Esce oggi Cutthroat, quarto disco per la band inglese: qui ve lo raccontiamo da più punti di vista.
[05.09.2025 | Dead Oceans | post-punk, indie rock]
L’idea era quella di ripartire da zero e creare un album potente e veloce come agli esordi di Songs of Praise del 2018: «questa volta, tutto è permesso, purché suoni bene e sia fatto nel modo giusto», racconta Charlie Steen, frontman degli shame. Una formazione capace di conquistarti a prima vista in versione live: «i nostri concerti dal vivo non sono performance artistiche: sono diretti, provocatori e crudi. È sempre stata la nostra essenza», prosegue Steen, e noi non possiamo che confermarvelo. Ascoltando Cutthroat viene però da chiedersi se nella scena post-punk non sia in atto una sorta di ‘effetto Romance‘. Proviamo a spiegarvi cosa intendiamo mentre condividiamo con voi le nostre impressioni su questo quarto lavoro in studio.

Daniel Molinari
Agli shame vorrò sempre bene, vuoi perché la presenza live di Charlie Steen è talmente weird e magnetica da strapparti sempre quella voglia di fare caciara insieme ai suoi compagni d’avventura funambolici, vuoi perché dagli esordi su Dead Oceans ne riconosco una spontaneità irriverente che ha sempre avuto buon gusto. Va detto: il palco è la loro dimensione ideale, non c’è nulla da fare, tant’è che mi sono ritrovato a rivalutare anche certe uscite dell’ultimo Food for Worms. Fatta pace con me stesso che non riavrò mai la tensione post-punk di una Dust on Trial e forse nemmeno le costruzioni articolate di Drunk Tank Pink, arriva questo Cutthroat che vuole semplificarne la proposta, regalando una sorta di megafono più orecchiabile, diretto e con uno spirito live insito in sé, con quel John Congleton già alle prese con i The Murder Capital a inizio anno.
Operazione riuscita? Dipende da come lo si vuole valutare. Non c’è alcuna rivoluzione copernicana, non è questo l’intento, ma può essere sicuramente il disco con cui si stacca la spina, ci si gode le melodie semi-acustiche di una Quiet Life e si canticchia il ritornello della radiofonica titletrack senza accorgersene. Senza troppe spigolosità, senza troppi pensieri e con la buona foga di una Screwdriver o del crescendo cadenzato di una Pack Shot. Gli shame hanno la loro nicchietta e questa coltiveranno, anche con Cutthroat, ne sono certo, alla ricerca del prossimo costumino dorato da esporre in un museo ipotetico del Windmill a Brixton.
Francesca Prevettoni
Food For Worms avrebbe potuto suggerire un drastico cambio di direzione per Charlie Steen e soci: via la patina più ruvida del post-punk revival, a favore di un più ampio respiro nella composizione e qualche incursione più sperimentale. Un lavoro tutto sommato ben riuscito, un’evoluzione abbastanza naturale, che avrebbe potuto essere uno scaltro punto di partenza per evitare di ammuffire in una scena ormai satura e fuori tempo massimo. Invece, soltanto una parentesi aperta e chiusa, durata giusto il tempo di un album: in Cutthroat gli Shame sembrano essere regrediti ad una forma più diretta, più allineata all’esplosività dei loro esordi. Nell’esprimere un giudizio, soltanto su un punto mi sento di avere pochi dubbi: questo nuovo disco funzionerà alla grande in una dimensione live.
Pezzi come la stessa title track, Cowards Around o Nothing Better sono la pura espressione di quell’energia travolgente che sicuramente ricorderà chiunque abbia già avuto occasione di incrociare la band londinese all’opera su un palco. La domanda che mi sono posta più frequentemente fra una traccia e l’altra è ben diversa: quanti ascolti reggerà Cutthroat? Mi sono, ahimè, risposta quasi subito: non molti. L’altra faccia della medaglia di questa versione senza troppi fronzoli degli shame, a mio parere, è purtroppo il rischio non indifferente di cadere nell’oblio: tutti i brani sono piacevoli, nessuno di essi è memorabile. Nell’attesa speranzosa di un futuro colpo di scena, andiamo sul sicuro e investiamo in un biglietto.

Federico Longoni
Inutile negarlo, c’è un prima e un dopo Romance dei Fontaines D.C., e gli shame hanno cavalcato l’onda verde acido della band di Dublino per scrivere questo loro quarto disco. Il problema è che, così come è successo con il gruppo irlandese, anche gli shame hanno perso la loro grinta, la loro unicità.
