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Lucy Van Pelt – L’instabile

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L’instabile” è la forza motrice discografica della formazione umbra dei Lucy van Pelt, un disco di trentatré minuti e trentatré secondi d’inarrestabile poesia, corrente elettrica e pensieri accavallati, un dieci tracce che elegge la perfetta sintesi dei tempi che si corrono a suo simbolo ed un bel trascinamento contagioso verso gli anni rock dei novanta italiani, della consapevolezza ed esigenza di smanettare dentro l’indie e quella viscerale esuberanza dell’opera prima che già al primo giro di giostra minaccia di prendersi più di uno spazio nell’underground di casa nostra e non solo.

Federico Minciarelli batteria, Francesco Tartacca voce e acustica, Matteo Rufini basso e Matteo Tiecco alla chitarra, questo il power della band che non avanza mai sporcato e sconosciuto dentro il cosmo rock, ma cerca di interpretarne una possibile nuova via e riesce a catturare l’attenzione per la “performance a concept” sulla quale alterna poesia melodica ed ispessimenti distorti, Il Santo NienteL’invidia”e Soul AsylumL’uomo italiano medio non ha senso”; brani compatti ed energia vitaminica si confrontano con momenti di lusso acustico cantautorale “Tra l’oggi e il domani”, la magnifica sensazione  psichedelica del minuto e quarantanove secondi di “MAV” che ti afferra per la collottola dell’anima e ti trasferisce tra le spire vorticose di “Senza di te” non prima di averti schiaffeggiato di grazia con la Vedderiana “Le tue risposte”.

Un esordio, questo che gela il sangue, splendifero nei dettagli, “umano” nelle parole, un atto d’amore sincero per la vera e bella musica, una scelta questa della band di suonare armonie e non solo pigiate di pedaliere; ora con una band così in giro crediamo che le cose potrebbero cambiare sotto la lente d’ingrandimento della ricerca di novità da mettere sotto il lettore stereo, e Lucy van Pelt – con o senza il parere favorevole di un Charlie Brown imbronciato –  tira avanti col vento in poppa.

Entusiasmante spirito ribelle “Instabile”.

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Jerrinez – Io Sono Stato

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Rimanere alternativi per forza, per stile di vita. Anche quando tutto intorno ti si uniforma, l’universo che ti avvolge cerca di modellarti, ma tu mostri a lui solo il tuo scudo di ferro battuto. Ormai lo scudo è tutto ammaccato, ma questo ti rende ancora più forte e più grato.

E così dopo più di 10 anni di palchi e sudore, ti presenti ancora con quel suono che sa di marcio e quella voce che grida di indifferenza e di degrado, pronta a sputare nel prossimo umido microfono del centro sociale di periferia. Così fanno ancora i Jerrinez, da Milano.

Il loro ultimo album “Io sono stato” riflette una sbiadita ombra di CCCP e (se vogliamo essere più cool) di Teatro degli Orrori con quel pizzico di noise-by-USA che tanto andava di moda ben più di 10 anni fa (forse gli anni sono anche più di 20 se vi dico Sonic Youth). Ma qui ora tutto è fermo, intrappolato in quei ritmi pseudo hardcore, in feedback ossessivi e nella definitiva distruzione della melodia. E la band rimane intrappolata in una registrazione che sembra appositamente marcia, poco incisiva, fuori dal contesto e stridula.

L’uso della parola salva parzialmente la situazione, la storia che non ci insenga rimane in primo piano nella bocca isterica di Bobo Boniardi, che sputa frenetiche sentenze senza troppi peli sulla lingua: “cambiano le stanze, le vittime e i carnefici, rimangono vecchi sogni su cuscini poco soffici”. La “storia” è dunque ben argomentata in vari episodi, il più riuscito rimane “Gaetano”, dove ci viene presentato il punto di vista di Gaetano Bresci, carnefice di re Umberto I.

Il titolo del disco sembra dunque proprio azzeccato, il passato è qui dentro, con tutto il suo fardello. Ma il piccolo microcosmo che si difende con il suo onesto scudo sembra proprio essere stato inglobato e ormai ignorato dal gigantesco universo che lo sovrasta.

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Amelie Tritesse – Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll

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“Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll” è il cd libro degli irreverenti spacca pensieri Amelie Tritesse, una carica bastarda di read’n’rocking in presa elettro diretta. Un disco di dieci pezzi accompagnati da un libro di racconti quotidiani di 64 pagine, testi ed illustrazioni.

