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The Doggs – Red Session

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Immaginate la cosa più sporca e meschina che avete in testa. Quella che vi vergognereste anche al solo pensiero. Chiudete gli occhi e vi sale un brivido caldo: furente come il peccato più insulso. Immaginate New York e il suo più infame “wild side”. E poi lo smog di Detroit, che in fondo non sarà tanto più terso e denso di quello di Milano.
Con queste infami e decadenti immagini infilate nel vostro lettore “Red Session” dei The Doggs e ditemi che non vi strapperà un ghigno storto.
La band milanese, al suo primo LP, sfodera un album al dir poco old school. Chitarre garage (che più che un genere qui è uno stile di vita) che ricordano il furore del compianto Ron Asheton, ritmiche lente e sensuali, tra l’oscuro incalzare dei Back Sabbath e le luci rosse delle vetrine di Amsterdam. Per bruciare infine tutti i vostri sensi di colpa c’è una voce al limite della saturazione, che pare registrata durante un agonizzante elettroshock e come un lurido verme esce dal suolo per darti una scossa elettrica nel culo.

Il riff di “Midnight Eyes” apre le infernali danze, si rispolvera la lametta dal 1973. The Stooges di “Raw Power” tornano taglienti. Le ritmiche sono lente, ossessive, oscure, il punk è ben lontano ma sta a guardare con la malizia di chi è pronto a prendersi il merito senza tribolare tanto. Niente fronzoli, solo tanto groove e tanto blues da marciapiede.
Il disco pare essere un vero e proprio tributo alla Motorcity americana e alle sue band sporche di smog e sudore. E sappiamo benissimo che suonare questa musica 40 anni dopo e nel “paese che sembra una scarpa” potrebbe essere un azzardo, per non dire anacronistico. Ma The Doggs ringhiano e sembrano proprio sbattersene di tutto ciò che ronza intorno, ignorano critiche e ritornelli da classifica e suonano semplicemente il fottutissimo rock’n’roll che gli martella in testa come la più pulsante ossessione. E non ci sono compromessi: i ragazzi non strizzano mai l’occhio al pop, anzi lo guardano in cagnesco e gli abbaiano dietro anche in brani come “Wild Boy” o “Ride My Bomb”, dove molti altri luridi randagi si sarebbero tirati a lucido e ci avrebbero firmato dignitosi armistizi.

Questi non sono di certo “I Cani” elettro-cool, freschi di stagione. Ma nonostante questo non serve nessuna macchina del tempo, in questo revival la lametta è arrugginita ma sporca di sangue freschissimo.

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Dola J. Chaplin – To The Tremendous Road

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Cosa succede quando il folk rock americano alla Bob Dylan incontra la musica cantautoriale britannica alla Badly Drawn Boy?
La risposta (se davvero la volete) la potete cercare nel disco di esordio di Dola J. Chaplin, “To The Tremendous Road”, che già dalla opener “Go wild” scandisce le qualità di un lavoro davvero egregio nella registrazione, nell’esecuzione e negli arrangiamenti.

Pubblicato per la VOLUME! Records e distribuito per Goodfellas questo disco si appresta ad essere una delle gemme più preziose del rock mondiale.
Non a caso il regista e sceneggiatore Enrico Bernard ha scelto questo artista per firmare la colonna sonora del suo ultimo lavoro cinematografico dal titolo “The Last Capitalist” tratto dalla sua commedia “Holy Money” con Martin Kushner, Ava Mihaljevic e Andre Vanmarteen.
Nei versi “I don’t care about money, money don’t care about me” della canzone “What I Care” c’è descritta tutta la sua umiltà di uomo che gli conferisce di diritto il titolo di “nuovo poeta contemporaneo”.
Nella title track c’è anche spazio per un riuscitissimo duetto con la cantante Emma Tricca (inglese ma di origini italiane).

Non lasciatevi sfuggire quindi questo piccolo capolavoro!
“To The Tremendous Road” è un disco che vi rilasserà, le sue dolci e a volte malinconiche note e armonie vi coinvolgeranno talmente tanto da trasportarvi in luoghi che prima d’ora la vostra mente non era riuscita neanche a immaginare.
E così sentendo la sua “Railway” vi sembrerà di essere davvero all’interno del locale alla periferia di Londra presso cui Dola J. Chaplin si è anche esibito.
Per cui accaparratevi una copia di “To The Tremendous Road”, attualmente in distribuzione in tutti i negozi di dischi e negli stores digitali.
E non siate troppo tristi quando il cd si concluderà con la versione reprise di “What I Care”…
In fondo basta riascoltarlo tutto dall’inizio per tornare ad esser felici!

