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Dimartino – Sarebbe Meglio Non Lasciarsi Mai Ma Abbandonarsi Ogni Tanto E’ Utile

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Non ha la carica degli Zen Circus, la simpatia di Dente, i testi evocativi di Brunori, né ti fa muovere il culo come I Cani, come lo Stato Sociale. Non cazzeggia con musica e parole come Bugo e non esagera con l’italiano come Le Luci Della Centrale Elettrica ma Dimartino ha la capacità di penetrarti l’anima con delicatezza, pazienza, come un milione di gocce d’acqua e dietro di sé lascia solo un dente di roccia come lacrime di malinconia appese a una speranza. Riesce a evocare le stesse atmosfere che si creavano a casa vostra, quando da bambini, vi capitava giocando a fare i grandi, di far partire un vecchio disco di papà, di tipi che si chiamavano Piero Ciampi, Luigi Tenco o Sergio Endrigo. Restavate lì ad ascoltare senza capire cosa avesse di speciale quella musica che vi sembrava cosi strana, noiosa, diversa da quella della radio o dei cartoni animati. Aveva qualcosa che v’incantava, ma non riuscivate a capire cosa.

Il palermitano Dimartino in realtà sotto quel nome racchiude un trio composto anche dà Giusto Correnti (batteria e percussioni) e Simona Norato (pianoforte, Wurlitzer, Rhodes, Hammond B3, chitarre acustiche, chitarre elettriche) oltre che diverse partecipazioni (Giovanni Gulino dei Marta Sui Tubi presta la sua voce in “Cartoline da Amsterdam” cosi come la più che compagna d’avventura di Brunori Sas Simona Marrazzo, Mirko Onofrio ai flauti, sax tenore e xilofono, Giovanni Azzinnari al violino, Stefano Amato al violoncello, Luigi Gallo col corno francese, Gianluca Bennardo al trombone, Paolo Costola alle chitarre di colore e per gli arrangiamenti di archi e fiati abbiamo Mirko Onofrio). Tutto questo sotto la produzione artistica di Dario Brunori e la supervisione di Matteo Zanobini. Detto questo, sembrerebbe di trovarsi di fronte ad un supergruppo ma non è cosi perché Dimartino significa cantautorato italiano del tipo più classico. Quello che conta è, infatti, l’atteggiamento, il modo di proporsi e di creare. Uno spirito che inneggia alla tradizione della nostra musica ed ha spinto lo stesso songwriter ad abbandonare il nome Famelika, sua vecchia band, di cui hanno fatto parte anche i suoi due soci, per l’attuale, più intimo Dimartino appunto.  Il secondo lavoro della band siciliana si riallaccia perfettamente a quell’alternative pop che già avevamo ascoltato circa due anni fa in “Cara Maestra Abbiamo Perso”.  “Sarebbe Meglio Non Lasciarsi Mai Ma Abbandonarsi Ogni Tanto E’ Utile” ripresenta i classici principi della canzone italiana inondandoli di parole sagaci e glorificando il genere ben oltre semplici testi d’amore. Già nelle prime parole di “Non Siamo Gli Alberi”, appare chiara la voglia di colpire senza fare troppo male. “Io odio immensamente le ferrovie dello Stato perché è lì che ci diciamo addio quattro volte al mese” inizia il brano e continua citando anche le parole che poi danno titolo all’album. Si comincia a giocare con le sentenze velando l’ironia con le atmosfere malinconiche rese ancora più commoventi dalle note del piano. “Non Ho Più Voglia D’Imparare” si presenta più carica del brano d’apertura creando una sorta d’inno disilluso contro il materialismo e l’ignoranza che regnano come scià nel resto della penisola. “Mentre guardavano il divo sul manifesto del detersivo, pensavamo a Monicelli che vola dal balcone…”. Semplici parole, semplice musica. Ma bastano a spiaccicarvi in faccia un riso amaro che vi viene subito la voglia di andare sul balcone, accendere una sigaretta e pensare. “Venga Il Tuo Regno” altro brano reso grande dalle parole di Dimartino. “I Laureati aspettano di lavorare. I lavoratori aspettano di morire”, tutto accompagnato da un sound tutt’altro che scoraggiato e che ricalca parzialmente i Non Voglio Che Clara di “Un Nome Da Signora”, con una maggiore quantità di BPM. Tutte le parole s’incastonano a creare un puzzle perfetto. Niente è lasciato sfuggire per caso dalle note e il suono s’impreziosisce nel finale senza inutili iperboli. “Amore Sociale” si snoda attraverso una struttura classicheggiante che sembra scritta vent’anni fa, con una melodia di piano semplicemente perfetta, anche oltre la bellezza della musicalità vocale. In “Cartoline Da Amsterdam” abbiamo la prima vera sorpresa. Il pezzo inizia con le solite parole che cantano metafore accompagnate delicatamente da note soffuse, ma nel pezzo fa la sua apparizione Giovanni Gulino dei Marta Sui Tubi che urla come un pazzo e gira il pezzo come un souvenir di Amsterdam innevata e per un attimo ci sembra di essere entrati in un film di Tim Burton ma gonfio di colori chiassosi. Con “La Penultima Cena” i palermitani tornano sui binari più tradizionali mentre in “Maledetto Autunno” sembra lanciata la sfida ai migliori parolieri della scena Indie Pop italiana, Fabio De Min su tutti. “Io Non Parlo Mai” folkeggia e trasuda emozioni lontane, di mare, sole, solitudine, speranza e fantasia. Di giochi di bambini soli sulla spiaggia di una terra lontana, di limoni e sudore. Le parole di Dimartino sono sogno e realtà che si fondono senza mai sparire sotto il peso della musica che somiglia a una carezza anche quando è solo un rumore elettronico in sottofondo. Siamo quasi alla fine. “Piccoli Peccati” spinge sulle pelli e sulle note più che negli altri pezzi dando alla musica un nuovo ruolo da protagonista vero nell’album. È il momento sicuramente più Rock e sembra chiara la voglia dei tre di fare i conti col passato, con la musica che li ha visti crescere. “Poster Di Famiglia” è una sorta di tunnel nel quale possiamo viaggiare attraverso i due anni che dividono il Dimartino dell’esordio con quello attuale, con ritmi incalzanti (la batteria ricorda Le Coppie” de I Cani) ritornelli urlati senza rancore ma con tanta gioia di vivere, nonostante tutto. E poi l’ultima “Ormai Siamo Troppo Giovani”, il brano forse più stile Brunori, frasi cariche di geniale amarezza che sembra piazzato volontariamente (“sembra” non direi) alla fine come per stringerci l’anima e non lasciarci tornare alla vita e alle sue bugie. Dunque un’ottima conferma per il trio siciliano, ancora una volta ispirato e stravagante pur senza alienarsi mai dal cuore della poesia italica fatta di musica, dei grandi Dalla, Venditti o De Gregori.  Probabilmente il problema di Dimartino è lo stesso che accomuna gran parte del gruppo dei nuovi cantautori italiani che sembrano avere sempre lo sguardo rivolto indietro nel tempo, immersi totalmente in una nebbia di nostalgia mentre i grandi già citati del passato sapevano cogliere con più efficacia il presente e cantarlo con occhi speranzosi di chi ride al futuro. Ma in fondo, buone composizione e belle parole, sogno e realtà che si mescolano continuamente, amore cantato senza bugie, emozioni che battono i denti a ogni parola. Che vogliamo di più. Forse manca ancora la capacità di trovare melodie. Oppure no. Forse la voce di Antonio Di Martino non è bellissima come altre. Oppure no. Forse Antonio Di Martino non sarà grezzo come gli Zen Circus, non sarà un cabarettista come Dente, non è paraculo come Brunori Sas e non è semplice come I Cani o Lo Stato Sociale. Non sarà montato come Bugo e non parla a vanvera come Le Luci Della Centrale Elettrica ma qualche difetto che vi aiuterà ad amarlo lo avrà anche lui. Ci stanno sulle palle i perfettini. Avete quaranta minuti e cinquantasette secondi per scoprirlo. One, two, three, four….