Una cosa fregna. Poi il gioco musicale intrapreso tra brani recitati come qualche affermata situazione italiana insegna e pezzi in inglese di genuino rock and roll rendono questo lavoro interessante e propositivo per un ascoltatore che non cade mai nella solitudine della monotonia, rimanendo sempre attento alle circostanze. Molto Abruzzo nel complesso, la loro terra stanca di rimanere sempre al palo rinchiusa e tartassata da (in)fondati pregiudizi, l’orgoglio viene prepotentemente fuori, le palle ci sono e come.

Sensazioni bellissime in “Una ballata per Jeffrey Lee”, già ero cascato in queste sensazioni con il Circo Fantasma e non mi stancherò mai di farlo, un pianoforte struggente viaggia leggero ad accompagnare una calda voce dalle movenze interpretative di chiaro spessore.
Poi la title track “Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll” arrovella cattivi pensieri nella testa presa da un tiro profondo di spino, qualcuno aveva già provato queste “cattive abitudini” portandone fuori consensi di nicchia. Io non ho mai capito un cazzo del rock and roll. Giuro.
Un opera prima per questi ragazzi dagli alti canoni artistici da considerare con lode, difficilmente collocabili in questo caos musicale indipendente italiano, una fresca realtà che cerca di differenziarsi dalla massa usando egregiamente tutte le armi del proprio arsenale artistico.

Un folk rock con puntine di sporca elettronica da maneggiare sempre e comunque fregandosene dell’estrema cura, gli Amelie Tritesse vogliono apparire essenzialmente per quello che sono senza inganno. “Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll” prepara la musica verso un’altra rotta tutta ancora da esplorare, un ottimo inizio. Col botto.

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Aldrin – Bene

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Quante palle ci vogliono per suonare Post Rock in Italia nel 2011? In Italia, pensateci, il regno della canzone d’autore, dei testi impegnati, del pop da suoneria, del rock da bimbominchia.

In Italia, dove per vendere dischi, devi fare il coglione da Maria o essere giudicato da Simona Ventura, nota esperta del settore.

In Italia, dove chiedere, anche in tanti locali underground (che poi che cazzo di termine), di suonare dal vivo pezzi propri per un gruppo emergente significa prendersi una bella risata in faccia mentre un “dj (???) ” ti sorpassa e riempie il locale di cadaveri pronti a pagare anche dieci euro, consumazione inclusa, pur di ascoltare roba che già conoscono, gruppi che hanno ampiamente rotto i coglioni.

In Italia, dove le cover band riempiono le piazze alle feste di paese e talenti veri si spaccano il deretano senza un barlume di speranza.

Bene, la band di Viterbo ha due palle grosse come il fegato di Vasco Rossi. Trenta minuti di Rock strumentale divisi in quattro tracce omogenee ma intrecciate come a creare un disallineamento dei vostri neuroni.

Gli Aldrin nascono nel 2009 e nello stesso anno sviluppano il primo demo, “The Outstanding Tale of Buzz Aldrin” che toglie presto il dubbio sul nome della band citando l’astronauta che per secondo mise piede sulla luna. Alla base del progetto ci sono gli stessi membri attuali. Roberto, Massimiliano e Hendrick già in forze con le divise The U-Goes (gruppo indie di Viterbo) e il batterista Marco che viene, inaspettatamente viste le performance proposte con gli Aldrin, dal punk-hardcore di Ingegno e Ouzo. Con Roberto, Marco si sfoga attualmente anche con Cayman the Animal, altra band di matrice HC.

A questo punto potreste pensare ad un Post Rock particolarmente spinto, duro, aggressivo. Avreste pensato male. Le radici dei vari componenti sono qui fuse alla perfezione, completamente disgregate e ricomposte, rimescolate in qualcosa di fluido che niente ha a che vedere con gli ingredienti singoli.