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Tuesday’s Bad Weater – Electric Paranoise

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Con il loro secondo long playing i Tuesday’s Bad Weather, duo Tarantino composto da Pierpaolo Scuro (voce, chitarra e synth) e Alessio Messinese (cori, chitarra e synth), hanno segnato una spaccatura netta con il loro precedente lavoro ( “…Without thinking”).

Mentre il primo, uscito nell’Aprile 2011, andava a toccare la parte più sognante e riflessiva che ognuno di noi porta dentro talvolta toccandoci le corde di quell’intimità che riusciamo a fatica a far uscire; il loro secondo lavoro si presenta meno ‘candido’, più adirato e chiassoso.
Il susseguirsi di sonorità che vanno dal folk al blues con richiami di post-punk e alternative rock rendono tutto l’album una piacevole mescolanza di suoni e musica che al primo ascolto ci può quasi confondere e spaesare.

Siamo portati a chiederci, per esempio, cosa c’entri la prima traccia dell’album “Damn Song”, che mescola il punk-rock con elementi sperimentali e ci fa tornare alla mente agli anni ’80 con il boom del post-punk; con “Distant Places”, terza traccia del lavoro che evoca ambienti arabeggianti e ci trasporta in un ambiente rilassato e caldo quasi a volerci far addormentare coccolati dalla sua musica.
Oppure possiamo chiederci cosa accomuni una canzone come “Tesla”, canzone nella quale il protagonista indiscusso è il drum machine, ad una traccia come “There’s No One” che ricorda quel folk –rock degli anni ’70.

La risposta a questi dubbi circa il filo conduttore di questo lavoro dei Tuesday’s Bad Weather la possiamo riassumere in una parola: Sperimentazione!
Tutto l’album è una continua sperimentazione che il duo tarantino ha voluto mettere in atto quasi a cercare di superare quelle ‘barriere’ che la musica stessa a volte impone a chi la crea.
E, come diceva John Cage nella seconda metà degli anni ‘50, la parola ‘sperimentale’ “fornisce la comprensione di se stessa” e “l’azione sperimentale è il risultato di ciò che non è previsto”.
Electric Paranoise è proprio questo: “il risultato di ciò che non è previsto”.
Esclusivamente ascoltandolo ci si renderà conto che solo l’album potrà fornire “la comprensione di se stesso”.

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The Regal – The Regal

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Quanti dischi ci passano tra le mani, e quanti grossi i rischi che potrebbero far capitombolare il “sacrificio” di una band sconosciuta verso il burrone del fallimento o perlomeno bollati di chissà che cosa causa un ascolto distratto e facilone; tra le pieghe di questi nostri ascolti critici passa di tutto, basta tendere bene l’orecchio e prima o poi il “buono” cade nella trappola come quest’esordio omonimo tutto fiorentino, sono i The Regal e scrivono nove splendide canzoni condite da sonorità profonde e a tratti oscure, miscelano diversi stili tessendo brillanti equilibri sonori assolutamente e stranamente vintage per una band che si “appropinqua” al gran pubblico.

Si, effettivamente l’accavallamento d’idee è proposto in queste tracce con vincente continuità, mantenendo per tutto il loro raggio vitale e d’azione anche divagazioni e contrasti (mai grovigli) che si riscontrano nelle ballate nei campi di fieno profumato Younghiani The calling of  loneliness”, “A song for piano”, “Napoleon Hotel”, nel Nash visionario “The last Christmas” (scritta da Vanina Viviani), “I wanna go back to the start”, nel tremolo mex Dylaniano prima ed elettrico dopo “You shot your love”, “Rockin’ stage” sul Fogerty con la camicia a quadrettoni “She’s rock’n’roll” o nell’amorevole stretta di cuore di una chitarra acustica alla Jackson Browne che cadenza agrette da ogni poro “They got the light in their eyes”, un disco con il quale non bisogna essere muniti di tempo e coraggio per lasciarsi vincere dalla sua lenta e rilassante bellezza, o per abbandonarsi totalmente alla sua atmosfera di fine pomeriggio, lo si lascia con dolenza ambientare sotto il lettore ottico e la magia si rinnoverà quando e quanto si vorrà.

