Recensioni

Dee Lei – S/T

Written by Recensioni

E’ prodotto da Paolo Benvegnù, che partecipa anche in alcune partiture (e ne imprime il soffio vitale), l’esordio dei Dee Lei (ex Malaparte), band  di Prato che comincia da questo album senza titolo il proprio cammino discografico, e a ragion sentita il risultato non è male, un disco che poggia la sua forza sulle pieghe di un rock melodico, rivolto all’indentro, come a cercare il segno di una bella pacca sulla spalla da parte di  intimità, accenti e sguardi che negli oscuri taschini della vita spesso non si percepiscono, ma ci sono se si guarda bene fino in fondo, e quel fondo i Dee Lei lo stanno già riempiendo con pochi giri di stereo e  con un suono dolce, sofferto e liberatorio che dà loro ampiamente ragione.

L’introspezione, il calmo dolore, sono posti centro della scena, dove la musica è ascoltata dal suo interno, mentre si riproduce in un macramè di sensazioni delineate da un pathos caldo che sublima il contesto, il suo dintorno, in un crescente e costante emozionale; dieci pezzi mutevoli che hanno “materia” e soluzioni per farsi piacere in un battito di ciglia, tracce senza la minima divagazione che possa portare l’ascolto in derive o intoppi stilistici che di solito si sommano o perlomeno fanno tara alla fine del giro, nulla di tutto questo, un disco che è un ottimo rimedio per caricarsi di bella poesia amara dopo una giornata così cosi, di quelle senza capo né coda, magari con un amore da ricostruire nella sua interezza figurativa.

Una tracklist con pagine dense di emozioni e distanze intimiste da ricamare col senso della melodia, silenzi, respiri, rumore che i Dee Lei ricercano accuratamente come sintesi di ricordi e speranze da tramutare in canzoni, e questa ricerca confluisce in questo lavoro, dentro il magnetismo di un cerchio di plastica che riproduce suono, nella nebbiose e stupende ballate MolthenianeSogno di volare”, “E’ finita l’estate”, l’evanescenza mantrica e solitaria di “Mare blu”, le gentili distonie elettriche che impregnano “Nuvole dentro” o il calice amaro che disseta il pads de “Il testimone”, traccia a cerniera lampo che chiude il flusso incoraggiante di un disco e di una nuova band che da frescura  e aggira il pericolo dei  “confezionamenti ex novo” non con mera musica e poesia ad effetto, ma con vera poesia incastonata in brividi sonanti.

Della serie il buon giorno si vede e “sente” dal mattino.

Read More

Preti Pedofili | Faust

Written by Recensioni

I Preti Pedofili non conoscono proprio limiti ed hanno coraggio da vendere, vanno sopra ogni riga, senza peli sulla lingua e senza nessun timore si scagliano tra noi con la voglia di affermare le proprie idee. Il nome della band è la prova più evidente e il contesto che condannano è di quelli che potrebbero portarti grandi rogne, soprattutto poi se canti in italiano come fanno loro e se vivi in Italia. “Faust”, uscito a Luglio, è il loro secondo EP autoprodotto e la band propone uno Stoner Rock dalle sfumature tetre e grottesche, insomma una miscela interessante in cui il grintoso trio è riuscito a dare un pizzico di personalità anche nei testi. Il cantato di Andrea tra un growl ed uno screaming assume tonalità sinistre che ti coinvolgono in tutto e per tutto e la simmetria che c’è tra basso e chitarra è un qualcosa di eccezionale, mentre la batteria ritmica e precisa crea una base degna di nota. “Faust” è un dischetto che si lascia ascoltare con gran piacere, con le casse a palla proverete una goduria che in pochi riescono a trasmettere, almeno questa è l’ impressione del sottoscritto. Se questi sono i presupposti dei Preti Pedofili non possiamo che aspettarci un grande disco d’ esordio. Spero vivamente che riescano a trovare una buona etichetta che li riesca a portare lontani, perché sono band come queste che riescono a creare vera Arte, intesa come quella senza compromessi.