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Efram – Il silenzio è d’argento

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Sono tornati in quei pochi metri quadri di quella saletta di Airasca, ora chiamata il Nanhouse Studio, dove sono venuti alla luce anni fa, e incidono il loro nuovo disco interamente strumentale, una forma musicale in bilico tra post-rock e rinascite a tempo determinato di wave consumate; loro sono gli Efram, formazione piemontese qui con il nuovo disco “Il silenzio è d’argento”, una dinamica che – fregandocene alla grande di tutti i calcoli, sigle, codici e DR qui o la – vogliamo valutare cosi, semplicemente ascoltando e registrando le emozioni che ci arrivano dai suoni o dai timbri e dando delle “impression” su quei numeri messi al posto dei titoli in tracklist e ai posteri poi l’ardua sentenza, se  posteri si incontreranno..

Un fluido elettrico e sensorialmente ondifrago prende tutti i quasi trenta minuti del giro disco e si è portati a concentrasi sull’attività strumentale in crescendo, che man mano lievita e penetra come un solstizio amaro e laconico in tutti i pori dell’immaginazione, in tutti gli anfratti dell’ascolto; tutto sommato difficile resistere al fascino muto di questa basicità interiore e solinga, da una parte vive un romanticismo liquido e amniotico, dall’altra, invece, esplosioni elettriche, disperazione e goduria di scosse porpora che abbagliano di cromatismi allucinati, una guerra tra forza e dolcezza che in sette melodie rarefatte fanno l’amore senza una pace decretata. Ovvio si sa da sempre che un disco “instrumental” può sempre correre il rischio sacrosanto di non essere consumato e tantomeno albergato nella memoria, ma questi Efram glissano il pericolo in maniera egregia, forse per la non pesantezza lirica o magari per il tocco strumentale che rimane sempre e comunque sospeso sopra la testa dell’ascolto, comunque tracce, emozioni  e pads tecnici che non deflettono da un’etica che rimane rigorosamente post-immaginationally.

