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Zibba – Come il suono dei passi sulla neve

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Probabilmente quando Zibba ha presentato al Teatro Gassman di Borgio (Sv) il mese scorso avrà esordito con un “benvenuti alla premiere” proprio come nei versi di “Sei metri sotto la città”.
Dopo la breve introduzione “Martino Rebowski” (che altro non è che un breve recitato di Enzo Paci), il disco si apre con “Nancy”, singolo a tratti reggae e a tratti malinconico a cui Roy Paci regala un vestito da cerimonia.
L’omonima traccia invece è molto tranquilla e fu scritta nella stanza di un albergo di Albenga alle cinque del mattino di un inizio dicembre tormentato ispirandosi ad una bellissima frase di Michele Serra.
“Asti est” è un omaggio alla musica di Stevie Wonder, ma ricorda da vicino anche il nostro Vinicio Capossela, mentre “Prima di partire” è una hit electro inframezzata da un violino in cui le voci di Zibba e Carlot-ta si alternano.
E che dire di “Aria di levante”? Basterebbe dirvi che è stata scritta su commissione del Club Tenco per il doppio album de “la leva” per sapere già tutto.
In realtà è proprio in questo brano che Zibba dà il meglio di sé, perché la vena cantautoriale si fonde con spaccati di saxmolto raffinati ed intensi.
“La musica lo sa” è un brevissimo interludio che fa da spartiacque al disco e se fosse incluso in un vinile presenterebbe il lato b di questo lavoro.
“Almeno il tempo” inizia con una chitarra che ricorda i blues dei primi anni ’20 (Robert Johnson in primis) ma si evolve pian piano con una sezione ritmica e un sax che impartiscono il tempo.
“Essere il mare” è un altro breve recitato ad opera di Adolfo Margiotta che introduce “O Mæ Mâ”, cantata parzialmente in dialetto ligure in duetto con Vittorio De Scalzi dei New Trolls.
“Anche di lunedì” è stata scritta da Zibba mentre era in viaggio per Chieti ed è stata anche premiata con il Premio Bindi 2011.
“Dove i sognatori son librai” è una canzone che fa veramente sognare con i violoncelli curati da Giovanni Ricciardi e liriche molto intense.
“Poesia d’amore” è un altro breve interludio narrato dalla voce di Silvia Giulia Mendola che introduce “Salva”, ballad che nei suoi cinque minuti di durata rende omaggio al grande cantautore ed attore americano Tom Waits.
Conclude il disco la voce di Adolfo Margiotta, con una breve poesia che porta il titolo del disco, interamente registrato in un forno per mattoni a Moie (An).
Sedici tracce a testimonianza della maturità artistica raggiunta da Zibba qui con la sua rinnovata band di sei elementi.

Un album consigliato a tutte le generazioni, davvero molto delicato, insomma… proprio “come il suono dei passi sulla neve”.

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Sister In The Closet – Omnia Mutantur (EP)

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Un dovuto atto di coerenza e onestà intellettuale. Non una bocciatura ma un incoraggiamento.

Probabilmente era poco meno di un mese fa quando ho infornato per la prima volta questo Ep dei Sister In The Closet. Non fu propriamente un colpo di fulmine e quindi decisi di passare oltre, in attesa, magari, di un giorno migliore. Capita a tutti, credo, quando si ascolta a scatola chiusa, di incappare in periodi particolari nei quali un certo stato d’animo t’impedisce di apprezzare talune sonorità. È per questo che ieri ho scelto di rimettere le orecchie in Omnia Mutantur. E, cazzo, devo dirvi che non è cambiato niente. Come diavolo è possibile? Sono io il problema, anche se sono diverso da quel giorno? È forse questa casa e la sua pessima acustica o forse lo stereo e la posizione delle casse? È quello che ho mangiato a pranzo o l’aria putrida di questo paesino di morti, pazzi, alcolisti, falliti e bravi ragazzi? Forse è “l’emergenza caldo” (cit. Studio Aperto) che mi frigge le sinapsi? Ho deciso. Prendo il disco, mi faccio sessanta chilometri e cambio casa e città, stereo e aria. Cerco la situazione ideale per capire. Una bottiglia d’acqua gelata, un bottiglione di Galasso, due pacchi di Pall Mall lunghe come il cielo d’estate e ventiquattro latte di Spokenbeer (from Todis) in frigo. Cellulare spento e Omnia Mutantur in loop per tre ore. Questo è tutto quello che ho da dire.