Der Aldrin, brano che apre l’opera, inizia con un campionamento elettronico che, prima dell’ingresso di chitarre e batteria, dura circa venticinque secondi e riesce perfettamente a portarci nello spazio siderale, in viaggio verso la luna come fossimo neo-astro-nati Buzz, quarantadue anni dopo. Dopo il breve intro, il pezzo entra nel vivo dichiarando esplicitamente amore alla musica. Le influenze qui sono chiare, nette, evidenti. Mogwai soprattutto, in parte Explosions in the Sky, in un continuo altalenarsi che al minuto quattro e venti secondi finisce per implodere. La musica si ferma, per un attimo, come a trattenere il fiato dopo che il bang! del decollo è alle spalle. Il pezzo non è finito, il cammino è lungo ancora. Siamo soli nel nulla oscuro ad ascoltare nel silenzio assoluto la musica dei nostri pensieri. La chitarra ci accompagna, in un rimando forse anche troppo evidente agli scozzesi già citati. Succede qualcosa però. Il suono di un’altra chitarra sembra insinuarsi nella nostra mente spaccandola in mille pezzi. Pochi secondi prog inseriti come un indizio, un segnale, una firma di un serial killer sul nostro corpo totalmente in balia dell’antimateria universale. Nel finale, improvviso come un’onda maledetta si alza un muro di chitarre che ci sbatte da un lato all’altro del tempo, senza potere alcuno, senza difese. E prepara la chiusura fastosa di un pezzo che anche da solo sarebbe già enorme.

Vaskij Rosso propone un minuto e mezzo rivelatore come il pulsare del cuore in una botola. Più evidente si fa il riferimento al progressive in parte accennato in Der Aldrin, ma non pensate di ascoltare gli Yes teletrasportati nel presente, non pensate al progressive nel senso classico del termine. Con gli Aldrin ho capito che la strada non potrà mai essere dritta e la risposta mai una. Due minuti e mezzo e ti trovi a muovere la testa al suono di un assolo IndieRock e poi risucchiato nell’occhio di un turbine di onde elettroniche e poi in una nuvola ad ascoltare Dream Pop e poi chissà dove.

Molto Bene, terza traccia, molto bene. Ci siamo, siamo sulla luna. L’atmosfera si fa più calma, i ritmi più soffici, le note della chitarra sono quasi solo accennate. “Magnificent desolation”.
Un suono liquido ricorda la melanconia dei Low, dello slowcore/sadcore più struggente ma, come vi ho detto prima, gli Aldrin non sono mai banali. Una voce in inglese ci sussurra nella testa, ci avvisa come flash nella nebbia e a quel punto due parole, una voce in italiano stentato, una donna, è inglese, la vedo, “molto bene”e il sound riprende corpo e rabbia nel tempo che impiego a battere le palpebre.

L’album si chiude con La Drogue, l’episodio più leggero, più Pop-Rock di tutto il disco, con chitarre che ricordano Shoegaze pulito dai feedback caratteristici del genere. Entra in gioco una voce narrante, probabilmente non necessaria, che tenta di indirizzare i nostri pensieri andando in parte contro l’impalpabilità del rock strumentale che ne è anche la forza. Parole che provano a riportarci sulla terra. Senza riuscirci, perché sul finire, ci ritroviamo tutti su un palco fatto di speranze piazzato nel centro del Dark Side a urlare e cantare. Già cantare. Quello che non ti aspetti, ancora una volta.

Forse ai più esperti (snob) il rock strumentale proposto dagli Aldrin suonerà monotono, usurato, troppo farcito di contaminazioni o poco innovativo. I meno avvezzi a tali sonorità potranno soffrire la lunghezza dei pezzi, la quasi totale assenza del cantato, la mancanza della classica forma canzone. Io credo che saranno più coloro che apprezzeranno i continui cambi di ritmo, gli improvvisi controtempi, il citazionismo mai preponderante sulla musica, la mescolanza di generi quali il Funky o il Progressive alla pura espressione artistica del Post Rock chitarra/basso/batteria, l’atmosfera creata da un ascolto coinvolto, la potenza e le melodie a volte commoventi senza scendere mai nel patetico. I Giardini di Mirò hanno un futuro.

Non c’è bisogno di capire quello che questa musica vuole dirci. E’ sufficiente chiudere gli occhi.
Nei mesi a seguire ci sarà tanta gente in viaggio verso l’interzona posta tra la mente e il cosmo. Io intanto me ne sto ancora li, al riparo, aspettando. E continuo ad ascoltare.

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Zorn – Eva’s Milk

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A prima botta la voce sembra quella stonata del vocalist Verdenico, ma poi ti ricredi e vai con l’immaginazione a Brema dove i novaresi Eva’s Milk hanno trovato la loro America e urlano a tutti i paralleli il loro nuovo album “Zorn” che non è ispirato – sempre a prima botta – all’Acephale, il movimento filosofico di Georges Bataille, ma bensì alla rappresentazione di uno stringente trait d’union tra le culture metal zincate di black, anni novanta post-grunge e agganci uncinati con le posture di marca Soad, e che una volta fuse insieme danno questo marchio di fabbrica dal percorso affascinante nel suo essere radicale, elitario e rumorosamente ambiguo.