A voi provare il volo che gli Efram vi propongono, a voi il piacere di decifrare tra i numeri della list quale siano gli stati sonori più idonei  per attraversare il loro mondo di “correnti elettriche” e radenti pronunciati; dall’1 al 7 è tutto uno sviluppo di armonico e vibrazioni che all’inizio danno un pizzico di apatia, poi una volta “fatte parlare in silenzio” le adotti come personali lezioni di volo.

Immaginariamente bello, realmente altrettanto.

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Seaside Postcards – Seaside Postcards

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I Seaside Postcards, cresciuti nella florida scena musicale pesarese, esordiscono con questo ep talmente pieno di citazioni dai mostri sacri del rock che sembra di poter attingere da un enciclopedia musicale (con particolare riferimento alla new wave post punk dei primi anni ottanta).
Bassi distorti alla Fugazi o alla Joy Division ma con sounds molto più moderni incastonati a chitarre oniriche e a cantati spaziali si alterneranno in cinque tracce di cui vi innamorerete al primo ascolto.
Strange days” non ha nulla a che fare con l’omonima hit dei The Doors, anche perché questi ultimi si sa non facevano grande utilizzo del basso elettrico, mentre questo brano sembra esser stato suonato da sua altezza Peter Hook in persona.

Il cantato parlato di “Ocean” fa pensare subito ai Sonic Youth anche se manca il rumorismo eccessivo della grande band newyorkese.
Tuttavia l’anima sonora dei Seaside Postcards sembra rifarsi più alla scena musicale della Manchester anni ’70 – ’80 anche perché il fantasma di Ian Curtis sembra aleggiare sempre su ogni nota suonata da loro.
Summo” nelle prime note sembra essere invece uscita dalla penna di Robert Smith ma dopo una breve pausa si velocizza trasportandovi su atmosfere che sanno più di Bauhaus o Joy Disaster.
Ruins” invece forse è stato più condizionato da un ascolto ripetuto di Franz Ferdinand e Blur anche se credetemi con il brip pop anni novanta / duemila ha poco a che vedere.

La particolarissima “Friederich” chiude con i suoi ritmi alla “Killing an arab” dei The Cure un piccolo capolavoro indie che secondo me troverà la sua maggiore forza nei concerti senza la necessità di avere alle spalle del gruppo una scenografia massiccia, basterebbero in mia modesta opinione poche proiezioni in bianco e nero minimaliste come la copertina.
Questo ep omonimo,  autoprodotto, registrato e mixato nell’estate 2011 presso lo Studio Waves di Paolo Rossi insomma, pur essendo la prima prova su disco di questa band è già pieno di idee brillanti, controtempi favolosi e riff graffianti che sapranno ammaliarvi nella loro semplicità e genuinità.
Li attendo con ansia alla seconda prova ma sono sicuro che sapranno confermare quanto di buono già ascoltato in questi cinque pezzi.

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Veronica Marchi – La Guarigione

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L’amore fa sicuramente schiudere il cerchio di questo bel pezzo di cielo formato disco della cantautrice veronese Veronica Marchi, disco che arriva sulla distanza di sette anni dall’esordio, quasi una rinascita, un rinascimento da quei percorsi lasciati a metà o mai presi per il guinzaglio della realtà; “La guarigione” è un disco per tutti quelli che hanno masticato e consumato nell’ombra della tenerezza certificata o nella cinica solarità  un qualcosa svuotato dall’attesa, mangiato da ore trascorse in solitudine, tra quelle nuvole che non fanno mai pioggia o su quella pioggia che non ha nuvole in frenata.

Registrato in presa diretta ed inciso su bobina e con la collaborazione artistica di Dario Caglioni (PFM, Carmen Consoli), il disco, sulle coordinate di nove tracce, da il senso di volo a radente tra storie ed intimità che danno il giusto peso alle parole, agli entusiasmi pacati, alle acustiche dell’anima ed ai piccoli simulacri dei ricordi che si fanno prendere sul serio, come una reazione specifica dello spirito umano; nove canzoni che quasi non si richiede di capire, ma di intuire dai suoni e dalle varie timbriche al pari di una poetica interiore che si fa canzone ogni volta si aziona la parte rimbombante del cuore, da quelle parti dove il battito si traveste da compressione, pensiero vero.