Il primo pugno in faccia l’ho ricevuto dalla qualità audio, assolutamente non degna. Non voglio fare della cosa una colpa eccessiva per la band. Io stesso ricordo le difficoltà di registrare nei miei primi anni da bassista senza una lira (sì, c’era ancora la vecchia), senza grandi mezzi, con in sostanza nessuno a credere davvero in te, con registrazioni in presa diretta fatte con stereo a cassetta ante era Cd Rom. Capisco cosa significa e quindi cerco di dare, quando possibile, meno importanza alla cosa di quella che dovrebbe avere.

In linea con la qualità audio mediocre, anche la copertina dell’Ep dei bellunesi avrebbe meritato maggiore cura. So che quello che conta è la musica, oltre tutto, ma fino a quando i dischi non avranno tutte identiche copertine monocromatiche numerate in serie (un mio cruccio!?), l’immagine stampata sarà comunque uno dei primi biglietti da visita. Andiamo oltre l’estetica visiva. Passiamo alla musica di Eugenio Tonus, Carlo Bolzan, Martino Fregona e Adriano Losso. Alternative Rock in lingua italiana, con voce registrata a tratti troppo alta e imperante sulla strumentazione tanto da richiamare i più classici cliché del Pop-Punk da Mtv tipo Finley (non conosco molto questi gruppacci da adolescenti in calore quindi ho fatto il primo nome che mi è venuto in mente). L’Ep si apre proprio con “Omnia Mutantur”.  L’intro è assolutamente promettente, con le note che echeggiano impalpabili ed eteree dietro la voce narrante. Poi parte la parte vera del pezzo con le martellate della batteria che purtroppo non riescono in maniera credibile a fare da legante tra primo e secondo tratto.  Il brano si presenta traboccante d’idrofobia soffocata nelle parti urlate tendenti al Crossover, con diversi cambi di ritmo che fanno oscillare il sound dal Pop più melodico all’Alternative più veemente.

“Odissea” parte invece con un convincente intro di chitarra (anche se nella prima parte mi sembra di ascoltare una piccola sbavatura) che anticipa, con l’aiuto dei sempre puntuali coretti, musica dal vago sapore di musicassetta Flower Punk, con i disegnini fatti a mano. La melodia non è però abbastanza accattivante e gli attacchi nelle diverse variazioni che si susseguono, suonano forzati e poco efficaci.

In “Acido Lattico” è la volta del basso a fare da apripista per il brano più interessante del quintetto. Nella sua semplicità, con una maggiore carica e un mixaggio più accurato, sarebbe stato assolutamente un ottimo pezzo. “Fantasma” propone un giro di basso, una melodia vocale e assoli di chitarra particolarmente interessanti salvo però perdersi in un’inutile pesantezza nella seconda parte. L’Ep si chiude con “Il Bersaglio”, altro pezzo ricco di potenzialità cosi come di punti deboli. A tratti richiama alla mente i primi Verdena ma il suono non è mai abbastanza robusto. Troppi margini vuoti nello spazio contenitivo del brano ne minano l’equilibrio. Per riempire al meglio un’area con poche cose, quelle cose devono essere grandi e speculari. È questo che non accade.

Il mio tempo è finito. Il vino, la birra e le sigarette no. Il giudizio è cambiato, almeno un po’. Bisogna migliorare non solo la qualità di registrazione e sotto l’aspetto estetico. I Sister In The Closet devono suonare, suonare, farsi il deretano e suonare tanto e basta. Poche parole. L’unico modo per riuscire al meglio nella parte esecutiva, negli stacchi (a volte indigesti) e soprattutto per dare fluidità e corposità al loro suono (ed evitare che gli strumenti vaghino ognuno per la sua strada per poi ritrovarsi, nei momenti di assolo, in pericolosi e bui vicoli ciechi), è suonare e farsi il culo. E magari osare, tentare vie originali, alla ricerca dell’unicità (per ora ci riesce in parte solo la voce che, per quanto non oggettivamente eccelsa, presenta un timbro bugattiano accattivante). Poi se avanza del tempo, si potrebbero curare con meno vaghezza i testi, giacché sono in italiano.

