Delicate Machinery, il fragore incessante degli Unstable Shapes

Written by Recensioni

Tra noise e post-hardcore, il debutto della band di Minneapolis è un treno che corre all’impazzata su binari ferali e dissonanti.
[11.04.2025 | Learning Curve | post-hardcore, noise rock]

Guardo il buco dentro di me e non capisco più se ero o sono.

Dalle riviste ai grattacieli, dalle penne ai divorzi, sembra che tutto abbia perso la propria autenticità. La recensione che segue non si limita a narrarci il suono e l’energia di un album, ma ci invita a riscoprire l’arte del recensire come un esercizio critico, emotivo e creativo.

Mentre la musica degli Unstable Shapes sfida quel solco lasciato dalle chitarre di Bob Mould, poggiando ben saldi i piedi nella contemporaneità punk, la scrittura di Francesca sembra quella di un moderno Virgilio, pronta a guidarci tra le vie intricate dei sentimenti e delle riflessioni.

Lunghe corse verso casa, sotto archi di cemento abbandonati, sotto una scrosciante pioggia, mentre sale il petricore.

Questa recensione è un manifesto contro quella tendenza a ridurre il critico a mero promotore di numeri e consensi; è un inno alla sincerità del gesto artistico dimenticato del recensore.

Preparatevi dunque ad immergervi in un viaggio sonoro e letterario in cui ogni nota, ogni parola, è carica della forza di chi ancora crede che la rivoluzione cominci proprio a casa, preferibilmente davanti allo specchio del bagno.

Buona lettura.

[Prefazione di Gianluca Marian.]

Unstable Shapes © John Oakes
Tutto cambi perché nulla cambi.

“They don’t make magazines like they used to
They don’t make skyscrapers like they used to
They don’t make shoe shiners like they used to
They don’t make diplomats like they used to”

Non fanno più nulla come lo facevano un tempo, decreta la voce graffiante di Andrew Cahak nel singolo apripista Glass Ladder. Le riviste, i grattacieli, il lucido da scarpe, persino i divorzi non sono più quelli di una volta.
Per fortuna, aggiungo io, nel 2025 esistono ancora i cari vecchi amici di penna, nonostante i mezzi siano (purtroppo o per fortuna) cambiati, le penne ad inchiostro sostituite da qualche rapido tap su un touchscreen. Ed è stato proprio così che, complice una connessione a circa 7400 chilometri di distanza basata su affinità musicali, ho avuto la fortuna di scoprire l’esistenza degli Unstable Shapes.

Delicate Machinery è il titolo dell’album di debutto di questo rampante quintetto di stanza a Minneapolis, in uscita proprio oggi. La proposta viaggia sicura su coordinate prettamente post-hardcore e noise rock, con un potente ed efficace mix di spigolose chitarre, linee di basso prominenti, una batteria a dir poco travolgente.

Ispirandosi agli episodi più tesi e fulminanti di Fugazi e Hüsker Dü, con una ricercatezza posata e talmente naturale da sembrare involontaria, sempre miscelata a massicce dosi di rumore in stile Sonic Youth, agli Unstable Shapes bastano soltanto trentotto minuti per dimostrarci di non essere la solita band trita e ritrita che attinge a piene mani dal suono degli anni ’90 per riprodurne poi soltanto una mera fotocopia.

Un esordio che non vuole semplicemente essere uno sterile spaccato di “come avrebbero suonato quelle band oggi”, bensì una sintesi altamente personalizzata, rielaborata, resa attuale; un disco sincero, in cui si percepisce vivamente ogni frammento di anima e cuore che ogni singolo membro della band ha impegnato per giungere al risultato finale.

Un’intensità emotiva a momenti insostenibile.

I testi di Andrew Cahak spaziano fra tematiche personali ed esplorazione della propria identità in un mondo alla rovescia, rabbia e dolore, frustrazione e delusione, nichilismo, dubbio esistenziale. Liriche talmente profonde e traboccanti da dare talvolta l’impressione di aver aperto il diario segreto del proprio migliore amico (anche i diari segreti non sono più quelli di una volta, bisogna prenderne atto).

Le sonorità ovviamente non sono da meno: per convincersene è sufficiente dare un ascolto all’esplosivo trittico iniziale, un ottimo campione per immergersi appieno nelle sonorità dell’intera opera. Il massiccio basso di Kevin Hurley e i riff disperanti delle chitarre di Mitch Gustafson e Ryan Jaroscak nell’opener Prince Kissinger ci colpiscono diretti come un pugno allo stomaco.

La successiva Glass Ladder, catchy al punto giusto, bilancia alla perfezione un sottile gusto per la melodia e la potenza ritmica del batterista James Taylor; in Feral Joy, invece, una ruvida performance vocale che ricorda per impeto e veemenza i Rites of Spring accompagna spigolose sferzate post-hardcore in un vortice di palpabile disagio.

Sotto la superficie di Delicate Machinery sembra correre rapidissimo un treno destinato a non fermarsi mai, attraversando ogni traccia fra dissonanza e violenza, calma apparente e turbini di sentimenti contrastanti.
Ogni singolo minuto è pervaso da un’intensità emotiva che su certi episodi pare essere talmente incontenibile da non trovare valvola di sfogo, esplodendo irrimediabilmente e mandando tutto in (meravigliosi) frantumi.

È il caso della roboante The Local Sphinx, intrisa fino all’osso di una furia a stento controllata, le cui briglie vengono finalmente mollate sul finale, ma anche della seguente Flesh + Blood + Stars, forse uno dei picchi più alti, in cui la voce prende inaspettatamente una piega pulita e melodica sulla strofa iniziale, per poi non riuscire più a trattenersi e detonare già sul refrain.

Un’energia inestinguibile.

“And when I die
Spread me out for all to see
Pour me out for all to drink […]”

Se non vi siete lasciati disarmare dalla presunta derivatività del contenuto di quest’album e siete arrivati fin qui ascoltando senza pregiudizio, avrete probabilmente già scoperto le tre perle finali che lo chiudono in bellezza: Sunlight, You’ve Been Selected To Become Bones e Jaguar Jaws.
Trentotto minuti in cui l’energia non è calata per un solo attimo, il fragore mai cessato, nessun contrasto ha smesso per un solo istante di apparire netto e vivido.

In Delicate Machinery si distingue nettamente dell’ottimo potenziale, messo nero su bianco sull’istantanea di una band sorprendentemente solida, con tutte le carte in regola per riuscire a doppiare una prova già superata con il massimo dei voti.

Non sono sicura che le band siano ancora le stesse di una volta. Dopotutto, se sono in grado di sfoderare proiettili di questo calibro, a chi interessa?

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Last modified: 11 Aprile 2025