L’artista Marchi, insieme ai fidi musicisti Maddalena Fasoli e Andrea Faccioli, affida a queste tracce il suo io istintivo, la sua metrica di donna in una nuova avanscoperta del dintorno, tracce tenui ma disincantate, sofisticate e birichine, di rivincita come di ricostruzione, la movenza distratta di una Claudia Fofi che s’intravede in “Solo un incubo”, la soffice aria incantata e consapevole di Petramante che sfarfalla in “Passanti distratti”, “La guarigione”, il riflesso della coscienza femminile “Acqua”, il cono d’ombra da schiarire “La simbiosi ha il passo di un gatto” e il lento caracollare di una passeggiata in un qualcosa che si scioglie e si concretizza al centro di un raggio di sole divinamente “ozioso”, tutto per se stessi “La passeggiata”.

Veronica Marchi ed il suo “folk pop” profondo esprimono il pensiero di una Nina Berberova circa l’amore – e spesso i derivati – che comunque attraversa una porta girevole e che se la vita si risolva come una partita a tennis, affidando a un net le sorti di un incontro, un senso ci sarà.

Glicine fiorito.

 

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Bosio – L’abbrivio

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Mettersi in proprio, artisticamente e di sentimento, spesso giova, specialmente a chi magari si sente attanagliato da clichè e giacche strette, a chi “ lo scorrere leggero” è concetto inarrivabile se ancorato a parti secondarie e poco esposte; Pietro Bosio  – che con il fratello Enrico condivide passati con i Laghisecchi, Numero6 in qualità di bassista ed ora in simbiosi sotto il moniker  Bosio – finalmente mette in luce le sue canzoni, le sue espressioni personali in un disco di buona temperatura emotiva, “L’Abbrivio”, undici percorsi di originali climax indie-cantautorali, scanzonati e seriosi con un forte rimando alla verve Gaberiana Non so più bene da quando”, “No vatican no taleban”, “Modo e modo”, un tratto indiscutibile che fa la grammatura specifica di una tracklist perfettamente godibile e a suo modo  attraente.

Un notes sonoro che circoscrive attenzioni aggrappate alla disillusione, stanze che possono raccontare solitudini, ritratti d’intorno e di atmosfere che arrivano alla rinfusa e con incedere anarchico per tramutarsi in storie, racconti, dettagli come quegli omini di caolino che cambiano colore a seconda del tempo come volge, melodie che si accasano immediatamente nelle orecchie con fare stranito ma ispirate, storte il giusto ma dritte nella mira; un mondo obliquo quello di Bosio, ma semplice, diretto e di buon gusto e che ci fa scoprire in valore “naif” di un songwriting di carato, capace e fiero di prenderci per il cuore e portarci lontano senza nessuna resistenza.

Inesistenti i fugaci rivoli mielosi che si potrebbero incontrare in opere “fuori rotta”, tutto scivola via come una carica di saporite delizie casalinghe che conferiscono e sfoderano una simpatia unica, sospesa come un patchwork che scalda e protegge una contemporaneità che non si piega a tutor patinati, ma scorrazza libera e “intelligentemente” ingenua come in “Casa piccola (a F.B.)”, “Polvere 6” e “Verrà la pioggia”, dove il prosaicismo sghembo trova la via di mezzo, il passaggio – non obbligato – ma scelto,  per arrivare direttamente al cuore e delegare a lui, solo a lui, a prendere questo Abbrivio e innalzarlo a piccolo gioiello, uno di quei piccoli gioielli che finalmente sfuggono dalle mani e dalle regole dittatoriali dei loschi Komintern della discografia ufficiale.

Oltre che Pietro al basso, voce, chitarra e tastiere elettriche ed Enrico voce, chitarra e banjo, il  resto della ciurma: Tristan psichedelica e pianoforte, Mattia batteria e cori, Giorgios percussioni, Jacopo violoncello e Paola e Stefano ai cori.

Con Bosio, il cantautorato “altro” è in buone mani.         

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The Bankrobber – Rob The Wave

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E’ bello ogni tanto fermarsi con le proprie idee, mandare in vacanza la propria anima in pena e dedicarsi a corpo morto a piccole divagazioni rigeneranti, anche i lombardi The Bankrobber la pensano così e credetemi non sono mai stati in forma come adesso ascoltando questo “omaggio”, questo “sacrarium”, una traiettoria trasversale in quattro tracce che si chiama “Rob The Wave”, ma non sono quattro tracce qualunque, sono pezzi rivisitati di mostri sacri del rock che la band penetra nel profondo di una colpa della passione, di quella maledetta passione rock’n’roll che ti brucia e ti fa vivere per sempre giovane, ed è una – per niente innocua – bomba sonica innescata.