Read More

The Three Blind Mice – Early Morning Scum

Written by Recensioni

Che cosa vi aspettereste da una band che si presenta con una copertina cosi elegante (una donna che bacia, nutre o è imboccata da un corvo) patinata di rosso quasi nello stile The Smiths con un certo senso d’inquietudine in più, ma nello stesso tempo si manifesta con una foto all’interno tutto sommato abbastanza coatta, con i membri vestiti come Piero Pelù e compagni appena usciti da una quadriglia western? E cosa vi aspettereste da una band che pone tra le proprie influenze gente del tipo Elvis Presley, The Birthday Party, Lee Hazlewood, Nancy Sinatra, Nick Cave & The Bad Seeds, Einsturzende Neubauten, Tom Waits, Leonard Cohen, Johnny Cash, The Velvet Underground, The Sex Pistols, The Clash, Joy Division, The Jesus & Mary Chain, The Cramps e Gun Club? Forse qualcosa di brillantemente strampalato. Magari un mix di Rock’n Roll, Punk, Industrial, Country, New Wave, Post Punk, Voodoobilly e Dark. Vi piacerebbe vero?
Cosa vi aspettereste da tre topolini cecati?

Mi spiace deludervi ma quello che vi aspetta è molto più ordinario delle premesse ma attenti, la cosa non sminuisce certo il valore dei milanesi.
The Three Blind Mice nascono a Milano appunto, solo tre anni fa e cominciano il loro viaggio producendo un Ep in solo vinile distribuito in Europa dalla berlinese Pale Music. Nel 2010 muore Rowland S. Howard, storico chitarrista membro degli Young Charlatans, Boys Next Door, Tuff Monks, Crime & the City Solution, These Immortal Souls e soprattutto The Birthday Party, leggendaria band postpunkrockblues australiana che fu il trampolino di lancio del grande Nick Cave, e loro, da bravi e dinamici appassionati di musica, organizzano il primo concerto tributo proprio a Rowland S. Howard. Nello stesso anno, su invito di Phil Shoenfelt (Fatal Shore, Nikki Sudden (tra l’altro quest’ultimo ha anche lavorato nel Punk Blues di Kiss You Kidnapped Charabanc proprio con Rowland S. Howard) si esibiscono nell’esotica e affascinante capitale ceca e proprio nella repubblica di Praga, insieme ai Kill The Dandies! Inizieranno un tour che li porterà fino a Berlino. Le loro scorazzate per l’Europa insieme a Big Sexy Noise di Lydia Lunch e Gallon Drunk, passeranno per Lubecca prima di portarli nella nostra Italia. La sosta è breve e presto inizia un nuovo tour, stavolta con Dim Locator, proprio di Schoenfelt, sempre nell’amata Germania. In Italia riusciranno ad aprire i live di Hugo Race And The Fatalist e dei Woman, ma la loro dimensione europea si fortificherà l’anno successivo, con un nuovo tour in Repubblica Ceca, stavolta come supporto agli Slim Cessna’s Auto Club.