La carica c’è, le melodie sì e no, ma di potenzialità ce n’è tanta da venderne alla domenica.

Omnia Mutantur, nihil interit. Tutto muta, nulla perisce. Mai parole furono più azzeccate. Speriamo che i Sister In The Closet cambino qualcosa al loro sound prima di perire nell’anonimato.

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Beeside – Mood Spirals

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Federico Pazzona in arte Beeside mette dentro la sua musica l’inconfondibile timbro degli elementi impalpabili dell’ossigeno, dell’elio, e di tutto quello che fa galleggiare tra abbandoni e virate, accenti folk come fatti di pasta di vetro, solo da ascoltare e mai toccare, come se si rischiasse il “pouf” che disintegra le bolle di sapone; “Mood Spirals” è l’uscita al grande ascolto di questo artista sassarese, metà cantautore, metà aviatore di grandi spazi onirici, adagiato ad un certo nu-folk di terra d’Albione e fuori dai giri viziosi dello stesso.

Tutto è eseguito con classe sopraffina, tratteggi ancient, sguardi Donovaniani e interrogativi alla Drake, delicatessen armoniche che svolazzano alternativamente divertite e pensierose sopra accordi di chitarra acustica, sopra territori intimi e meccanismi confessori; dodici tracce che hanno un umore istintivo cangiante, variegato di giornate tra autunno ed inverno come sottolineate dagli archi di “Keep your mouth shut” o dagli intrecci di corde che sovvengono lontani ricordi di Zeppelin bucolici “Take a breath and swim”, poi se andiamo a captare fino in fondo l’essenza della scrittura minimalista di questo ottimo cantautore si avvertono le influenze fascinose del Drake sopracitato, di quella solitudine agrette che trema come una foglia di sera “Migraine”, la titletrack, “Connection”, solitudine che fa raggomitolare l’ascolto come se si fosse davanti ad un camino acceso mentre fuori piove fitto, mentre fuori i pensieri prendono a correre senza meta.

Straordinario debutto per questa penna sarda che non solo ci comunica il suo stato interiore voltato ai suoni dolci e melanconici di un amazing revue , ma anche un insieme di trasfigurazioni intuitive che lo portano a brillare in un disco dove caracollare con gli occhi lucidi ed il magone in gola “Sunken cheeks” fa parte di un mondo, il suo mondo, capace di sganciarsi libero da qualsiasi vincolo.

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Tom Williams & the Boat – Teenage blood

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Sono in sei, provengono dal nebbioso Kent inglese e suonano una buona Americana come differenza catalizzatrice, Americana dall’altra parte della polvere delle Harley Davidson e dalle parti dei Grant Lee Phillips e ancor più vicini alle atmosfere dilanianti dei Counting Crows; sono i Tom Williamson & the Boat e non sono neofiti in cerca di spazi eclatanti, sono sulla scena da dieci anni e sul gobbone portano ben cinque ep ed una uscita ufficiale, ma è con questo Teenage Blood che vogliono affermarsi in qualche parte dell’ascolto generale, anche perché – come dice il leader Williams – il tempo scorre è la pensione è da guadagnare alla svelta.

Dodici brani di schitarrate vigorose, quel grasso sonoro che inchioda l’orecchio ad un anti-folk colorato fatto di ballatone e sospensioni radiofoniche lontane dagli assordamenti gratuiti e vicine alla piacevolezza di provincia dove non succede mai nulla: certo l’originalità qui non diventa tendenza, è musica con il perfetto aspetto della passione per lo stile che maneggia e basta, ma che riesce a tirarsi fuori per la semplicità e l’aggiunta di quella “stagionatura” poetica che un lontano Tom Petty ed i suoi violini impassibili hanno disegnato come via principale per raggiungere la piena espressività loner.