Qua e la “compaiono” i blitz chitarristici di Stefano Venturini (Ka Mate Ka Ora e Werner) mentre ad Andrea Badalamenti voce e chitarra, Alessio Consoli basso e Manuel Pio alla batteria, i The Regal al completo, spetta il compito di “spargere e diffondere” urgentemente la grande fiamma emozionale che sibila rabbiosa per uscire da questo spessore sonoro che già magnificamente ci ha risvegliato ricordi, presenti e nuove speranze sonore a venire.

La trappola anche questa volta ha funzionato alla grande!

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Formanta! – Everything Seems So Perfect From Far Away

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Dopo alcune cose fatte in passato (alla memoria anche di Rockambula) arriva il primo disco ufficiale per i Formanta! la lunghezza del titolo Everything Seems So Perfect From Far Away la dice lunga (e questo ingenuo gioco di parole nasce dal cuore) sul naturale spaziare del sound in questione, su tutte le sfaccettature artistiche toccate in maniera sobria e gentile. La musica non subisce mai imprecisioni, l’imbarazzo manca. Ebbene si, siamo contenti di non essere nati soltanto per subire.

Pensavo e ripensavo mentre ascoltavo, questa voce femminile prende sapori conosciuti al palato, poi Kate Bush mi appare come una figura celeste e per qualche momento è lei la voce mentore, poi si cambia direzione e rimango nuovamente spiazzato. Sarà colpa di quel basso deciso nell’esecuzione, di quelle chitarre che si dilungano in assoli rock sessantottini, di quell’ambiente decisamente e miticamente new wave. Non elettro new wave, solamente new wave. La new wave post punk degli Smiths dove a volte la band vuole arrivare, passando per fantasiosi paesaggi innevati dove un timido maggio fatica a portare primavera e colori. I Formanta! maturano con gli anni portandosi sulle spalle il peso dell’attuale scena musicale dove è difficile farsi spazio tra tonnellate di immondizia suonata e diffusa tramite internet, dove la bellezza della libertà mostra inesorabile il rovescio marcio della medaglia, perché tra artisti dell’ultimo momento e camerette studio è davvero difficile fare una selezione dignitosa. Preferisco parlare di loro e delle sensazioni legate a questo concept moralmente corretto e senza inganno, della reale certezza di avere nello stereo qualcosa di vero, di una batteria, un basso nudo e teso, una chitarra, della capacità di trasmettere emozioni parallele ad ogni personale stato d’animo. Sono pronto per accogliere Everything Seems So Perfect From Far Away dei Formanta!, ho capito di averne le capacità. Un inizio che promette veramente bene.

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Chester Gorilla – Solo Guai Ep

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A noi piacciono così, visionari e amplificati, assolutamente genuini nel loro grattar di voce che fa balance tra hard-blues, convulsioni rap, sofferenze di corde elettrificate e tesissime e scatarri punkyes, pruriti heavy e stati calorici inimmaginabili, si, ci piacciono cosi questi palermitani Chester Gorilla, qui al loro primo passo ufficiale “Solo guai Ep”, cinque tracce intrise di utopia e amore per un certo dosaggio psichedelico influenzato dai sixties, da qualche icona di quella decade, anche contrapposte – come  Eric Sardinas e Uriah Heep, e che comunque vanno in brodo di giuggiole a contatto con i woofer dell’impianto stereo.

Dopo una serie di rimaneggiamenti nella line-up, ora il quartetto siculo è al massimo della forza d’insieme, testimoniata, se non altro, da questa  tracklist ottimamente sporca, grezza e vissuta come si deve, un insieme di pezzi che bruciano sul sacro altare del rock contaminato e riverberato, una scheggia sonica che aggroviglia orecchi e sublima certi amarcord inconfessabili di vecchi rockers; una formazione che riesce a stabilire un buon convivere tra sounds storici e il vezzo underground, un certo romanticismo elettrico con una dolce violenza di pedaliere; e per fare il confronto basta apprendere da “Another day” la lascivia hard-blues alternata di primitivi T.Rex con bridges di cordami Zeppeliniani, lo shuffle Litfibaniano messo a pareggio con lo sviso alla Humble PieVoglio solo guai”, “Genio della lampada”, lo speed battagliero rap di “Che me ne fotte” traccia a confine immaginario col gioiello dell’intero lotto sonico, “Sometimes”, magnifica sospensione “ubriaca” e smaniosamente stonata che si struscia e finisce in una eiaculazione svisata, degna sensazione dei grandi olimpi Heavy-metal, delle insaziabili scaricate di energie, d’anime e diavoli.