È ancora lo stesso quello che vi aspettate? Non vi saranno diventati odiosi? Non vi sembreranno mica dei tipi da “Io suono in giro per l’Europa, che cazzo ne sai tu”?
Lasciate stare tutte queste cazzate. Lasciate stare quel cuore cafonal chic trafitto da una spada, prendete il disco e ficcatevelo in dentro lo stereo. Lo Schaltraum Studio di Berlino e Pale Music presentano, Early Morning Scum. Ve lo presento io.
“Asphalt Jungle” parte carico a mille, in un Alt Rock stile Marlene Kuntz, senza però digressioni noise e soprattutto senza quel cantato alla Godano del tipo “oddio non ce la faccio, mi sono appena sparato una pera” ma anzi con una vocalità profonda, intensa e calda (quasi Dark Post Punk), che accresce l’atmosfera desertica (come nel caso dei primi Litfiba) della musica. Atmosfera che diventa ancor più accentuata nella successiva “Bug Under Glass” dove, anche grazie all’organo di Manuele Scalia (autore praticamente di tutti i testi e le musiche), si evidenzia l’influenza di Nick Cave, che nella testa dei quattro (per la cronaca Manuele Scalia voce e chitarra, Daniele De Santis chitarra, Matteo Gullotta basso e Matteo Quaranta batteria) deve aver piantato dei semi più cattivi che mai. Con “Devastation Town” fa il suo ingresso Chris Huges con i suoi piatti e le sue percussioni. Ancora un Alt Rock eccezionale dal sapore vagamente Tex-Mex ma soprattutto una somiglianza evidente, anche se i milanesi sembrano più veloci e meno tetri e gotici, con la creatura di Peter Murphy chiamata Bauhaus. Una sorta d’incontro tra il Southern Blues Rock statunitense e la Darkwave britannica. La ballata “Dust Devil” invece, tra i cactus e il deserto ci si fionda senza voltarsi indietro, in perfetto stile Calexico. In “Three Story Girl” cambia ancora il batterista. Stavolta tocca a Enrico Berton. Con “Knuckles”, altro brano a metà tra la follia australiana e il Post Punk della regina con un risultato tanto 16 Horsepower (vedi Clogger) il ritmo è cadenzato, ossessivo, senza vie di fuga, con quel cazzo di giro di basso (che so che vi ricorderà qualcosa che già conoscete) da brividi e le coltellate delle corde di Daniele De Santis a lacerarci pelle e ossa, Skin and Bones. Eccezionale “Golden Spiral Kill” (con l’ingresso di Tom Schwoll alle percussioni insieme a Hughes) che lascia trasparire le influenze Punk seventies. Tornano le atmosfere fagioli e coyote in “Little Animals” mentre “Slow Motion” parte con una sezione ritmica da Joy Division per poi regalarci un pezzo di puro, sano, splendido Pop stile Pulp che quasi diventa Shoegaze nelle sfuriate di chitarra che stravolgono la mente e le orecchie dell’ascoltatore per risolversi in una No Wave di nuova generazione come i migliori e più vivi Interpol, Editors o The National. Un pezzo che non ti aspetti piazzato proprio dove serve, per non annoiare, per mantenere vivo il pulsare del cuore, per aiutare a innamorarti. È proprio alla nuova onda Interpol – The National è dedicata anche “Half Seas Over” sempre con quel tocco particolare al sapore di Tequila, che caratterizza tutto l’album e soprattutto sotto la guida di un angelo vivo chiamato Nick. “Jesus” chiude l’album come un amen una preghiera, come una preghiera la vostra vita. Anche nel suo essere religious rivela la passione della band per un posto e un uomo forse troppo lontani ma le parole toccano l’anima come poche e più di tanti altri pseudo grandi nuovi cantautori italiani.
Forse non era quello che mi aspettavo, quello che vi aspettavate ma l’esordio dei The Three Blind Mice è qualcosa che ha superato le aspettative sorte dopo il primo veloce ascolto. Non mi frega un cazzo di come si vestono, non mi frega con chi o dove hanno suonato. Visto come suonano, mi frega solo quello e ditemi quel cazzo che vi pare, l’idea di accostare il Post Punk al Tex-Mex è una figata ben fatta, originale o no sticazzi. Le canzoni sono splendide, le melodie anche, la voce è come deve essere e tutto va come deve andare. Se ve lo dice un rompicoglioni come me, fidatevi. E poi…l’avete vista la copertina?

Ah, non vi ho detto che c’è una sorpresa…mi viene da piangere, non mi succedeva da tempo con un disco che non conoscessi.

