Forever Howlong: declino o rinascita dei Black Country, New Road?

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Il nuovo album in studio del collettivo inglese era uno dei più attesi dell’anno: noi ne abbiamo scritto attraverso una recensione collettiva.
[04.04.2025 | Ninja Tune | progressive folk, baroque pop, art rock]

Una rampante formazione che in soli due album smentisce la tendenza al ripetersi tipica del post-punk revival incanalandola in un più vasto calderone dalle molteplici sfaccettature.
Sono i Black Country, New Road, giovani musicisti con un talento smisurato ed un’incontenibile voglia di crescere e la verve propulsiva del loro frontman, Isaac Wood, teatrale, spigoloso, istrionico, che rende la giusta dose di armonia e (sano) disagio in ogni singolo brano. Ma questo è solo l’inizio di una storia che inevitabilmente avrà un prima e un dopo.

È appena uscito l’acclamato secondo disco Ants From Up There quando circostanze personali costringono Wood alla decisione di defilarsi. Nonostante l’uscita di scena di quello che ne era stato il leader e la mente, artefice principale dei brani di For the First Time che ti arrivano addosso come un treno in corsa – la sensazione torcibudella di una Snow Globes, quel pugno in petto che è Sunglasses – coraggiosamente la band annuncia di voler proseguire con il progetto.

Un cambio di rotta era immaginabile, ma quella a cui si assiste è un’evoluzione quasi fisiologica. I BC,NR diventano una cosa diversa esattamente un secondo dopo la pubblicazione di Ants From Up There, quando i loro live vedono scalette composte esclusivamente di inediti – poi fotografati al termine di un lungo tour nell’album Live At Bush Hall.

Una scelta audace, ma forse l’unica eticamente perseguibile per una formazione che da sempre è di amici ancor prima che di musicisti, quella di congelare un disco prodigioso, figlio del genio di un leader carismatico quanto fragile, senza mai eseguirlo dal vivo. E così suonano sui palchi di tutto il mondo al cospetto di un pubblico da riconquistare, che si trova ad ascoltare qualcosa di profondamente diverso da ciò che il collettivo britannico era stato fino a un attimo prima.

E, a conti fatti, lo riconquistano, data dopo data, mentre quei brani acerbi maturano; lo testimonia la curiosità con cui lo stesso pubblico ha atteso il nuovo capitolo, il primo in studio senza Wood, della saga di una formazione che, nel bene o nel male, non ha ancora smesso di sorprendere.

Al netto degli esiti eterogenei dei singoli episodi, nei BC,NR una costante c’è, e può rivelarsi una chiave per la longevità: la qualità dei rapporti umani tra i membri, presenti e passati che siano. È quella con cui all’epoca hanno scelto di tutelare Isaac ed è anche quella che oggi celebrano nei temi e nella coralità di Forever Howlong.

Fatta questa lunga e doverosa premessa, ormai dovreste sapere che ci piace molto confrontarci sulle nuove uscite, per cui eccovi qui le opinioni di vari membri della nostra redazione.

Black Country, New Road © Holly Whitaker
Se peccai, fu per troppo amore.

Sarò sincero: mi sono approcciato a questo nuovo album con un certo pregiudizio, e, a dirla tutta, tale concetto si potrebbe estendere a tutta la parabola dei Black Country, New Road in questi ultimi tre anni. A conti fatti, l’aver amato così tanto i primi due lavori si è poi rivelato essere un boomerang, dal momento che l’asticella era stata posta davvero in alto e, anche senza scossoni di rilievo in seno alla formazione, mantenere certi standard non sarebbe stato facile in ogni caso.

Tanto premesso, la domanda che ho cercato di pormi mentre ascoltavo Forever Howlong è la seguente: “Se al posto dei BC,NR ci fosse stata una band nuova di zecca e al debutto, mi sarebbe venuta voglia di approfondire? Sarebbe stata roba a cui avrei dedicato attenzione e ripetuti ascolti?”. La risposta, ahimè, è no: l’impressione reale è che questa nuova versione del gruppo abbia spinto in maniera davvero troppo marcata su una componente pop e barocca che, sebbene già riscontrabile nei lavori precedenti, in questi era comunque stata mitigata da un’urgenza e un disagio di fondo che qui faccio davvero fatica a riscontrare (e che per il sottoscritto, ça va sans dire, risultano spesso determinanti ai fini dell’apprezzamento di un disco).

