Fugazi, 30 anni di “Repeater”

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La storia di quattro ragazzi che partendo dall’hardcore punk ridefinirono per sempre le coordinate del rock.

Il mondo può cambiare in pochi giorni, figuriamoci cosa può succedere in trent’anni. Tanto è il tempo che è passato dall’uscita del primo LP dei Fugazi, l’inizio di una storia semplicemente irripetibile.

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Repeater vede la luce nel 1990, ma la band aveva mosso i suoi primi passi già da qualche anno. In realtà la sua storia affonda le radici nei primi anni ’80, quando Ian MacKaye con i suoi Minor Threat spadroneggiava nella scena hardcore punk di Washington DC. Tre album, schegge impazzite che avrebbero fatto scuola, fino al 1983, quando contrasti interni ormai insanabili avevano portato allo scioglimento.

L’idea di MacKaye a questo punto era quella di mettere in piedi un gruppo che risultasse come “la combinazione tra gli Stooges ed il reggae”; reclutati Joe Lally e Brendan Canty e, in un secondo momento, Guy Picciotto (con gli ultimi due che erano già stati membri dei Rites of Spring, altra leggendaria band della scena hc di DC), la nuova creatura era ora pronta a riscrivere la storia del rock.

È proprio in questo periodo che l’estetica e l’ideologia fugaziane si formano e prendono vita: il principio fondante alla base di tutto era l’assoluta devozione all’etica del do-it-yourself, con la fondamentale Dischord Records che ne produceva e distribuiva gli album in piena autonomia, a prezzi popolari e soprattutto senza il supporto delle grandi major discografiche. A ciò si aggiungevano i concerti senza restrizioni di età e dal costo irrisorio (5$!), le interviste rilasciate solo alle riviste che la band stessa leggeva e apprezzava, l’ostracismo nei confronti del merchandising e in generale uno stile di vita – basti pensare alla filosofia “straight edge” adottata dai membri del gruppo – decisamente spartano e poco appariscente. Idea di comunità, di condivisione che ovviamente regolava anche i rapporti interni alla band, i cui componenti erano tutti attivamente coinvolti nel processo di songwriting e stesura dei pezzi.

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Repeater viene registrato tra il luglio e il settembre del 1989 presso gli Inner Ear Studios di Arlington, in Virginia, e si avvale della produzione di Ted Niceley, che successivamente sarebbe stato il punto di riferimento anche per altre importanti band noise/post hc americane (Girls Against Boys, Shudder to Think, Jawbox, per fare qualche nome).
In realtà un prologo lo si era già avuto con 13 Songs, un’uscita che raccoglieva i brani contenuti nei due EP (il self-titled e Margin Walker) che la band aveva pubblicato fino ad allora, trainata dall’iconica Waiting Room, ancora oggi tra i pezzi più celebri in repertorio.

Descrivere il suono dell’album, provare ad etichettarlo, ad ingabbiarlo in generi è impresa ardua, forse anche futile. Si è ormai ben oltre l’hardcore: un sound spigoloso, penetrante, dissonante, cerebrale ma allo stesso tempo emozionale, violento e – a suo modo – melodico. Un suono reso unico dalle chitarre continuamente sferzanti e da cui poi avrebbero attinto a piene mani post-rock (non a caso negli stessi anni a Louisville si cominciava a scrivere un’altra incredibile pagina della storia della musica, vedi gli Slint), crossover, emocore. In buona sostanza, una vera e propria pietra angolare nella storia del rock.

Il brano che probabilmente più di ogni altro rappresenta il manifesto sonoro eideologico del disco e in generale dei Fugazi è Merchandise, eloquente già dal titolo. Un vero inno al DIY e all’indipendenza, una condanna netta e senza appello aconsumismo e conformismo (“you are not what you own” è un verso indimenticabile in questo senso). Pura violenza sonora e verbale. Ma le frasi forse più significative e che a posteriori suonano come una definitiva pietra su qualunque presunta velleità di reunion sono quelle con cui il pezzo si apre:

When we have nothing left to give
There will be no reason for us to live
When we have nothing left to lose

You will have nothing left to use

Tutta la filosofia Fugazi condensata in poche righe.

