In un’industria musicale iperveloce, tornare dopo sei anni può essere un azzardo. Per l’artista californiana si tratta invece di un lento processo di crescita che culmina in questo nuovo lavoro.
[10.10.2025 | Polyvinyl, Lucky Number | indie rock, dream pop, cantautorato]
“You can’t record music once every three to four years and think that’s going to be enough.”
Queste parole di Daniel Ek rimbombano nella mia mente vuota da cinque anni, un’eco in questo spazio liminale tra sogno e realtà, in cui faccio ancora fatica a capire come sia stato possibile accettare di prostrarsi a questo costante accelerazionismo artistico. Le dichiarazioni del CEO di Spotify non rappresentano solo la nuova frontiera di un produci-consuma-crepa al cubo: sono diventate la perfetta incarnazione di un attention span così ridotto che ormai può davvero capitare che l’artista che amavi, di cui avevi consumato gli album a furia di replay, venga “dimenticato” solo perché ha fatto passare troppo tempo tra un’uscita e l’altra.
Produci, consuma, passa ad altro, senza emozioni o replay value di sorta. Senza che nell’equazione possano entrare in gioco elementi come l’affezione, l’impatto emotivo di una canzone, di un intero disco, o di un live che si tramuta in ascolto compulsivo della produzione in studio. O, da parte degli artisti, l’ispirazione, avere delle cose da dire, i tempi tecnici che intercorrono tra scrivere musica, pubblicarla, portarla in tour e ripetere il ciclo (che spesso è completamente avviluppato su sé stesso) senza considerarlo effettivamente un vero lavoro, con tutte le pause necessarie o con tutte le componenti umane del caso.

Un attesa lunga 6 anni.
Chissà se questi pensieri sono passati per la testa di Melina Duterte, aka Jay Som, che dopo il tour di Anak Ko e la pandemia ha deciso di mettere in pausa la propria carriera per concentrarsi su quanto accade dietro le quinte: studiare la produzione musicale, entrare nel mondo più tecnico e ingegneristico della strumentazione analogica, capire cosa vuol dire “essere una musicista senza essere la leader di una band o una solista”.
Rimanere senza suonare era però impossibile: ecco allora il progetto Bachelor insieme a Ellen Kempner (Palehound) e l’album Doomin’ Sun nel 2021, oltre al pantagruelico tour con le boygenius, di cui ha anche contribuito alla produzione di the record (e che si aggiunge a quanto fatto per Hatchie, Beabadoobee e Jeff Tweedy). Ma questa è la storia di Melina Duterte, e di Jay Som finora neanche l’ombra, almeno fino al 2024, quando un brano inedito trova posto nella colonna sonora di I Saw The TV Glow di Jane Schoenbrun. È il preludio al ritorno, che arriva un anno dopo: 10 ottobre 2025, ecco Belong.
La prima cosa che salta all’occhio è come questo sia un disco corale, quasi un Jay Som & Friends, come se le esperienze con Bachelor prima e con le boygenius poi avessero in qualche modo aperto le porte del progetto a nuove voci. Nel corso dei 34 minuti fanno capolino Hayley Williams dei Paramore, Jim Adkins dei Jimmy Eat World e Lexi Vega, aka Mini Trees, e ognuno di questi nomi dona un po’ della propria magia per costruire un universo sonoro variegato ma omogeneo, dove dream pop, pop punk, folk e grunge si amalgamano perfettamente al songwriting di Melina, rendendo Belong un disco compatto e senza momenti deboli, un quadrato perfettamente colorato in ogni suo punto, il pennarello a passare accanto ai bordi con precisione millimetrica e senza sbavature.
Più derivativo di Anak Ko? Certamente. Meno sorprendente? Assolutamente no. Il range di soluzioni rimane imbarazzante per quanto è vario, passando rapidamente da ballate struggenti (Appointments) a pop rock perfetto per le college radio (What You Need), da tesi build-up grunge (la conclusiva Want It All) a un innodico pezzo punk rock da pogo liberatorio (Float, ispirata dai Cloud Nothings e in cui si sente fortissima l’influenza di Jim Adkins e dei suoi Jimmy Eat World).
Tra pop e ricerca di nuove strade.
Non manca spazio per la sperimentazione: Cards On The Table apre l’album con un battito leggero e un loop di chitarra che richiamano il lavoro di Mini Trees (che infatti è ospite anche nei cori). Meander/Sprouting Wings gioca con effetti vocali prima di mutare in un delicato quadretto folk in perfetto stile Alex G. A Million Reasons Why abbozza un minuto di cantautorato lo-fi à la Mac DeMarco.
L’altro lato di un album che invece conferma un songwriting ispiratissimo in brani come Casino Stars o la meravigliosa Past Lives, dove la voce di Melina si intreccia con quella di Hayley Williams, creando una ballata perfetta, che richiama davvero i migliori momenti targati boygenius, prima di esplodere sul finale in un muro di distorsioni (“I’m stuck in the mud / I’m spiraling up”).
Se Jay Som ha scelto di cesellare questo Belong con calma, prendendosi tutto il tempo necessario per respirare e dedicarsi ad altri progetti nonostante fosse su una rampa di lancio, rimane pur sempre una mosca bianca in un’industria musicale che brama contenuti usa e getta e artisti da cui risucchiare ogni tipo di linfa vitale prima di passare al prossimo.
Quantity over quality, in un ciclo vizioso che ingrassa i soliti noti e lascia le briciole a tutti gli altri. Ed è in questo contesto socio-culturale che il ritorno di Jay Som con un album musicalmente “normale”, che non punta a reinventare alcunché ma si presenta esclusivamente come una serie di canzoni bellissime, suona come una piccola rivoluzione, una presa di posizione, un dito medio a un modus operandi tossico.
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Last modified: 28 Ottobre 2025