Tanti ci troveranno un pizzico di malinconia, altri una noiosa piega nostalgica, taluni – che poi saremmo noi del pensiero critico – siamo di tutt’altro avviso, se questo è un slim disco di cover deiette da un recupero tombale, vuol dire che un mega % (per cento) di ascoltatori non capisce più una mazza, le cover sono ben altro, qui il febbrile gioco dei The Bankrobber è impetuosamente high, un motore a pieni giri, ampliato, vincente e talmente personalizzato che potremmo paragonarlo ad una loro “versione d’inediti”, un mantenimento a caldo di una indicibile tensione immaginifica che fa provare brividi e ricordi rinfrescati a dovere.

Il disco, in digitale e stampato oltre che su cd anche nel fascinoso vinile, prende in prestito gli occhiali spessi ed intellettuali di CostelloAlison”, i bussi adrenalinici e frastagliati dei chiodi punk yes dei WireEx lion tamer”, si cala nelle ombre color torba dark degli Cure Lullaby” per finire nell’abbraccio emozionale per Andy Partridge (XTC) nella magnificenza di “Making plans for nigel”, quattro personalizzazioni stupefacenti, come uno sciogliersi finale di contorsioni e mescole dietro un riuscitissimo sogno di rimaneggiare materie vive, con le quali non ci si è solamente sporcato le mani, ma addirittura trasfigurando il pathos che irradiano come fossero divinità rumorose da ricontattare.

I The Bankrobber sono grandi e vanno ancora più in la, oltre la misura in cui – ascoltando queste tracce certificate – si accetta di stare al loro gioco.

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Les Lesbiennes – Les Lesbiennes

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Chi pensa che la Sardegna sia solo terra di mare non potrà che ricredersi ascoltando il primo album omonimo de “Les Lesbiennes”, gruppo isolano formato da M.M. (basso, chitarre e programmazione batteria) e A.B. (testi e voce).

Promettono bene!

Già dal primo ascolto si è catapultati in un mondo eterogeneo, quasi volto a catturare gran parte del panorama musicale degli ultimi tempi come di quelli passati, tant’è che nel lavoro di questi due ragazzi si possono avvertire influenze rock dei primi anni ’90 per arrivare al più puro new wave  degli anni ’70.

Un esempio lo si può avvertire in “Mercurio”, ottava traccia dell’album che ricorda quei giri di basso che fanno volare la mente alla decade ‘70/’80. Non è cosa di poco conto.

Proprio a conferma della eterogeneità del lavoro “Bianco e Nero”, traccia numero tre, fa volare la mente alla metà degli anni 2000, ricordando le ballate acustiche rock tutte italiane de “La Camera Migliore”.Ce n’è anche per chi è un instancabile del pogo da ‘sotto-palco’: “Vanity Fear” (traccia nove) è un pezzo che risveglia gli istinti più irrazionali che ognuno di sé porta dentro.

Insomma, Les Lesbiennes è un album che fa volare la mente e il corpo in un viaggio nel tempo che parte dalla metà degli anni ’70 per arrivare ai giorni nostri, confermando che in Sardegna non c’è solo il bel mare, c’è anche della buona, anzi buonissima, musica!

 

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Light Sound Diamond – Demo

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I demo racchiudono un curioso mondo, imperfetto per definizione. Coperto da quello strato low quality così affascinante e così puerile, da non aver troppe pretese quando se ne inserisce uno nello stereo.

Però diciamo la verità: quante volte avete ascoltato un demo di amici per pura pietà nei confronti della loro infinita passione? Quante volte non siete andati oltre la prima traccia o peggio ancora avete ascoltato 30 secondi di ogni brano? Giusto per non sentirvi troppo in colpa. Bene io l’ho fatto miriadi di volte, davanti ad imbarazzanti demo registrati con lo sciacquone del water in costante sottofondo, e ammetto che i presupposti per farlo di nuovo c’erano tutti.

Il cd dei Light Sound Diamond, oltre a chiamarsi molto semplicemente “Demo” si presenta con una cover da powerpoint e un artwork casalingo che odora ancora di colla e stampante Canon. La scelta dell’umile titolo però viene subito premiata, ci catapulta verso la musica vera senza tanti inutili fronzoli. Qui non troverete ricerche sonore o arrangiamenti da Brian Eno, ovvio che no! E quello che stupisce è proprio il loro suono, così spontaneo e poco ragionato. L’intenzione non è di creare un concept e nemmeno di filosofeggiare, ma molto più terrena e viscerale: sparare a mille un rock moderno, inaspettato, necessario (più per loro che per l’ascoltatore) e per giunta coraggioso (testi in italiano!).