Questa voce al comando dei CG, diabolico trasporto tra le vene gonfie di Manuel Agnelli e il Kelly Jones degli Stereophonics, si raccoglie, incanta e comincia a girare su sé stessa, cala l’oscurità e la dilatazione-riverbero si fa incontrollabile, mentre il resto della band si da da fare per ucciderci con un’overdose di droghe col jack.

Chester Gorilla are: Danilo Lombardo voice, Daniele Caviglia guitar, Filippo Caviglia bass and Gabriele D’Armetta drums.

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The Maniacs – Cattive madri

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Trentanoveminutiequarantacinquesecondi di rock sverginato a sangue, intimo, crepuscolare e nemico di quelle formule a gomma americana tutta euforia, incoscienza e licei da imbrattare a spray, a proporcelo sono i The Maniacs, trio lombardo che percuote l’anima irriverente e incazzata di una porzione generazionale che sa ciò che vuole e quello che può dare; “Cattive madri” è l’uscita discografica ufficiale, un muro di suono sincopato che si materializza nel circuito infuocato di una tracklist grassa di quattordici tracce, fulmini e saette introverse allo stile Verdenico o – magari più discostato – sulle diatribe soniche dei Ministri, una forte reprimenda distorta  ai cultori della canzonetta e dei ritmi mosci dell’indie concettuale.

Registrato in presa diretta in modo da conservarne al millesimo la forza primaria, il disco “entra” nell’udito come un sacramento laico da rispettare, un materico giro di distorsioni e poesia afflitta che agita stomaco e cervello, suoni compressi e dilatati che si mettono in gara per una manipolazione di sentimenti e rabbia decisamente guerriera; donne, femmine, l’altra metà del cielo come tappeto lirico, cori e imbastiti di chitarra elettrica si accavallano su sogni Deftonici e incubi ariosi alla Bellamy, atmosfere Corganiane e Anni 90 che si colorano e scolorano ripetutamente come al segno preciso di una centrifuga che inghiotte tutto e tutti senza vergogna, un “riflettuto incitato” che sprofonda in cima ad un’incredibile trionfo di estetica nera, oscura nelle viscere, maledettamente figa.

La loro rivelazione è arrivata al nostro esame nel momento in cui, ormai, non ci speravamo più, dal sole al crepuscolo e presi alla sprovvista tra intimismi domestici e cose di poco conto, mentre queste tracce si sono prese un posto di tutto riguardo tra il nostro orecchio ed il rock più blandamente tradizionalista che possa circolare intorno;  il cardiopalma sincopato  di lapilli “Scivola via”, “Il lungo addio”, il rullo di batteria che scalda atmosfere poco raccomandabili “Intermezzo # 1”, la serpe in seno che si completa dentro “Odio”, il fuori pista diagonale del suono storto e vagamente latin “Tu eri, io ero” o lo shuffle punkettaro che frusta “Mi sembra di impazzire”. Per galleggiare un po’ bisogna attendere il passaggio di “Aria”, traccia numero undici che consegna alla piccola storia underground nostrana  una band forte anche sul versante triste e fragile, stranamente dolceamara ma certificatamente sincera e ottimale.

Cattive Madri potrebbe essere inequivocabilmente il disco-off dell’anno, maturo e pronto a salpare su “mari sonici” molto più spanciati e spettacolari.

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Buried Dogs – Happy Melodies

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Ormai siamo a metà Maggio ma il freddo e queste continue piogge mi rimandano con la mente a Novembre inoltrato, periodo di funghi e castagne, di freddo e foglie secche e l’umore, per chi è come me meteoropatico, segue a ruota.
Devo correre ai ripari!
Devo iniziare a rendermi conto che tra poco inizierà il periodo delle tante feste della birra di paese, delle serate all’aria aperta, dei picnic in qualche prato dimenticato da Dio.