C’è molto di Duritz  tra le vocali e le inflessioni grammaticali, un misto di ingenuità ed intuizione esibita col senso della misura, un ottimo crossing che parte dalla cavalcata della titletrack per sorvolare il lato oscuro di un attimo intimo vissuto male e con un Cash come divinità superiore “Trouble with the truth”, riparte dalle parti della Omaha dei Counting Crows “Neckbrace (Big Wave),Misery”, per atterrare nelle arie libere e terse che “Pulling lines”, bel stop & go di chitarra, rilascia come una coscienza ripulita da brutti pensieri.

Questo sarebbe il loro il sesto ed ufficiale work in studio e con grande sorpresa vale molto di più della notazione statistica, lo dimostra quel sentore visionario e confidenziale che vi si struscia all’orecchio e che vi fa sentire vivi verso voi stessi “Like you”.

Cercatelo, ne vale la pena.

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Atterraggio Alieno – Il disgelo

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Qualche abitante del globo pare essere un simpatico omino verde con gli occhi curiosi. Dall’alto della sua presuntuosa nave spaziale ogni mattina mette piede sulla nostra crosta terreste “per la prima volta” e si lascia andare ad emozioni primordiali che forse noi da schifosi abitudinari non riusciamo più a raggiungere. E allora si limita semplicemente a “vedere” e “dire” (“Ho visto cose”) molto prima di “osservare” e “parlare”. Senza attivare meccanismi matematici e cervellotici che ci portano così vicini ai boriosi e faziosi talk show televisivi sulla crisi economica o alle chiacchiere da bar che elogiano lo strapotere della superficie.

Questo cantante e il suo disco sono una vera e propria battaglia a mani nude alla banalità, una toccata e fuga nel profondo, un trapano che buca e toglie subito la punta. Si chiama Francesco Falorni ma si fa chiamare Atterraggio Alieno, aggiungerei: mai nome d’arte è stato più azzeccato. Il suo nuovo disco è “Il disgelo”, aggiungerei: mai un processo di riscaldamento è stato più lento. Si perché il dobro del ragazzo fiorentino suona freddo, la sua voce pare lontana. La sua musica è un piccolo accendino in un deserto di ghiaccio e il suo disgelo è eterno, un continuo crescendo, di grado in grado. Non c’è nessuna fretta dopotutto “c’è un fuoco che aspetta” ci dice “Al sole di giugno”, ma che ci farà aprire gli occhi oltre che toglierci un po’ di brina.
Certo a valutare la cornice ci aspettavamo più esuberanza, più foga, un bel sole ignorante di Agosto, che però manca già dalle prime note strappate con meticolosa irrazionalità. E allora che cos’è che ci sta scaldando? Cosa ci porta ad abbassare la guardia e far entrare questo simpatico capellone straniero nei nostri più intimi pensieri? La facilità nell’agire in modo così ingenuo ma spietato, parole feroci e divertenti da clown sobrio e pacato, un viaggiatore poco interessato ai nostri futili discorsi da mettersi a disegnare il panorama nudo e crudo fuori dal finestrino. Un atterraggio di fortuna, poco razionale ma impeccabile ed efficace, così morbido per il passeggero in questione ma così pesante per la terra su cui si appoggia.

Le parole di Francesco sono un macigno, vento caldo e costante sulla nostra schiena che dona un po’ di tepore e rilassa quando camminiamo in questa distesa invernale. Tra non-sense e frecciate di pura lucidità, senza mai far troppo sforzo cerebrale.

La poesia minimale di “Saremo ricchi amore” apre “Il disgelo” e dona da subito una timida speranza a tutti i precari, sottile ma più corale di un inno generazionale. “Nero petrolio” sfodera un dobro danzante che pare mettere in testa dei Perturbazione un bel cappello di paglia per farli suonare gonfi di whisky nelle immense strade di campagna americane. Poi la disarmante melodia di “Cervello Lo-Fi”, giusto per farci capire come stare in equilibrio, per far risuonare la frequenza dei battiti cardiaci e delle scariche neuronali. Pianoforte, violino e una timida chitarra acustica stracciano a pezzi il dolore, prendendolo a morsi nell’episodio più intenso del disco: “I tuo male tra i denti”, violenza, rabbia, dolcezza ed eleganza in 4 minuti. Potere della musica pop.