Questo demo è un frutto così acerbo da avere ancora un gigantesco margine di miglioramento. E dunque tutti i pomeriggi di sole invece di baccagliare le sbarbine in centro, questi ragazzi si rinchiudono in casa (si è registrato in casa e fuori non c’è la grigia Pianura Padana ma Messina!) per sfoderare le loro taglienti note e i loro testi di frustrazione e di inconsapevolezza giovanile.

Light Sound Diamond sono una grandissima band, lo dimostrano con sapienti intrecci di chitarre, lunghe cavalcate strumentali tra Black Sabbath e Marlene Kuntz (“Due Novembre” e “Telaio celeste”) che suonano come adolescenziale protesta contro la tirannia del pop, come una sincera ma scoordinata occupazione al liceo.

Chissene frega se la chitarra distortissima dell’inno generazionale “Agite, godete e soffrite” non è quella scorticante di Jack White, se la sottile voce in “Macchie d’inchiostro” non è quella di Cristiano Godano o di Manuel Agnelli, se la nervosissima sezione ritmica pompa poca prepotenza dalle casse per colpa di un master inesistente. Queste macchie rendono il tessuto più reale e più omogeneo, riportano il sound alla sua più cruda dimensione: una pianta di frutti verdi chiusa nella piccola serra e trattata biologicamente. Il frutto maturo potrà diventare dolce, succoso, ruvido o amaro, difficile dirlo oggi. In ogni caso speriamo mantenga la freschezza e la naturalezza di questa gioventù, e che cresca senza il comune utilizzo di tutti quegli stupidi conservanti.

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Gianmarco Martelloni – Fiamme

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Vi è mai capitato di sbagliare clamorosamente e cedere Poggi e Volpi per un pacchetto di Frizzy Pazzy, o scambiare un vecchio vinile del Capitano Don Van Vliet per l’ultimo disco degli Offspring o giocare a calcetto e chiamare il fuorigioco neanche foste Franco Baresi, o giocando a tressette uscire di liscio con la venticinque cercando l’asso, o di vantarvi come grandi amanti della letteratura moderna sviolinando citazioni di Fabio Volo, o lamentarvi al cinema perché the Artist è in bianco e nero e nessuno ve lo aveva detto? O pensare di essere imbattibili a Pro Evolution e poi prendere quattro pappine da un cuginetto di tredici anni che ancora piscia nel letto? Ora non voglio dirvi, con presunzione, che questo disco sia un errore anche perché il giudizio, per quanto onesto, è sempre legato a chi lo emette, ma di certo è stato un errore far ascoltare questo lavoro a me. Un errore dovuto più al caso, effettivamente, che non all’uomo. Diciamolo francamente. Non basta dirsi cantautori per essere geniali musicisti di nicchia per forza bravi e talentuosi cosi come non basta fare rumore con una chitarra elettrica per essere Rock o scrivere quattro cazzate sul Web per sentirsi Chuck Eddy.

Gianmarco Martelloni, insegnante bresciano di letteratura italiana e latina, oltre che cantautore, si presenta a quattro anni di distanza dall’album d’esordio “La Superficie del Mare” dichiarando una svolta Rock in “Fiamme” che francamente deve essere stata accuratamente celata tra le dieci tracce affinché nessuno potesse accorgersene. Il disco è Pop e basta perché ogni apparente virata verso il Rock è la stessa che potresti trovare in un album di Raf o Biagio Antonacci. Considerando che Biagio ha a che fare col Rock tanto quanto mia nonna con la coltivazione del Papaver Somniferum, fate voi.

Il primo estratto dall’album è “Chiedici Scusa”, brano che alterna in maniera sistematica momenti energici (e parole a volte patetiche) ad altri calmi e quieti in uno stile già caro ai Negramaro (e che ritroveremo in tanti brani dell’album come una sorta di ancora). In “Ci Sono Fiamme”, Gianmarco Martelloni prova a ricalcare un alternative sound in stile Indie britannico ma il risultato non suona particolarmente convincente e anzi piuttosto forzato. “Tre Bandiere Bianche” e “I Giorni Della Scuola” volano verso il basso rasentando la tristezza imbarazzante. Suona invece fresca “L’Odore dei Fiori” che ha soprattutto il merito di distaccarsi da quella formuletta negramara di cui si parlava sopra e inoltre convince il cantato con fare ironico del bresciano in combutta con il violoncello di Elena Diana ad aggiungere profondità alla musica che nella parte conclusiva soprattutto, ricorda i bellunesi Non Voglio Che Clara, band di punta del panorama indie Pop italiano. L’unico brano che posso tranquillamente affermare che mi piaccia è “Il Vento”, con il suo intro alla maniera di Fanfarlo, anzi meglio, Arcade Fire, la sua sezione ritmica morbosamente e piacevolmente ripetitiva. Di sicuro, se dovessi consigliare da dove partire per una futura e reale svolta Rock (altrimenti impossibile) è proprio dal brano numero due del disco. Riagganciandomi parzialmente a quanto detto inizialmente, non è abbastanza ispirarsi, citare o cantare (come nel lavoro precedente) Piero Ciampi per potersi proclamare gli eredi. La strada è lunga, tortuosa e piena di difficoltà e innumerevoli saranno i passi falsi e i personaggi che si frapporranno tra voi e l’arrivo sperato. Molto più semplice è la via dell’effimero successo. Ogni artista può scegliere. Destra o sinistra? Detto questo, mi dispiace (mi dispiace veramente se un disco non mi piace) ma “Fiamme” suona troppo Raf, Antonacci, Negramaro, Vibrazioni, Renga per piacermi. Probabilmente avrà un buon riscontro radiofonico proprio perché utilizza sonorità Pop non troppo impegnative e di facilissimo ascolto (già Radio DeeJay si è interessata al suo primo lavoro). E tenete conto che, di solito, quando qualcosa non mi piace, finisce per vendere.

