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Zorn – Eva’s Milk

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A prima botta la voce sembra quella stonata del vocalist Verdenico, ma poi ti ricredi e vai con l’immaginazione a Brema dove i novaresi Eva’s Milk hanno trovato la loro America e urlano a tutti i paralleli il loro nuovo album “Zorn” che non è ispirato – sempre a prima botta – all’Acephale, il movimento filosofico di Georges Bataille, ma bensì alla rappresentazione di uno stringente trait d’union tra le culture metal zincate di black, anni novanta post-grunge e agganci uncinati con le posture di marca Soad, e che una volta fuse insieme danno questo marchio di fabbrica dal percorso affascinante nel suo essere radicale, elitario e rumorosamente ambiguo.

Più che attirare l’attenzione sul crossover stilistico, il disco interessa per la sua caratterialità pregna di abbandoni ed interminabili esplorazioni nei più bui recessi del suono doloroso e angosciato, preda di allucinazioni e passaggi per il di sotto di un inferno che non ha soste drones; tutto gira nell’oscurità, Rimbaud e aggressioni soniche sono ospiti integralisti nella ramificazione della tracklist, pulsioni visionarie e pads inquietanti sono le tappezzerie che abbelliscono i tracciati abrasivi degli Eva’s Milk “Turpentine”, il doom filo mistico che lega a scorsoio la trama di “Nella bile”, la pazzia millimetrata che graffita la tenebrosa tarantella di “Al tempo di Caronte” o i Marlene Kuntz che compaiono come imbarcati a forza nella struttura che regge” Come falene”.

A giudicare dalla copertina tutto sembrava rientrare nella normalità di un qualcosa casinaro e metallizzato, con quelle rasoiate da copione a lambire pelle e nervi o il ricorso “perenne” a un abusato pistar di pedaliere che a lungo andare sfascia coni e testicoli, ma poi una volta scartato dalla confezione si fa conoscere per quello che effettivamente è, un disco maledetto come pochi in circolazione, che ti si avvicina come una serpe ipnotica, e tutto d’un tratto ti divora, tra paranoie e vulcanici morsi elettrici “”Zorn”.

Deboli di cuore state alla larga, per chi cerca la destabilizzazione come via d’uscita dalla calma, attaccatevi qui, e per un bel po’ non sarete più quelli di prima.

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A Latex Society – Esdem

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Basterebbe dire che tramite la rivista Blow Up, culto e riferimento per ogni ascoltatore intransigente e alla ricerca di suoni poco convenzionali, hanno lanciato l’album in questione (4 brani nel numero di luglio-agosto) e che un certo Giulio Ragno Favero, piccolo grande Re Mida della musica italiana contemporanea, si è occupato del missaggio, per conferire al disco, già prima di ascoltarlo, un alone di venerazione e culto.

Una prima grossa difficoltà la si trova nel sintetizzare con una parola il genere intrapreso dalla band marchigiana, autodefinitasi electronic post-rock. Certo non è sulla definizione che ci fossilizziamo quanto piuttosto nel cercare di collocare nel panorama attuale le idee e la creazione degli Esdem per analizzarne la direzione e lo sviluppo. E le difficoltà restano. Un disco pesante. Come poteva essere pesante Mezzanine ben tredici anni fa, perché se proprio dobbiamo cercare di rendere l’idea è a quell’album e ad una sua ipotetica prosecuzione che andiamo a pensare.

Chiamatelo trip-hop chiamatelo ambient ma l’accostamento immediato che viene da fare è proprio a quell’ambiente di confine sperimentale tra digitale e analogico che ieri Air e oggi Dalek rappresentano perfettamente. Disco da ascoltare tutto d’un fiato senza pause perché i brani non ne richiedono affatto anzi si lasciano digerire e dimenticare continuamente in un flusso sonoro ipnotico senza sosta finché non ti rendi conto di averli ascoltati per 6 o 7 volte di seguito. Descrivere ogni singolo brano risulterebbe sbagliato perché sarebbe come strappare una parte dal tutto ed isolarla a sé.

A manifesto dell’album scegliamo solo di sottolineare come in Italia una band in grado di creare un’atmosfera torbida e soffocante come “Sure”, giochicchiando con strumentazioni varie, difficilmente si vede in circolazione. In un contesto tanto complicato e pieno di accorgimenti pre e post produzione, è curioso come la voce risulti la vera chicca del risultato finale. Un cantato sempre sommesso, confuso, dilaniato che segue il resto solo quando ne ha voglia. Come del resto l’apparire e lo scomparire di alcuni strumenti nel corso dell’album, a disegnare un quadro impressionista in cui si sfiorano i brani ma non li si tocca mai con mano realmente.

La recensione arriva con ritardo rispetto alla data di pubblicazione dell’album, ma su Rockambula non poteva comunque mancare la citazione di uno dei migliori album italiani del 2011.

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