Iniziare a mettere pantaloncini corti e chiudere la giacca nell’armadio mi sembrano mosse un po’ azzardate; meglio puntare tutto sulla musica!
Per giungere al mio scopo ho bisogno di un album ritmato, allegro, che riesca a far spuntare il sole anche durante un acquazzone… Trovato: “Happy Melodies” dei Buried Dogs!
Il titolo già promette bene.

Infatti, dal primo ascolto sono catapultato in un Giugno fatto di viaggi in macchina con i finestrini abbassati verso la più classica delle serate estive: un falò sulla spiaggia. Sono salvo!
I miei ‘salvatori’, i Buried Dogs appunto, sono un gruppo nato dall’iniziativa di Mauro Buratti (Bassista de ilNucleo) a cui si aggiungono Daniele Prandi (Batteria), Alessandro Stocchi e Leonardo Canovi (Chitarre), il cui primo album esce a fine 2011 ed è destinato ad accompagnarmi per l’estate del 2012.
L’uscita di “Happy Melodies” è stata preceduta da due singoli che esprimono al meglio la portata dell’intero album: “I Like Elvis” e “D Time”, un misto tra Weezer, OK Go e Foo Fighters: chitarre veloci e melodie ultraorecchiabili.

C’è anche un po’ di anni sessanta in questo album: “Torpedo”, traccia numero nove del lavoro, ha il sapore delle prime cinquecento, dei vestiti bicolore e porta con se quella frizzantezza propria di quella decade, dove i ragazzi ballavano per il gusto di ballare e cantavano per il gusto di cantare, si sapevano divertire insomma.
Come sono certo si sappiano divertire questi quattro ragazzi.
Le loro “melodie felici” esprimono tutta quella forza e spensieratezza che caratterizzano noi, quei giovani dal futuro incerto che non vogliono farsi abbattere da un Maggio piovoso.

La mia estate è salva!

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Las karne murta – Dirty Swing

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L’estate è alle porte, per quanto questa primavera incerta continui a disilludere le nostre speranze di pomeriggi assolati, ombelichi scoperti e festival a suon di birra ghiacciata, sudore e buona musica.
Un contesto perfetto per la musica dei Las Karne Murta, band parmense decisamente rodata, visto che dagli esordi del 1999 a oggi vantano più di trecento esibizioni dal vivo, con spettacoli in Romania, Svizzera e Spagna. La formazione è dotata, quindi, di un’esperienza e di una maturità artistica che emergono magistralmente in questa quarta fatica discografica, Dirty Swing: 15 tracce che si susseguono una dopo l’altra piacevolmente, senza momenti down, senza rischiare di annoiare l’ascoltatore.
Le ispirazioni sono ricche e variegate, dallo swing al cool jazz, da Paolo Conte alla Bandabardò, soprattutto per la costruzione letteraria, dagli Apres la Classe alle Nuove Tribù Zulu e Roy Paci e Aretuska, soprattutto per le ritmiche e la presenza degli strumenti a fiato.
E c’è davvero di tutto in questo lavoro, sul piano delle influenze musicali e delle ispirazioni liriche, per altro confezionate su tre lingue diverse, francese, italiano e inglese a seconda dell’atmosfera da ricreare, su tematiche per lo più amorose, con descrizioni di vita quotidiana, delicate e realiste.

La lingua è elemento primariamente musicale che collabora alla resa melodica di ogni brano.

Forte e marcatissima l’influenza jazz, dello swing fumoso anni ’30, come il titolo lasciava supporre, soprattutto nella traccia di apertura, forse ironicamente chiamata Rock’n’roll, e in Dead Meat. Pas avec toi e Basso ventre, invece, si connotano più per i ritmi di bossa nova, col suo levare cadenzato e apparentemente irregolare e le percussioni legnose, mentre non manca il rock vero e proprio in About my Jane, con l’aggiunta di qualche sterzata funky in Collant.
E questa babele di suoni estivi, freschi e danzerecci, non sarebbe completa senza una matrice ska, come in Out of Control, Adesso non so, Tropical Club e El pero per coco, quattro tracce tutte da ballare o per lo meno dondolarsi sulla poltrona.
Gli arrangiamenti sono intricatissimi e perfettamente curati: doppie voci, fiati, un cantato che si muove con disinvoltura dalla pura resa melodica al parlato.
Se questi ragazzi suonano dal vivo con la competenza tecnica e l’energia che viene fuori dalla registrazione, come il loro curriculum farebbe comunque supporre, bisogna solo sperare che vengano a suonare vicino a casa e correre a sentirli.