L’inizio al fulmicotone di Turnover è l’emblema di quanto importante sia l’apporto di Picciotto alla causa, e non solo dal punto di vista strumentale: il suo cantato, menoclassicamente hardcore ma più drammatico rispetto a quello di MacKaye, conferisce ai brani un pathos davvero impagabile. Frustrazione e alienazione sono concetti cari alla band e trovano spesso spazio nel disco, prova ne è la titletrack. “I had a name, but now I’m a number”: uno spaccato vivido e raggelante sul disagio giovanile nella Washington di quegli anni sostenuto dal muro di suono impenetrabile messo su dalle sferraglianti chitarre di MacKaye e Picciotto.

L’intro di Blueprint, col suo incedere un po’ incerto, drammatico, è uno dei momenti più alti nella carriera del gruppo, e non a caso il brano in sé è incredibilmente seminale, basti pensare a quanto avrebbe poi influenzato tutta la scena emocore che di lì a qualche anno sarebbe esplosa.
Ridurre però Repeater ad un disco di chitarre sarebbe delittuoso: la sezione ritmica composta da Lally e Canty è a dir poco terremotante ed è la colonna portante su cui si erge la complessa impalcatura sonora dei Fugazi, e quando si prende la scena – come nel caso della strumentale Brendan # 1 – mostra tutta la sua peculiare e puntuale incisività.

È indubbio che le tematiche trattate nell’album rivestono un’importanza fondamentale nell’universo dei Fugazi: Styrofoam suona oggi come un’accusa ambientalista ante litteram; “We are all bigots / So full with hatred / We release our poisons”, canta MacKaye nel chorus.
Si era negli anni del buco dell’ozono, dei CFC, del boom del polistirene, agli albori di quella crisi climatica che oggi incombe sull’intero pianeta.
Greed è una sfuriata punk in cui Ian riporta alla luce il suo passato tutto hardcore, mentre la conclusione affidata a Shut the Door è da vero KO: atmosfera drammatica, tensione palpabile, con le chitarre che per l’ultima volta danno libero sfogo a tutta la propria urgenza sonora ed espressiva. E poi il testo, ispirato alla morte per overdose da eroina della musicista di DC Catherine Brayley: la voce di Ian comunica dolore vero, “I broke the surface so I can breathe” è un verso che annichilisce per quanto è metaforicamente crudo. Il MacKaye che nei Minor Threat a proposito delle dipendenze cantava “don’t drink, don’t smoke, don’t fuck” mostra qui tutta la sua personale e dolorosa umanità.

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35 minuti, 11 tracce: tanto bastò ai Fugazi per lasciare un’impronta indelebile nella storia della musica. L’abusata frase “da allora nulla fu più come prima” in questo caso ha piena cittadinanza.
Dopo Repeater la storia della band sarebbe continuata in maniera impeccabile, con una serie di album magnifici culminata in episodi grandiosi, come nei casi di In on the Kill Taker e Red Medicine. Agli albori del nuovo millennio sarebbe infine arrivato il commiato di The Argument, che avrebbe chiuso a chiave e messo nella naftalina una delle avventure musicali più intense e travolgenti di sempre.

Da allora i quattro membri si sono imbarcati in svariati nuovi progetti musicali e più volte si sono rincorse voci su una possibile reunion, che probabilmente rimarrà per sempre una bellissima ma vana suggestione. E forse è giusto così, per una band tanto leggendaria e alternativa che davvero poco avrebbe da spartire col mondo – musicale e non – di oggi. 
Del resto, lo si diceva prima, “when we have nothing left to give, there will be no reason for us to live”.

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Last modified: 1 Luglio 2020