Intendiamoci, non parliamo certo di un album brutto: le sonorità esplorate potrebbero anche aprire alla band le porte di un pubblico diverso e magari più variegato; in più, soluzioni interessanti non mancano, le atmosfere sono peculiari, non manca una certa coerenza di fondo e siamo pur sempre al cospetto di un collettivo di musicisti decisamente valido. Mi sono anche interrogato sull’opportunità di continuare con lo stesso nome, cosa che, se da un lato presta il fianco a inevitabili paragoni, dall’altro mi appare però perfettamente legittima: i BC,NR hanno ragionato da collettivo e fatto un disco da collettivo. Troppo, da collettivo, perché col portare al parossismo un fil rouge tanto presente e distinguibile si rischia di sfociare nella piattezza.

Resta il fatto che ai Black Country, New Road continuerò a volere sinceramente bene, sia per una questione strettamente artistica che in virtù di un qualche tipo di solidarietà umana, dal momento che vedersi costretti a ripartire quasi da zero proprio quando la loro parabola sembrava indubbiamente lanciata verso l’alto è stato un colpo che avrebbe steso chiunque. Se ci penso, essere sopravvissuti a tali vicissitudini è già di per sé un successo. La vita continua, i BC,NR pure, anche senza i miei ascolti di una volta. E va benissimo così.

(Vittoriano Capaldi)

L’ombra del passato.

Avevo molta paura che questo album sarebbe stato un’enorme delusione. Devo dire però che Forever Howlong non è un disastro totale. Ci sono alcuni pezzi belli, lo dico sinceramente: Salem Sisters è un ottimo esempio di chamber pop con cambi di tempo interessanti e dinamici, Two Horses funziona con il suo crescendo che mi ha ricordato vagamente i primi Arcade Fire. Poi ci sono For The Cold Country e Nancy Tries To Take The Night, a mio parere i due brani più riusciti dell’intero album, in cui i Black Country New Road sembrano quasi loro stessi, in cui quel progressive pop barocco che li ha da sempre contraddistinti torna a brillare.

Quindi sì, l’album non è brutto, ma non è nemmeno un capolavoro. Almeno la metà della tracklist suona senz’anima, scorre via senza lasciare sottopelle le emozioni a cui la band ci aveva abituato. Mancano quelle chitarre e quella teatralità drammatica che mi hanno fatto innamorare della band. Isaac si è portato via anche tanto dello stile grandioso e unico della sua band. Con Forever Howlong i membri rimasti ci provano ad emozionare, ma non ci riescono quasi mai. Rimangono sulla superficie senza inabissarsi, senza andare giù per toccare le nostre corde emotive. Un album che poteva essere molto, molto di più.

(Federico Longoni)

A volte gli allievi superano i maestri.

Un sound fiabesco e barocco, forse a tratti eccessivamente. Forever Howlong è completamente epurato di ogni influenza klezmer e post-rock: l’impressione che suoni fin troppo innocente per sopravvivere in un mondo in cui la musica deve “mordere” per resistere è purtroppo forte e chiara.

Se sul versante strumentale la band sembra aver mantenuto una linea tutto sommato coerente con le sonorità degli albori – sempre complessa e sicuramente interessante, pur impostando la propria rotta su territori più ospitali e rassicuranti – lo stesso non si può esprimere riguardo le scelte sull’uso delle voci. Il cantato dolce e ammaliante di Tyler Hyde, Georgia Ellery e May Kershaw, seppur a tratti piacevole, sembra distanziarsi anni luce dalle atmosfere originarie della band e ne trasforma totalmente gli intenti.