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Hank – L’aria è tesa

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Il trio campano formato da Edoardo Frigenti chitarra e voce, Tommaso Siniscalchi basso e Mario Carillo alla batteria, per tutti nella musica Hank è in pista con “L’aria è tesa”, ed è una verità sacrosanta, tutto è teso ed elettrico in queste nove tracce che cavalcano senza sella le fisime interiori dei Verdena e i morsi sinceri del grunge visto dalla sponda Pearl Jam, coordinate sonore che miscelano chitarre furiose, fiatoni sostenuti, ritmi cocainomani che, anche se vanno a confezionare un contenuto lontanissimo dal far urlare qualsiasi novità, si attestano sufficienti per live-set tarantolati e worm-up calorosi.

Ma – c’è sempre un ma – gli Hank, con tutto il rispetto dovuto ad una band che comunque agita qualcosa, fanno parte di quella fittissima schiera di gruppi che hanno il formato espressivo del “siamo tutti uguali e senza speranze”, che arrivano trafelati da quei iperattivi ascolti multipli formativi – in questo caso i due gruppi sopracitati – e li ripropongono a sfinimento senza una minima personalizzazione, e di conseguenza quello che ne esce fuori è la stessa cosa di un air-guitar contest, un fedelissimo coveraggio tale e uguale all’originale che non ha senso né vita lunga; eppur la forza d’animo c’è, il pugno rock pure, la distruzione d’impeto altrettanta, e allora perchè sciupare tante energie ricalcando stereotipi che fanno solamente venire voglia di accantonare questo prodotto e di andare a ricercare gli eroi, gli unici dei ispiratori ?

Dicevamo nove tracce che sono la lezione imparata a memoria del compito del giorno, poche elaborazioni, molti watt  sporcati dai distorsori, testi in italiano che s’incazzano a dovere; a parte il pathos Soundgardeniano della ballata “Tutto sa di umido”, la destabilizzazione calma che ronza sotto “Canzone di febbraio”, il resto della compagine sonora è vissuta dai sussulti cinetici delle grandi pedaliere eccitate e degli ampli che – a parte il Pelù che balzella epilettico in un quadrangolare metal in “L’immagine perfetta” – guardano a quella Seattle Bergamasca come un souvenir d’import/export sonoro.

Grande forza collettiva, ma sprecata invano, speriamo in una crescita.

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Dimartino – Sarebbe Meglio Non Lasciarsi Mai Ma Abbandonarsi Ogni Tanto E’ Utile

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Non ha la carica degli Zen Circus, la simpatia di Dente, i testi evocativi di Brunori, né ti fa muovere il culo come I Cani, come lo Stato Sociale. Non cazzeggia con musica e parole come Bugo e non esagera con l’italiano come Le Luci Della Centrale Elettrica ma Dimartino ha la capacità di penetrarti l’anima con delicatezza, pazienza, come un milione di gocce d’acqua e dietro di sé lascia solo un dente di roccia come lacrime di malinconia appese a una speranza. Riesce a evocare le stesse atmosfere che si creavano a casa vostra, quando da bambini, vi capitava giocando a fare i grandi, di far partire un vecchio disco di papà, di tipi che si chiamavano Piero Ciampi, Luigi Tenco o Sergio Endrigo. Restavate lì ad ascoltare senza capire cosa avesse di speciale quella musica che vi sembrava cosi strana, noiosa, diversa da quella della radio o dei cartoni animati. Aveva qualcosa che v’incantava, ma non riuscivate a capire cosa.