Read More

Riccardo Bellini – La gentilezza nelle cose

Written by Recensioni

Recita il vocabolario Treccani: gentilézza s. f. [der. di gentile]. – La qualità propria di chi è gentile, nei varî sign. dell’aggettivo:g.d’aspetto, g. di modi; e in senso morale: g. d’animo, di costumi,di sentimenti. Più com., amabilità, garbo, cortesia nel trattare con altri: persona di squisita g.; la sua innata g.; è di una g. rara, incomparabile; per g., formula di cortesia nel chiedere un favore, un’informazione e sim.
Ecco: io non credo di essere un recensore gentile per indole e questo è un elemento importante da tenere in considerazione per valutare il mio approccio a La gentilezza nelle cose, prima fatica discografica di Riccardo Bellini. Milanese, portavoce di quella generazione over30 ancora legata ai propri ruggenti vent’anni ma costretta a scontrarsi con una realtà per la quale è già ora di farsi una famiglia e invecchiare tra routine e responsabilità, Riccardo realizza questa demo di 5 tracce e la suona in giro per il nord Italia, al momento accompagnato da Paolo Perego, Riki Testorini e Maurizio Fusco, tutti strumentisti che hanno già militato in altre formazioni e che possono vantare una certa esperienza. Di per sé il prodotto è impeccabile. Un bel packaging fresco, una copertina finalmente chiara in un panorama di indie-produzioni dalle diverse tonalità di depressione che fanno un baffo alle celeberrime cinquanta sfumature di grigio.

Sono partita ben predisposta insomma, ma dai primi secondi di La tribù, traccia di apertura, ho dovuto ricredermi. Intanto la melodia vocale si muove su un tappeto ritmico elettro-dance che invece di esplodere in un ritornello incalzante semplicemente sparisce e lascia spazio a chitarre acustiche e dita schioccate. Ah. In secondo luogo: si scrivono davvero ancora i testi in rima? Con le sillabe tronche? O con i verbi all’infinito come nel secondo brano, I tuoi diari? Davvero? Un cantautore dovrebbe avere dei testi incredibili prima di arrangiamenti accattivanti. Ma Riccardo non è uno dalla voce fumosa e l’istigazione reazionaria. Vocalmente ricorda Niccolò Fabi con un certo tocco anni ’80 più alla Samuele Bersani. Non è uno Zibba, per intenderci. Bellini ha una vocalità leggera tutta italiana ma non belcantistica, pop ma non virtuosa e una scrittura letteraria quasi infantile, che giova a quella primaria sensazione di leggerezza che avevo provato alla vista del demo, ma che lo priva bruscamente dello spessore estetico di cui dovrebbe alimentarsi un artista degno d’essere chiamato cantautore. Costruzioni articolate o semplici, lessico quotidiano o ricercato, non ha importanza: deve riuscire ad arrivare un messaggio prepotente, che catturi l’ascoltatore e che releghi in secondo piano l’abilità dei musicisti. Riccardo non ci riesce. Ci prova, seriamente, in Lettera per lui, costruita a grandi sezioni (accompagnamento pianistico, andamento più folk per il ritornello, sezione parlata e sussurrata), come a voler dare sfoggio di una certa attenzione che indubbiamente c’è: l’impressione però è che sia proprio sbagliato l’investimento emotivo, come se non si centrasse il punto della questione. Parafrasando gli Afterhous, Riccardo ha tutto in testa, ma non riesce a dirlo.
La gentilezza nelle cose, insomma, va bene, ma non basta a farsi largo nel panorama emergente.

Read More

Luca Bassanese – La Rivoluzione

Written by Recensioni

Il cantastorie vicentino, Luca Bassanese è di nuovo in circolazione col quarto album “La Rivoluzione”, e dunque è un rafforzare l’idea che questo affabulatore di realtà, teatrante con un vero cuore incorporato, faccia già parte memorabile e a buona ragione del nuovo e grande cantautorato a venire, per intenderci quello che può dare lezioni e sentimenti senza improvvisazioni intrattenitrici di sorta, fuori dai camuffamenti e diretto negli entusiasmi pur conservando, con la golosità rubiconda dei poeti, il tratto inconfondibile delle storie di traverso.

