e stanno piacendo molto: che effetto fa sapere che le persone li stanno ascoltando e iniziano a seguirvi sempre più numerose? Direi che l’SOS che avete lanciato è stato anche ben ricevuto, no?

È una sensazione bellissima. È bello vedere una canzone su cui ci siamo fatti un certo film fare il suo percorso. Vai, canzone, vai. Ci fa sentire più a fuoco e determinati nel cercare di trasformare questa creatura polimorfa-perversa che è P L Z. Stiamo ancora crescendo. Siamo in movimento. Qualcuno ha colto l’SOS, la nostra presenza nel sistema e ci sta venendo a prendere, a staccarci dalle nostre identità reali un po’ claustrofobiche.

Anzi, stanno proprio suonando alla porta.

Scusaci, dobbiamo andare. Baci.

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Last modified: 12 Gennaio 2021