Il palermitano Dimartino in realtà sotto quel nome racchiude un trio composto anche dà Giusto Correnti (batteria e percussioni) e Simona Norato (pianoforte, Wurlitzer, Rhodes, Hammond B3, chitarre acustiche, chitarre elettriche) oltre che diverse partecipazioni (Giovanni Gulino dei Marta Sui Tubi presta la sua voce in “Cartoline da Amsterdam” cosi come la più che compagna d’avventura di Brunori Sas Simona Marrazzo, Mirko Onofrio ai flauti, sax tenore e xilofono, Giovanni Azzinnari al violino, Stefano Amato al violoncello, Luigi Gallo col corno francese, Gianluca Bennardo al trombone, Paolo Costola alle chitarre di colore e per gli arrangiamenti di archi e fiati abbiamo Mirko Onofrio). Tutto questo sotto la produzione artistica di Dario Brunori e la supervisione di Matteo Zanobini. Detto questo, sembrerebbe di trovarsi di fronte ad un supergruppo ma non è cosi perché Dimartino significa cantautorato italiano del tipo più classico. Quello che conta è, infatti, l’atteggiamento, il modo di proporsi e di creare. Uno spirito che inneggia alla tradizione della nostra musica ed ha spinto lo stesso songwriter ad abbandonare il nome Famelika, sua vecchia band, di cui hanno fatto parte anche i suoi due soci, per l’attuale, più intimo Dimartino appunto.  Il secondo lavoro della band siciliana si riallaccia perfettamente a quell’alternative pop che già avevamo ascoltato circa due anni fa in “Cara Maestra Abbiamo Perso”.  “Sarebbe Meglio Non Lasciarsi Mai Ma Abbandonarsi Ogni Tanto E’ Utile” ripresenta i classici principi della canzone italiana inondandoli di parole sagaci e glorificando il genere ben oltre semplici testi d’amore. Già nelle prime parole di “Non Siamo Gli Alberi”, appare chiara la voglia di colpire senza fare troppo male. “Io odio immensamente le ferrovie dello Stato perché è lì che ci diciamo addio quattro volte al mese” inizia il brano e continua citando anche le parole che poi danno titolo all’album. Si comincia a giocare con le sentenze velando l’ironia con le atmosfere malinconiche rese ancora più commoventi dalle note del piano. “Non Ho Più Voglia D’Imparare” si presenta più carica del brano d’apertura creando una sorta d’inno disilluso contro il materialismo e l’ignoranza che regnano come scià nel resto della penisola. “Mentre guardavano il divo sul manifesto del detersivo, pensavamo a Monicelli che vola dal balcone…”. Semplici parole, semplice musica. Ma bastano a spiaccicarvi in faccia un riso amaro che vi viene subito la voglia di andare sul balcone, accendere una sigaretta e pensare. “Venga Il Tuo Regno” altro brano reso grande dalle parole di Dimartino. “I Laureati aspettano di lavorare. I lavoratori aspettano di morire”, tutto accompagnato da un sound tutt’altro che scoraggiato e che ricalca parzialmente i Non Voglio Che Clara di “Un Nome Da Signora”, con una maggiore quantità di BPM. Tutte le parole s’incastonano a creare un puzzle perfetto. Niente è lasciato sfuggire per caso dalle note e il suono s’impreziosisce nel finale senza inutili iperboli. “Amore Sociale” si snoda attraverso una struttura classicheggiante che sembra scritta vent’anni fa, con una melodia di piano semplicemente perfetta, anche oltre la bellezza della musicalità vocale. In “Cartoline Da Amsterdam” abbiamo la prima vera sorpresa. Il pezzo inizia con le solite parole che cantano metafore accompagnate delicatamente da note soffuse, ma nel pezzo fa la sua apparizione Giovanni Gulino dei Marta Sui Tubi che urla come un pazzo e gira il pezzo come un souvenir di Amsterdam innevata e per un attimo ci sembra di essere entrati in un film di Tim Burton ma gonfio di colori chiassosi. Con “La Penultima Cena” i palermitani tornano sui binari più tradizionali mentre in “Maledetto Autunno” sembra lanciata la sfida ai migliori parolieri della scena Indie Pop italiana, Fabio De Min su tutti. “Io Non Parlo Mai” folkeggia e trasuda emozioni lontane, di mare, sole, solitudine, speranza e fantasia. Di giochi di bambini soli sulla spiaggia di una terra lontana, di limoni e sudore. Le parole di Dimartino sono sogno e realtà che si fondono senza mai sparire sotto il peso della musica che somiglia a una carezza anche quando è solo un rumore elettronico in sottofondo. Siamo quasi alla fine. “Piccoli Peccati” spinge sulle pelli e sulle note più che negli altri pezzi dando alla musica un nuovo ruolo da protagonista vero nell’album. È il momento sicuramente più Rock e sembra chiara la voglia dei tre di fare i conti col passato, con la musica che li ha visti crescere. “Poster Di Famiglia” è una sorta di tunnel nel quale possiamo viaggiare attraverso i due anni che dividono il Dimartino dell’esordio con quello attuale, con ritmi incalzanti (la batteria ricorda Le Coppie” de I Cani) ritornelli urlati senza rancore ma con tanta gioia di vivere, nonostante tutto. E poi l’ultima “Ormai Siamo Troppo Giovani”, il brano forse più stile Brunori, frasi cariche di geniale amarezza che sembra piazzato volontariamente (“sembra” non direi) alla fine come per stringerci l’anima e non lasciarci tornare alla vita e alle sue bugie. Dunque un’ottima conferma per il trio siciliano, ancora una volta ispirato e stravagante pur senza alienarsi mai dal cuore della poesia italica fatta di musica, dei grandi Dalla, Venditti o De Gregori.  Probabilmente il problema di Dimartino è lo stesso che accomuna gran parte del gruppo dei nuovi cantautori italiani che sembrano avere sempre lo sguardo rivolto indietro nel tempo, immersi totalmente in una nebbia di nostalgia mentre i grandi già citati del passato sapevano cogliere con più efficacia il presente e cantarlo con occhi speranzosi di chi ride al futuro. Ma in fondo, buone composizione e belle parole, sogno e realtà che si mescolano continuamente, amore cantato senza bugie, emozioni che battono i denti a ogni parola. Che vogliamo di più. Forse manca ancora la capacità di trovare melodie. Oppure no. Forse la voce di Antonio Di Martino non è bellissima come altre. Oppure no. Forse Antonio Di Martino non sarà grezzo come gli Zen Circus, non sarà un cabarettista come Dente, non è paraculo come Brunori Sas e non è semplice come I Cani o Lo Stato Sociale. Non sarà montato come Bugo e non parla a vanvera come Le Luci Della Centrale Elettrica ma qualche difetto che vi aiuterà ad amarlo lo avrà anche lui. Ci stanno sulle palle i perfettini. Avete quaranta minuti e cinquantasette secondi per scoprirlo. One, two, three, four….