Il disco è immensamente arrangiato, semplicissimo, ma mai scontato, proprio come le fantastiche ritmiche ballerine che ogni tanto appaiono come fantasmi di vitalità, giusto a fomentare un pelo la fiamma e a combattere i desolanti paesaggi di “Alaska” e “Vorkuta”. Non sia mai che il ghiaccio guadagni un po’ di terreno.
A fine ascolto abbiamo capito: il calore non è l’estate a Riccione, non è la discoteca all’aperto in Costa Brava, non è l’aridità del deserto, nemmeno l’umidità delle risaie padane o il bikini in California. E’ piuttosto una profumata tisana sorseggiata seduti su un prato innevato a guardare le stelle. E disegnare con la mente; sensazioni e colori, anche lontani.
Certo, sono strani questi alieni. E’ proprio vero che lontano dal sole bastano pochi raggi e pochi gradi centigradi per sentire un brivido di calore.

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Dealma – 13 Toads OF Positivity

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Solo i più fortunati di noi riusciranno a fare delle proprie passioni un lavoro con il quale arrivare a fine mese.
Se poi, accanto alla fortuna ci mettiamo la bravura, il gioco è davvero fatto!
Loro bravi lo sono, eccome!

Sto parlando dei Dealma, quattro ragazzi sardi (Giuseppe, Andrea, Claudio e Manuel) con la passione per la buona musica e l’abilità di rendere questa passione un lavoro riuscito ottimamente!
Il loro primo album, 13 Toads OF Positivity, è un lavoro ben fatto che combina un’infinità di diversi generi musicali che catturano subito l’attenzione di chi l’ascolta.
Conta dieci brani, tutti perfettamente registrati ed eseguiti, marcando in maniera netta la bravura tecnica di questi ragazzi (basta dare un occhio a tutti i contest a cui hanno partecipato, vincendo).
La loro musica ricorda, in alcuni brani come ad esempio Just In Time, traccia numero uno, la musica dei The Rapture con la dance punk che li caratterizza; ma non solo..
addirittura il pezzo successivo, Contact, ci catapulta nel pieno degli anni Ottanta , durante la quale il corpo non può fare a meno di ondeggiare al suo ritmo.

Avanzando nell’ascolto del disco ci troviamo in ambienti indie rock d’oltremanica, negli ambienti del grunge statunitense più puro, in quelli dello stoner rock californiano, tutti comunque caratterizzati dalla forte incisività della voce di Giuseppe che diventa quasi un ulteriore strumento musicale, sembrando il filo conduttore dei brani stessi.
Questa mescolanza di generi tutti condensati in dieci tracce di un unico album, risulta tutt’altro che fuorviante e confusionario; anzi, fa emergere il grande e ben riuscito sforzo da parte della band di non voler sottostare ai classici stereotipi che caratterizzano un genere musicale piuttosto che un altro.
Mi auguro davvero che i Dealma facciano la strada che si meritano di fare, perché di bravura ne hanno.

Spero che possano rientrare ne “i più fortunati di noi” di cui dicevo prima.

Perché se lo meriterebbero.

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Black Capricorn – S/T

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Se qualcuno si salverà da questo ipnotico delirio non sarà certamente più lo stesso, welcome to the hell, benvenuti nel mondo oscuro, laido e sciamanicamente brutale dei sardi Black Capricorn, formazione mefistofelica che con le loro otto tracce che compongono l’omonimo lavoro, avanzano come una invasione aliena imperterrita a  risucchiare tutto e tutti, una macchina subdola che si lega a doom, stoner psichedelico e anni settanta ottenebrati da metedrina e simbologie sconsacrate, un album che degli inni oscuri su altari devastati ne fa panacea per i suoi rituali sonici, di sabbath e compressed loud.

Non è facile accontentare tutti gli aficionados del genere, specie in un settore sonico come il doom metal che è affollatissimo come una tangenziale all’ora di punta, ma il quintetto in questione si stacca dall’ondata continua per quella stranissima ossessione litanica che si espande e si ritira come un mantice sulfureo,  atmosfere dilatate tra Black Sabbath e Kyuss, Gream Reaper e Blitzkrieg che rappresentano meglio la forza, l’impatto di testa che questo caprone nero comunque lascia impronte e ferite prima, durante e dopo il suo passaggio sotto il lettore ottico.