Più che attirare l’attenzione sul crossover stilistico, il disco interessa per la sua caratterialità pregna di abbandoni ed interminabili esplorazioni nei più bui recessi del suono doloroso e angosciato, preda di allucinazioni e passaggi per il di sotto di un inferno che non ha soste drones; tutto gira nell’oscurità, Rimbaud e aggressioni soniche sono ospiti integralisti nella ramificazione della tracklist, pulsioni visionarie e pads inquietanti sono le tappezzerie che abbelliscono i tracciati abrasivi degli Eva’s Milk “Turpentine”, il doom filo mistico che lega a scorsoio la trama di “Nella bile”, la pazzia millimetrata che graffita la tenebrosa tarantella di “Al tempo di Caronte” o i Marlene Kuntz che compaiono come imbarcati a forza nella struttura che regge” Come falene”.

A giudicare dalla copertina tutto sembrava rientrare nella normalità di un qualcosa casinaro e metallizzato, con quelle rasoiate da copione a lambire pelle e nervi o il ricorso “perenne” a un abusato pistar di pedaliere che a lungo andare sfascia coni e testicoli, ma poi una volta scartato dalla confezione si fa conoscere per quello che effettivamente è, un disco maledetto come pochi in circolazione, che ti si avvicina come una serpe ipnotica, e tutto d’un tratto ti divora, tra paranoie e vulcanici morsi elettrici “”Zorn”.

Deboli di cuore state alla larga, per chi cerca la destabilizzazione come via d’uscita dalla calma, attaccatevi qui, e per un bel po’ non sarete più quelli di prima.

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A Latex Society – Esdem

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Basterebbe dire che tramite la rivista Blow Up, culto e riferimento per ogni ascoltatore intransigente e alla ricerca di suoni poco convenzionali, hanno lanciato l’album in questione (4 brani nel numero di luglio-agosto) e che un certo Giulio Ragno Favero, piccolo grande Re Mida della musica italiana contemporanea, si è occupato del missaggio, per conferire al disco, già prima di ascoltarlo, un alone di venerazione e culto.

Una prima grossa difficoltà la si trova nel sintetizzare con una parola il genere intrapreso dalla band marchigiana, autodefinitasi electronic post-rock. Certo non è sulla definizione che ci fossilizziamo quanto piuttosto nel cercare di collocare nel panorama attuale le idee e la creazione degli Esdem per analizzarne la direzione e lo sviluppo. E le difficoltà restano. Un disco pesante. Come poteva essere pesante Mezzanine ben tredici anni fa, perché se proprio dobbiamo cercare di rendere l’idea è a quell’album e ad una sua ipotetica prosecuzione che andiamo a pensare.

Chiamatelo trip-hop chiamatelo ambient ma l’accostamento immediato che viene da fare è proprio a quell’ambiente di confine sperimentale tra digitale e analogico che ieri Air e oggi Dalek rappresentano perfettamente. Disco da ascoltare tutto d’un fiato senza pause perché i brani non ne richiedono affatto anzi si lasciano digerire e dimenticare continuamente in un flusso sonoro ipnotico senza sosta finché non ti rendi conto di averli ascoltati per 6 o 7 volte di seguito. Descrivere ogni singolo brano risulterebbe sbagliato perché sarebbe come strappare una parte dal tutto ed isolarla a sé.

A manifesto dell’album scegliamo solo di sottolineare come in Italia una band in grado di creare un’atmosfera torbida e soffocante come “Sure”, giochicchiando con strumentazioni varie, difficilmente si vede in circolazione. In un contesto tanto complicato e pieno di accorgimenti pre e post produzione, è curioso come la voce risulti la vera chicca del risultato finale. Un cantato sempre sommesso, confuso, dilaniato che segue il resto solo quando ne ha voglia. Come del resto l’apparire e lo scomparire di alcuni strumenti nel corso dell’album, a disegnare un quadro impressionista in cui si sfiorano i brani ma non li si tocca mai con mano realmente.

La recensione arriva con ritardo rispetto alla data di pubblicazione dell’album, ma su Rockambula non poteva comunque mancare la citazione di uno dei migliori album italiani del 2011.

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