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Efram – Il silenzio è d’argento

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Sono tornati in quei pochi metri quadri di quella saletta di Airasca, ora chiamata il Nanhouse Studio, dove sono venuti alla luce anni fa, e incidono il loro nuovo disco interamente strumentale, una forma musicale in bilico tra post-rock e rinascite a tempo determinato di wave consumate; loro sono gli Efram, formazione piemontese qui con il nuovo disco “Il silenzio è d’argento”, una dinamica che – fregandocene alla grande di tutti i calcoli, sigle, codici e DR qui o la – vogliamo valutare cosi, semplicemente ascoltando e registrando le emozioni che ci arrivano dai suoni o dai timbri e dando delle “impression” su quei numeri messi al posto dei titoli in tracklist e ai posteri poi l’ardua sentenza, se  posteri si incontreranno..

Un fluido elettrico e sensorialmente ondifrago prende tutti i quasi trenta minuti del giro disco e si è portati a concentrasi sull’attività strumentale in crescendo, che man mano lievita e penetra come un solstizio amaro e laconico in tutti i pori dell’immaginazione, in tutti gli anfratti dell’ascolto; tutto sommato difficile resistere al fascino muto di questa basicità interiore e solinga, da una parte vive un romanticismo liquido e amniotico, dall’altra, invece, esplosioni elettriche, disperazione e goduria di scosse porpora che abbagliano di cromatismi allucinati, una guerra tra forza e dolcezza che in sette melodie rarefatte fanno l’amore senza una pace decretata. Ovvio si sa da sempre che un disco “instrumental” può sempre correre il rischio sacrosanto di non essere consumato e tantomeno albergato nella memoria, ma questi Efram glissano il pericolo in maniera egregia, forse per la non pesantezza lirica o magari per il tocco strumentale che rimane sempre e comunque sospeso sopra la testa dell’ascolto, comunque tracce, emozioni  e pads tecnici che non deflettono da un’etica che rimane rigorosamente post-immaginationally.

A voi provare il volo che gli Efram vi propongono, a voi il piacere di decifrare tra i numeri della list quale siano gli stati sonori più idonei  per attraversare il loro mondo di “correnti elettriche” e radenti pronunciati; dall’1 al 7 è tutto uno sviluppo di armonico e vibrazioni che all’inizio danno un pizzico di apatia, poi una volta “fatte parlare in silenzio” le adotti come personali lezioni di volo.

Immaginariamente bello, realmente altrettanto.

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