Un disco dal passo rettile, lento, trascinato come una maledizione desertica dai riflessi black, un martellare lento e metodico di pelli e basso infinito, riff di chitarre pesanti e una voce che arriva come un eco dalle viscere intestinali del Balzebù di turno, queste le eccellenze che incedono nella tracklist, più che un ottimo biglietto da visita per una band luciferina al cubo che dal buio, cerca un posto al sole per poter finalmente vomitare contro tutti la sua magnetica rabbia e presentare i suoi demoni incompresi; otto masse laviche che con il riverbero mugghioso della Bestia per eccellenza “Perpetual eclipse”, la paranoia che cavalca l’onda nera degli amplificatori roventi “Il tamburo del demonio”, i pipistrelli Ousbourneiani che intrecciano voli maniacali in “10000 tons of Lava”, le abrasioni gotich-doom “The Maelmhaedhoc O’Morgair prophecy” e lo stupendo finale, meglio dire il cameo nero, di “Liquid universe”, ci fanno stimare un resoconto critico buono, dove non ci stancheremo di sottolineare una band che dal colore nero tira fuori una inestimabile classe di tonalità e distruzione come pochi.

Fatevi un giretto dentro questo disco, e buona permanenza nel vostro incubo migliore!

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Lamalora – S/T

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Fenoglio ed il post-rock gassoso, le langhe e le sovrapposizioni dirompenti dei Lamalora, band del cuneese che del silenzio rumoroso e delle sue emanazioni stilistiche alimentate da una certa psichedelica come carburante ne fa gioco forte del suo istinto musicale, della sua espressione fagocitante, come un buco nero che assorbe, istiga e mette in mostra un mondo capovolto dalla consistenza della fuliggine.

Non solo giri post-rock ma anche soprassalti progressive che vanno a gestire una dinamica totale che non stanca l’ascolto, otto tracce in sequenza infettate da quella volontà di sperimentare, smaniare e da fare confluire in una dimensione rigogliosa di suoni, atmosfere e logiche intrecciate, ma con il comune denominatore di non rimanere – per quello che è possibile – derivative dagli imprescindibili “giretti d’attingimento” che molti usano e abusano; il lavoro dei piemontesi è calibrato, ben definito dentro un’estetica fluttuante che disegna certi ologrammi immaginari di Zawinul o Curved Air, quei pads sensoriali che avanzano per sottoporre l’ascolto al rito dell’ipnosi “Le grandi M”, nelle liquidità placentari “Masticare con lentezza” o magari nei landscape organici di una latinità embrionale “Cosa ti ha ridotto a un colabrodo”, tutto gira come una macchina rifinita tra essenzialità e dispersioni programmate, un disegno e scrittura che si ritagliano una propria identità precisa che va ben oltre i suoni di nicchia, avvicinandosi verso quegli ambiti artistici molto più abitati dagli ascolti.

Bassi compressi, chitarre slogate, pelli tremule che coronano una predilezione di gruppo per l’arte ora dissonante, ora rettilinea dai mille cromatismi e dalle altrettante indulgenze verso quel “cosmique” settantiano che dalla Germania degli acidi neri o micro punte arrivava a lambire i deliri di un oriente a portata di mano “Il fiume Yassin (Fine della fiera)”; i quattro magnifici quattro dei Lamalora e Fenoglio come formulario di base per questo stupendo trip, compaiono meravigliosamente illogici e spaventosamente intellettivi dentro un piccolo capolavoro quasi quasi da collezionare. Ghost  track compresa!

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Nagaila – Viaggio di Ritorno

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Non può essere vero ma esiste anche il post pop in versione lunare, una sorta di musica fantasiosa per viaggi interstellari. Nagaila Calori per l’arte Nagaila scrive e suona cose che vanno al di fuori delle nostre conoscenze terrestri, una voce soffice e penetrante come rugiada nelle mattine di primavera. Il suo ultimo disco Viaggio di Ritorno che uscirà in Settembre conferma ampiamente e senza paura i tre precedenti lavori dove le produzioni artistiche erano state affidate a gente importante come quella di Francesco Renga e Maurizio Zappatini in Silenzi Miei del 1996. Ma quelle sono altre storie e altre galassie alle quali possiamo soltanto gettare un nostalgico ricordo e niente più. Adoro il presente, ho paura del futuro.  Nagalia è un artista che non solo canta con una voce sopra le righe, soprattutto vive di musica a pieno regime prestando le sue capacità nei più disparati comparti della musica italiana, corista di Baglioni e tromba dei Verdena nel 2004, come dire amo il mainstream quanto l’indipendente. E con questo si esalta la consapevolezza di fare musica bella ovunque sia possibile farlo senza discriminazione di ambiente, per piacere a tutti quelli che hanno voglia di apprezzare il talento della cantautrice bergamasca.