Cutthroat suona bene, niente da dire, ma suona fin troppo bene. Scivola via senza lasciare traccia, tranne forse per Quiet Life che gioca con il brit-rock ed è in effetti un gran bel pezzo, e anche Spartak secondo me se la cava grazie al ritornello catchy e alle chitarre grintose. Ma tutti i brani del disco suonano troppo ripuliti dal punk graffiante del disco d’esordio, e ripuliti anche dalla loro versione più introspettiva e articolata di Drunk Tank Pink, che a me era piaciuto molto. Pure la carismatica voce di Charlie Steen sembra aver perso quella follia che l’ha contraddistinto finora. C’è da dire che io personalmente col tempo ho rivalutato in meglio Romance, ma a mio avviso rimane comunque un disco debole.
Rivaluterò anche Cutthroat? Chissà, per ora è senza dubbio il disco meno riuscito degli shame, quello con meno anima. Scorre via, suona anche bene a tratti, ma non lascia traccia, non lascia nessuna emozione a lungo termine.
Gianluca Marian
I nodi vengono sempre al pettine. Al netto dei riscontri positivi di critica e pubblico, il problema di Food for Worms era il pastiche eterogeneo: l’anima emozionale più interessante (Orchid, All the Same) era contrastata da una vena che mirava ad aprirsi ulteriormente alla semplicità (Yankees, Different Person). Nel complesso, questi segnali tendevano a perdersi e a bilanciarsi, nonostante l’evidenza – ben celata – di un disco estremamente transitorio. Poi l’esplosione ingiustificata di Romance è arrivata come una pietra tombale per l’intera scena: gli shame di Cutthroat sembrano aver venduto l’anima allo stesso pop/rock scialbo degli ultimi Fontaines D.C. e per altri versi aver ceduto alla stravaganza dance dei Viagra Boys.
Le canzoni non si fondano più su ritmiche solide o strutture taglienti, ma su ganci estemporanei (il synth di Plaster, l’arpeggiatore di Screwdriver, i riff banali): non è necessariamente un male, ma ciò che si perde è quella freschezza post-punk e post-hardcore che li aveva contraddistinti. Emblematico è il brano omonimo: un riff che sembra rubato a Are You Gonna Go My Way di Lenny Kravitz innestato su una Map Ref. dei Wire in versione hard rock. Una perdita di coordinate importante. L’unica traccia che si salva è la cupa Packshot, che richiama i Sonic Youth tra atonalità e dissonanze, riempiendosi in un bridge sognante. Dunque, a otto anni dall’esplosione di Brutalism degli IDLES, possiamo chiudere questo capitolo post-punk: le due band di riferimento ormai si orientano su lidi sempre meno punk, mentre le altre vivono in un limbo dantesco.
Claudia Viggiano
La prima cosa che ho letto su Cutthroat è che è stato pensato per essere apprezzato nella sua dimensione live, un cambio di marcia rispetto al più sperimentale Food for Worms, che avevo apprezzato più in teoria che in pratica. Con Cutthroat mi sono fatta delle aspettative diverse, inquadrando il disco nel modo in cui poi si è rivelato: gli shame non vogliono fare gli intellettuali; gli shame vogliono fare casino. Io ci sto, perché sono bravi a farlo e dal vivo sono impetuosi, ironici e da sempre bravi a scrivere pezzi incattiviti ma – nella sostanza – orecchiabili. È questo il punto di forza di Cutthroat. Lungi dall’essere un album perfetto, alcuni brani (tra cui il singolo omonimo) sono più forti nelle strofe che nei ritornelli (strano), e quel paio di ballad sghembe (tra cui Spartak) non sono tra i momenti più alti dell’album.
L’album però eccelle nella furia di pezzi ruvidi come Cowards Around e Screwdriver, nonché nella consapevole stranezza di Lampião (storia interessante che mi ha fatta finire per ore su Wikipedia) o Axis of Evil. A fine ascolto lo rimetti su che è una passeggiata. Fondamentalmente Cutthroat va preso così, come un disco pensato per l’immediato piuttosto che per essere pensato; me lo immagino nichilista ma come il nichilista del Grande Lebowski. Se ci penso troppo forse penso a quanto potrebbero fare di meglio gli shame. Ma poi riascolto Cutthroat e mi ricordo di smettere di pensare, e che forse la musica non è sempre fatta per essere intellettualizzata, che non vedo l’ora di rivederli dal vivo, e che magari possiamo chiedergli del futuro del post-punk la prossima volta.
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Last modified: 3 Novembre 2025