Ad oggi, uno dei meriti più grandi attribuibili ai Black Country, New Road è quello di aver acceso i riflettori su una nicchia della Windmill Scene in rampa di lancio, indubbiamente degna di attenzione – Flip Top Head, Van Zon, The Orchestra (For Now), giusto per citare i più eclatanti. Se avete nostalgia del collettivo britannico degli esordi, il consiglio è proprio quello di non fermarsi a lungo qui ma farsi un giro da quelle parti.

(Francesca Prevettoni)

Grazie ma no, grazie.

Quel Live At Bush Hall profumava di nuovo inizio. Brani riusciti, altri meno, alcuni catartici, altri ironici e giocosi: era bello vedere che ci stessero provando, a volte in modo goffo, ma era un inizio. Quest’album invece sembra una fine, una brusca frenata, una direzione intrapresa che è quella sbagliata.

La strada di un art pop barocco era già tracciata, ma i brani di Bush Hall lasciavano intravedere degli spiragli di luce, melodie, forma canzone. I pezzi di Forever Howlong vogliono essere pop, ma senza mezza melodia che si stampi in testa (escluso il coro di Happy Birthday), vogliono essere prog ma con idee che devono svilupparsi in cinque minuti (spoiler: non ce la fanno), vogliono mantenere il lato “weird” dei primi BC,NR con lampi che durano sì e no 30 secondi (il break greepiano di Two Horses, i passaggi caotici di For The Cold Country e Nancy Tries To Take The Night) all’interno di paesaggi alla “I Misteri del Giardino di Compton House”.

Lampi, idee, scintille, persi in undici tracce lumacose, parruccone e a volte indistinguibili, anche per colpa della monotonia delle belle e onnipresenti voci che non lasciano il minimo respiro ai brani, contribuendo ad un’oppressione e ad un massimalismo che rendono Forever Howlong semplicemente insostenibile. Un disco che esiste già, ed è già stato fatto meglio, con maggiore stile, maggiore inventiva, molte e molte volte (Julia Holter, Joanna Newsom, gli stessi Jockstrap). Se questi sono i Black Country, New Road adesso, non ne abbiamo decisamente bisogno.

(Sebastiano Orgnacco)

Direzioni diverse.

Probabilmente mi attirerò delle antipatie per inserire fin da subito un riferimento ben oltre il pop, citando il mondo mainstream dei meme, ma non può che venirmi in mente quello dell’autobus con il medesimo personaggio che da un lato fissa un bellissimo paesaggio, solare e radioso, mentre dal lato opposta fissa il buio delle rocce, tutto malinconico e triste. Ecco, quello sono esattamente io quando penso alla traiettoria attuale della carriera dei Black Country, New Road. Ma eccovi il plot twist. Quando guardo fuori dalla finestra e il cielo è azzurro, limpido e il sorriso è immenso sto pensando ai loro primi due album. Quando sono seduto dall’altra parte invece i pensieri più brutti mi avvolgono e la testa va lì, su questo Forever Howlong.

Chiariamo subito una cosa. Ci ho provato e riprovato con gli ascolti, eppure l’ago non si smuove. Io e la band inglese di Cambridge siamo due tragitti destinati a separarsi. Quello che mi ha fatto innamorare di loro agli esordi è stata la bravura di saper inserire, strisciante o meno, quella svirgolata pronunciata di malessere e inquietudine, che si muoveva liberamente dentro la tensione delle strutture prog o art rock del caso, dove le dinamiche impazzivano o si disperdevano in una nostalgia. La direzione qui intrapresa sfocia invece in un barocco sfarzoso, fin troppo rifinito e patinato per le mie orecchie, con un pop che non riesce a essere così catchy e delle spruzzate prog/70s che sono fin troppo diluite.