Viaggio di Ritorno rilassa i miei sensi buttando acqua sulle dolorose imperfezioni della vita, pochissimi strumenti a corda (e questo la dice lunga sulla complessità realizzativa) e registrazione in presa diretta per non perdere neanche un frammento dell’emozione del momento. Una Bjork tutta italiana che canta canzoni in italiano alzando il livello delle produzioni nostrane riuscendo a dare un tocco di internazionalità ad una lingua difficile da esportare e da armonizzare. Si sperimenta e pure parecchio in pezzi come Microbo e Palla di Vetro, difficili da cogliere subito ma da tenere stretti una volta assorbiti, poi le svariate venature colorate del pop in Mal D’Africa rendono questo disco completo. Nagaila sussurra note come fossero luccicanti polveri di stelle, il mio viaggio è appena iniziato e vorrei non finisse mai.

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Spettri – Spettri

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Santi numi che discone ha ripescato la Black Widow Records, la formidabile label che vanta di un roster a dir poco eccezionale. Come dicevamo l’ ottima etichetta ha tirato fuori dal sacco uno dei dischi di una delle band nostrane che hanno fatto la storia del Prog e dell’ Hard Rock tricolore. Trattasi degli Spettri, quella grandiosa band fiorentina formatasi nel 1964 e che riuscì a sfornare solo un magistrale omonimo realizzato tra il 1970 ed il 1971 ma registrato solamente nel 1972 e che appunto è stato ripreso nel 2011 dalla Black Widow Records. Parlando del disco notiamo come sono rimasti quei suoni grezzi e primordiali di quegli anni: tra un acido e tetro blues ed un nervoso sound psichedelico emerge quel che è il nocciolo artistico di “Spettri”. Questo lavoro dei fratelli Ponticiello è proprio un viaggio mentale che comincia con uno “Stare Solo” e finisce con un coinvolgente“Incubo” passando prima dalle fantastiche “Medium” ed “Essere” . Insomma questo omonimo si fa ascoltare tutto ad un solo fiato, gli amanti del genere soprattutto, non possono farsi scappare questa piccola perla tirata fuori dall’ oscuro oblio, farlo equivarrebbe a commettere un sacrilegio. La mia speranza che si tramanda effettivamente in un augurio, è di rivedere nuovamente all’ opera questi giganti del Prog Rock italiano.

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Ancient Sky – T.R.I.P.S.

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L’Interstellar Overdrive degli Ancient Sky, dalla Big Apple atterra direttamente sui nostri piatti stereo, non per rapirci e analizzarci dopo sopra un tavolo autoptico, ma per “rapirci” i sensi e il cervello in un evoluto sound psichedelico che uno non si aspetta se non riferito chiaramente a quello dei lontani Sessanta, ma qui siamo nel Terzo Millennio e da quanto pare il motore lisergico che questo “T.R.I.P.S.” – uscito da noi per Sons Of Vesta –  ancora tiene in caldo – e che caldo – sembra proprio arrivare integro da lì, loro ci aggiungono quello speziato e crudo mix di post-rock, Heavy psych e stoner rifilato per ingigantirlo, ed il risultato non è affatto male, roba da “eroi svalvolati”, ma non male davvero.