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Flebologic – Shipwreck

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Tanti dischi escono con la formula scritta “Missundaztood” in fronte, che poi sta per misunderstood, praticamente frainteso, non capito. Ed è lo spunto principale su cui si agitano i lombardi Flebologic dentro il loro progetto/debutto “Shipwreck”, Ep in cinque tracce ultra-suonato, un piccolo asso musicale pigliatutto di calibro ben confezionato anche fisicamente, tracce che si permettono di giocare con infiniti cromatismi sonori ma appunto, tanto per cercare il neo assoluto o il classico pelo nell’uovo, troppi sono questi cromatismi e per il momento nessuna dritta personale o stile proprio, un perfetto calco di posizioni che potrebbero essere esercizi – ottimi –  ma esercizi stilistici come in un saggio od un riscaldamento momentaneo prima di “fare sul serio”.

Ma peli e nei a parte, il tappeto elettronico ed i cuori pulsanti che evidenziano la scaletta non hanno certo niente da invidiare a nessuno, se volevano stupire con poco, i Flebologic ci sono riusciti senza colpo ferire ed il mondo a parte della band ha una presenza forte e tangibile nel sound globale, sound a metà tra delicatezze wave-robotiche della titletrack e le ancheggianti  ombre soul- lisergiche della Bristol di TrickyCrawlin’worm”, la radiofonicità tra le nuvole di “Mi(s)” ed il caldo sogno carribean che cuoce leggermente “Angel dub”; un Ep al quale piano piano ci si fa confidenza distaccata poi – alla fine – te lo divori in quattro e quattr’otto, mandando nei e peli a fare in culo mentre  ti aggrappi forte al vento drogato che spira nella stupenda “Old big boat” e benedici il giorno che hai incontrato questi Flebologic ed il loro incantato distacco da tutto, le eteree sfumature ocra e grigio topo che redimono il giudizio iniziale circa il loro atteggiamento primario.

Salutiamo questo esordio come una bella sorpresa inaspettata sottolineando che, questa matassa sonora e sensoriale chiamata Shipwreck anticipa già il fenomeno di sé stessa, tracce che testimoniano anche quanto ci sia di lussuoso sound dietro un packaging di compensato e stilosi foglietti scarabocchiati d’arte naif.

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Sabba & Gli Incensurabili – Nessuno si senta offeso

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Finalmente un qualcosa che ci tiene fuori per un tot di minuti dagli orrori della TV, dalla politica ipocrita e – meno male – dalla musica senza idee, e l’occasione di questo qualcosa ce la forniscono i campani Sabba & Gli Incensurabili, musicisti pazzoidi che incrociano Elio e le storie tese e l’have fun attitude su storielle amaramente buffe alla Smash Mouth, un teatrino musicale di musica e cabaret che si espande su territori di sensi, controsensi, giochi di parole, piacionerie e verità tra i denti, tutte stipate come un lotto di San Marzani in “ Nessuno si senta offeso”, disco dalla tracklist dinoccolata, storta e piacevolissima su vizi e  – poche –  virtù di personaggi spalmati su sfighe e particolarietà.