I nostri rimangono ottimi musicisti (sanno di esserlo) e non si sono dimenticati all’improvviso come si suona, ma è palese che io non sia più la persona adatta per apprezzare questa svolta artistica: la struttura complessiva nei 52 minuti di Forever Howlong riecheggia iper-satura sul cantato, mentre l’ampiezza strumentale, che in più di una occasione potrebbe prendersi il palcoscenico, non trova quasi mai il giusto respiro, se non in alcuni fraseggi estemporanei, come nella seconda parte di Nancy Tries to Take the Night dove trova un inaspettato vigore. Eppure, credo che là fuori quest’album piacerà e conquisterà sicuramente nuovi fan, magari proprio chi mal sopportava il tremolio farneticante di Isaac Wood.

(Daniel Molinari)

Un estremo manifesto del pop barocco.

Da tempo analizzo il collasso della più recente ondata di post-punk britannico e quella supernova che aveva generato diversi filoni, tra i quali il BMNRcore. Con rammarico, noto come molti gruppi stiano abbracciando un’estetica in cui il disagio del post-hardcore e del noise viene sostituito da voci cristalline ed eteree, trasformando il tormento in un paradiso sonoro. Personalmente, preferisco l’inferno creativo all’eccessiva levigatezza.

Il primo terzo di Forever Howlong è dominato da marcette beatlesiane, pezzi da musical e una ricerca di dinamiche che spesso sacrifica il ritmo. La seconda parte tenta un approccio più prog: For the Cold Country offre un inizio pastorale che muta in un cambio jazz, mentre Two Horses propone un bridge centrale prog pop con un tocco romantico. In particolare, Nancy Tries to Take the Night si distingue per il suo bell’arpeggio folk, che ricorda Microphones e i primi Genesis, e per il passaggio centrale che, finalmente, riecheggia l’essenza dei vecchi Black Country, New Road. Anche qui, tuttavia, si percepisce una mancanza di concentrazione nello sviluppo delle tracce: le parti strumentali risultano troppo brevi e le sezioni cantate si prolungano eccessivamente.

Non mi aspettavo un’opera equilibrata come i primi due lavori, ma speravo in una maggiore articolazione strumentale e in un’idea più coerente, capace di coniugare la loro identità originaria con una nuova direzione senza rinunciare alla complessità. Mi aspettavo di trovare pezzi da dodici o quindici minuti, dove dominasse la parte strumentale e la sua evoluzione, ma forse sono io che pretendo troppo.

(Gianluca Marian)

Sperimentazione senza spigoli.

La parabola dei Black Country, New Road post-Ants from Up There ricorda a tratti quella di Ottessa Moshfegh post-“Year of Rest and Relaxation”: la realizzazione che ciò che li ha resi famosi (e poi lasciati, nel caso dei BCNR) è irripetibile, e che quindi il modo migliore per preservare alcuni dei propri tratti è cambiare scenario, trasporre la propria penna in luoghi e tempi difficili da identificare. Ma se nel caso di Moshfegh in “Lapvona” la personalità dell’autrice rimane salda a muovere la narrazione, qui i BCNR sembrano a stento galleggiare all’interno di gran parte di un disco che quasi li inghiottisce, più grande nelle ambizioni che nell’identità.

Il test nell’ascoltare questo disco è stato chiedermi “e se a cantare i pezzi fosse stato Isaac Wood?”, perché a livello strumentale non è cambiato poi tantissimo, ma un disco ambizioso, coeso e ben suonato diventa troppo ambizioso, troppo coeso e troppo ben suonato quando manca una presenza tagliente per sorreggere (e anche frenare, dove necessario) il talento di questi musicisti, le cui voci (tre) invece in Forever Howlong si confondono l’una con l’altra, e gli strumenti fanno troppo spesso da accento alle (già barocche) melodie vocali piuttosto che reclamarsi i propri spazi.

Ci sono momenti di emozionante bellezza, ma sono perlopiù sprazzi: il crescendo e la parte centrale e finale di Socks, gli arrangiamenti di Salem Sisters, la seconda parte di For the Cold Country che finisce in una grande esplosione. Ma il retrogusto che lascia un disco così è quello di un prodotto che troppo spesso si fa trascinare dalla propria sperimentazione, piuttosto che dominarla.

(Claudia Viggiano)

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Last modified: 18 Aprile 2025