Più che una band circoscritta un combo composto da membri differenti che sulla ribalta underground NewYorkese intrecciano, organizzano, sperimentano nuove fasi di suoni aggregati, miscelano le alchimie “drogate” di multi sonorità e le trasferiscono su tracce, tracce che sono delle autentiche bombe THCizzate, grandi esplosoini sensoriali che ammantano e fanno rizzare il pelo e la goduria conseguenziale; un progetto in cui confluiscono membri di Ghastly, City Sleep, Darkest Hour e Verse En Coma, tutti musicisti che della fusion ne fanno il loro lato artistico pronunciante e che – ovviamente ci sono anche importanti ispirazioni fruttifere che arrivano da band come, tra le tante, Earth, Dead Meadows – tra ossessioni, stati vegetativi e ipnosi di massa, riescono ad arrivare fin dentro i ricettori della psiche, e questo credetemi, non è poco.

Nella loro Brooklyn, gli Ancient Sky, sono considerati eroi alieni mentre da noi sono praticamente sconosciuti, ma la loro aurea che si equilibria tra grandi voli e cosmi elettrificati sta catturando tutti, un background percussivo da orgasmo, un galleggiare tra liquidi e micro particelle lunari con in mezzo il rock che esplode e frantuma ogni resistenza, brani come l’amniotico gassoso che increspa “Towards the light”, lo stupendo  riflesso Floydiano che vive in “Snow in the cemetery”, i fuochi accesi di Grateful Dead nell’ipnotica ballata dedicata a Ray BradburyRay Bradbury” e la metafisica slabbrata che viene magnificamente vomitata nelle pastorali spaziali di “The wind”, arrivano sulla bocca dello stereo e ti uccidono di bellezza dentro, ti fanno maledire quel giorno che nella tua infanzia remota volevi rispondere alla consueta domanda: cosa vuoi fare da grande?, e tu avresti voluti dire, a tutta voce, l’astronauta, ma non ti veniva mai in mente.

Disco con i contro-apparati produttivi!

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Inland Sea – The Passion

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Il Brit pop e una dura gavetta hanno molto in comune per questa band Milanese negli anni a ritroso della loro formazione musicale; ma infatti si sente, nulla tradisce una perfezione maniacale da tanto di cappello che scorre dentro la lista sonora messa a conquistare l’interesse per “The Passion”, il bel disco degli Inland Sea, il disco che arriva per piacevolizzare questa estate rovente e poco balneare e per farci conoscere una formazione che descrive la musica con una dolcezza pop di ballate, malinconie e hook canaglieschi “The gift” su tutti con un affresco potente di canzoni che fanno innamorare immediatamente e trattare questo lavoro con la confidenza intera di una amicizia inaspettata.

Belle chitarre piene di vento, una voce “inglese” incontestabile ed un insieme liberatorio di alternativo retrò che verso gli anni Novanta del bel sound d’Albione ci si butta a corpo morto e gli riconosce quel primato rivoluzionario di aver cambiato la storia con poco, solamente aggiungendo grazie e gentilezza in un contesto che usciva dagli Anni Ottanta con le ossa rotte e i capelli scompigliati ed intricati da troppo gel; The Passion e le sue nove tracce escono da quei sentieri poppyes per inoltrarsi – con naturalezza – in quelle sensazioni insaziabili che mescolano oculatamente gli interrogativi trascinanti di Thom Yorke, pixel di McCartney e la poetica pindarica di un Chris Martin dei Coldplay, una felice combine dove c’entri dentro e ti lasci incantare come sopra una giostra di “bello” fintanto ti gira la testa  e che comunque vuoi ricominciare da capo il giro.

Tracce dicevamo che non intralciano – anzi – arricchiscono l’ascolto contemporaneo di certa musica, tastiere, archi, chitarre, fiati e quella “ottima flemma” British che anche se sembra retrò, involuta, è invece un inno alla poesia, poesia che guarda in avanti e non si fa intimorire dagli urli e gli schiamazzi amplificati che molti fanno passare per “nuove tendenze”, il loro compito è farci assaggiare la grazia elettrica ed allora ecco che pezzi come la Beatlesiana “Hushing the whisper”, quella deriva sugli U2 di “The crossing”, il soliloquio intimo che si sottolinea in “Weak”, magari il capolino che gli Stereophonics fanno in “Soul weather” o i Radiohead tra gli archi di “Blind”, diventano inni personali per un intendere riflessivo e pacato di una musica, di un disco che restando stilisticamente fermo a quasi vent’anni fa, si fa notare e piacere come un disco di “ultima generazione” da tenere stretto al petto per sognarci sopra.

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