Dentro atmosfere blues, rock , pop, il colpaccio di Sabba e C. si perpetra in men che si dica, tutto procede con eccitazione e verve, un concentrato di istrionismo e rimandi che sdogana il chiuso dei soliti clichè per presentarsi con un carico di canzoni ed intenti che in fine risultano pregni di sostanza e bellezza capovolta, anche perché solo così un certo tipo di “musica visionaria” può essere veramente lievitante, e qui di companatico immaginario c’è n’è da vendere; per raccontare tutti i “gossip” di questo registrato bisognerebbe uscire con un allegato, ci limitiamo a trascrivere l’emozioni e le caratteristiche comunicative che Salvatore Lampitelli – questo il vero nome di Sabba – sciorina come un crooner scoppiettante che sa dare allegria a tasche piene a chi l’ascolta, specie se si fanno due conti in tasca a “Eva” quando la condizione di cornuto è tutto sommato un trofeo, quando la sfiga di un lontano Baggio contro un Del Piero  brucia ancora “Un’opinione stabile”, più in la l’esigenza di far prendere aria – fuori dai jeans – allo strumento da fiato per antonomasia “Il mio kazoo”, il ritmo rock- jazzato per la richiesta di una marchetta all’Assessore  comunale da parte di un panettiere “Benedetta pazienza” o la cover allucinata di “Via con me” di Paolo Conte, tutto fa parte di questo spettacolo che i nostri campani ci regalano come una promessa di continuità.

Storie dentro, fuori, ai confini urbani della realtà, Sabba & Gli Incensurabili sono immaginifici, arrivano, incantano e partono come un treno all’alba strapieno di suoni, risate e umori che danno anche quel senso di gloriosa nostalgia prog anni settanta che dietro i voli di flauto traverso “Che casino là fuori” ancora ci garantiscono, fino all’ultimo minuto, la saggezza dell’ironia.

 

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Pois Noir – EP

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L’italiano è una lingua che si modella difficilmente su una canzone, specie quando l’attenzione al testo è tale per cui è complesso sostituire una parola con un’altra senza che si perda l’esatta sfumatura di senso che si voleva dare.
Nell’alternative rock italiano, poi, si ha spesso la sensazione che sia già stato detto tutto, tanto nelle liriche, quanto nelle sonorità.
I Pois Noir, quattro ragazzi di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, sembrano patire un po’ proprio questa situazione. Fare alternative in Italia, ultimamente, è sinonimo universalmente accettato di impegno socio-politico e di riflessione generazionale. È la nostra Italia, ci sta, ma è anche vero che quando ci sono gruppi come i Ministri, Le luci della centrale elettrica e il Teatro degli Orrori, è veramente difficile sperare di poter dire qualcosa di nuovo, di almeno altrettanto incisivo e con la stessa profondità e competenza tecnica.
Lungi da me suggerire di rivoluzionare i testi accecandosi di fronte ai fatti quotidiani della nostra penisola o fingendo di non essere membri di una generazione tendenzialmente precaria e oscillante tra rabbia e frustrazione: dico solo che è molto difficile dare un contributivo significativo senza rischiare di essere un’altra voce persa nel coro degli indignati.
C’è grande attenzione ai testi nelle canzoni dei Pois Noir, probabilmente scritti addirittura prima della musica, visto che non sempre gli accenti quadrano perfettamente con l’andamento musicale (una cosa che personalmente trovo fastidiosissima) e si sente la ricerca di un sound personale, che si discosti un pochino dalle sonorità del rock nostrano, con l’aggiunga di tastiere spesso con funzione più rumoristica che melodica e il ricorso a ritmi in levare, ma manca qualcosa.

In un brano come Il banchetto dei nuovi dei, ad esempio, manca un po’ di personalità vocale, visto che, per quanto la capacità tecnica emerga con forza, timbro e linee scelte ricalcano troppo quelle di Davide Autelitano dei Ministri e di Samuel Romano dei Subsonica.
Thumbs up invece, per la costruzione di Tempo: ritmo veloce e incalzante, tastiere che arpeggiano ipnotiche, un bel ritornello molto orecchiabile e strofe arrabbiate (l’unica pecca, proprio a voler fare i pignoli, è che le parole un po’ si perdono a causa della velocità).
Facilmente l’occidente è proprio l’esempio di come si possano dire cose anche di un certo spessore, anche espresse bene, con attenzione e con passione, ma non a sufficienza, finendo per essere banali e ridondanti: il ritornello non aggancia abbastanza l’attenzione dell’ascoltatore, la traccia passa e non lascia nulla. Peccato.
Più personale è Svanisce (l’anima), con dei bei cambi di tempo e di registro vocale, dall’arioso e melodico (con tanto di cori a rinforzare l’armonia), all’amareggiato, urlato, sforzato.

Molto più tirata, cattiva, veramente indignata, ma anche meditativa è Agorafobia, un tempo staccato piuttosto veloce, riff di chitarre di poche note ma efficaci, una chiusura netta ma armonicamente sospesa, che dà l’idea di un ritorno, ciclico, di questa situazione soffocante, come se, sconfitti, ci rassegnassimo al nostro destino.
L’impressione complessiva è che i Pois Noir sappiano giostrare meglio le canzoni veloci, chitarrose e furibonde. Ho la convinzione che questi ragazzi siano veramente bravi e che abbiano davvero qualcosa da dire, ma che debbano ancora trovare una strada più personale per riuscire ad affiorare sul mercato indipendente.

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