deathcrash – Return

Written by Recensioni

Gli ennesimi eredi degli Slint in un atto di catarsi dalla sofferenza esistenziale.
[ 28.01.2022 | Untitled Records | slowcore, post hardcore, post rock, emo ]

Quale momento migliore per mettere su una nuova band se non qualche mese prima dell’avvento di una pandemia? Parte con i migliori auspici l’avventura dei deathcrash, formazione londinese composta da Tiernan Banks (voce e chitarra), Matt Weinberger (chitarra), Patrick Fitzgerald (basso) e Noah Bennett (batteria), già nota a noi ascoltatori “depressi” per una manciata di singoli, tra cui un paio di chicche niente male: Slumber del 2019 e People Thought My Windows Were Stars dell’anno successivo.

Il loro primo full length, Return, è un gioiello slowcore che diviene perfetta colonna sonora del più triste inverno che si potesse immaginare da questa parte del mondo; un’altalena emozionale in cui la dolcezza della voce di Banks si alterna a strascichi strumentali malinconici ed esplosioni post hardcore ansiogene.

Niente di troppo originale, certo; i deathcrash non fanno altro che rimpinguare il plotone di band britanniche che ultimamente saccheggiano l’emo yankee e il post qualcosa senza ritegno, eppure il risultato è, stavolta come in diverse altre occasioni recenti, carico di fascino e soprattutto manifestazione pura di talento cristallino. Ora più che mai perché i londinesi riescono realmente a fornire una versione alternativa della lezione degli Slint che, ancora una volta, appaiono come uno dei principali punti di riferimento ma non l’unico (Slowdive, Function), soprattutto nelle linee vocali nelle quali i londinesi tanto devono ai Mogwai ma anche al songwriting di Mount Eerie ed Elliott Smith.

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La parte strumentale omaggia palesemente il midwest americano di American Football e Sunny Day Real Estate nelle sue fasi più compassate, ma anche lo slowcore di Codeine e Duster, mentre le esplosioni soniche rifanno al post hardcore, inevitabilmente ai black midi nonostante la minore incisività delle parti prog e math, ai Mogwai nelle loro scalate soniche ma anche agli Shipping News in Flies the Fields e ai Dirt Nap di Below the Speed of Sound.

Return è un disco zeppo di riferimenti, non certo originale eppure dal sapore tutt’altro che stantio e che, proprio per la sua natura derivativa, tanto si affida agli aspetti emotivi, calcando la mano con liriche struggenti e scelte estetiche di sicuro impatto. Un disco che, nella sua parte prettamente musicale, potrà farvi innamorare per gli stessi motivi per cui potrebbe annoiarvi. Costruito con cura, pieno di melodie, suoni struggenti, testi sconfortati, saliscendi emotivi, perfetto per chi ama lo slowcore, il post rock, l’emo e quindi potenzialmente in grado di abbracciare un pubblico molto ampio, ma al tempo stesso incapace di prendere nettamente le distanze dai suoi stessi punti di riferimento.

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A voler fare un paragone coi concittadini Black Country, New Road, questi sono riusciti proprio a superare il limite evidente nei deathcrash: nonostante entrambe le band miscelino generi diversi, nei primi sono evidenti le idee nuove e il fatto che il risultato sia qualcosa di totalmente fresco rispetto al passato, negli ultimi ogni momento può essere accostato a qualcosa di preesistente ed ogni idea è ristretta alla ricerca di mesta gradevolezza estetica e trasporto sentimentale.

La loro rilettura del “lontano” è qualcosa di alternativo al mainstream ma non nuovo e, se ci pensate bene, non è cosa affatto strana o inaccettabile. Anzi, diventa un limite solo nella misura in cui si voglia parlare di Return con termini altisonanti ed eccessivamente entusiastici perché, a dire il vero, l’opera prima dei deathcrash non è un capolavoro assoluto ma comunque è uno di quei dischi che non dovremmo mai dimenticare di ascoltare una volta ogni tanto come atto di catarsi dalle scorie lasciate nel cuore da tutte le sofferenze che la vita ci riserva.

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Last modified: 4 Aprile 2022