E la sua è una rivoluzione accorata, fantastica tra avanspettacolo, feste di piazza e polverosi prosceni di vita amara in costante odor di riscossa sociale, temi da contrattempo e maturità che vengono sgolati, bisbigliati e recriminati con quel senso “beatamente guascone” che trascina le ombre rumorose di CaposselaQui si fa l’Italia o si muore”, i dilemmi di un lontano teatro di Dario FòMa cos’è questa crisi”, “Vogliamo la testa del re!” e le svergolate RiondinoaneLa casta” in un racconto infinito visto dalla parte degli ultimi, di chi s’incazza al cospetto di un Re padrone che in fondo – in nessuna piega della storia – è stato mai cacciato; marcette, mazurche, bande popolari, zumpappà e ottoni lucidati a nuovo sono la portante struttura sonora che regge tutto il “vapourissements” di storie e accadimenti che l’artista Bassanese mette in piazza come un almanacco d’altri tempi, al pari d’ una dimostrazione o uno slancio circense che dice, parla, interpreta e “sbocca” verità e sputi con fare magnificamente strapazzato.

La sua maturità artistica – riferita a Bassanese – è equivalente ad una “bottega d’autore” che non si fa mancare nulla, l’eleganza nella verve, il fascino nell’ironia, la burattinaggine colta, una espressività intelligentemente guitta che non nasconde anche di cedere alla tentazione del pop sociale “L’Aquila far west”, “L’essere umano” o  agli istinti afrikaner che dondolano in “Signora speranza”; con l’amico Stefano Florio agli arrangiamenti, Luca Bassanese ci regala un quarto e fortificante atto della sua vita/performance indissolubile e tenacemente attaccata al manifesto delle cose ben dette in faccia e orecchio, una vita artistica di vecchie marsine e antiche favole d’oggi  che scintillano sempre di più nella circolazione moderna del buio di fatto. Stupendo!

Read More

De Grinpipol – Earworms

Written by Recensioni

Ultimamente la Sardegna in fatto di musica alternative sta dando buoni numeri, tante le proposte sonore che sbarcano nel “continente” con l’intima intensità di scardinare finalmente le porte degli ascolti ad di la del mare, certamente non per svernare i vecchi simulacri delle cose ritrovate, ma per una eventuale presa di storia, illuminazione e terra tanto da far si che si possa uscire da una routine oramai logora e lisa che castra enormemente l’underground tutto.

I sassaresi De Grinpipol  – qui al secondo lavoro della loro corta carriera con “Earworms” –  fanno da apripista ad un gusto alternativo che chiazza di colori vivaci  un pop-psichedelico e una wave vestita di indie che una volta attaccato bottone con gli orecchi, difficilmente poi scende a patti col silenzio; una scaletta che si muove nei territori cari a Modest Mouse e più in la alle fibrillazioni degli Arcade Fire, ma anche una scaletta che afferma e dona la piacevolezza brillante di un lotto sonante mai scontato, dalla dimensione dichiarata e allargata senza nessun compromesso facile, una formazione fiera del loro senso variegato, ibrido di suonare e cantare frivolezze e tosti profili d’avanguardia, senza dubbio fuori dagli schemi per quello che siamo portati a sentire dalla mattina alla sera.

Tastiere 80’s, refrain vagamente radiofonici, corde elettriche shuffle, pimpanti ed epilettiche dal piglio punk “Minoli”, la ballata beatnik che smuove “Keep up prices”, “We try together” e le onde Bowieane che in ordine sparso abbracciano “A fur on summer”, “Mellow led”  caratterizzano i sentimenti e i desideri di una evoluzione prodiga a far si che si stia ascoltando una autentica emozione dalle tinte forti, e non un mero banco di prova per misurare a freddo “il secondo parto” di una band, e su questo i De Grinpipol non hanno bisogno di puntualizzare nulla che sia in più, la loro è una estensione estetica che apporta nella nuova scena rock quel tocco preciso di “innaturalità organizzata” che attraversa la filiera come una immaginaria fiorettata; cori e melodie fanno il resto, mischiando gioiosità e punte di amarezza poetica, punte di quella sostanza tenera e regolare che va ad intubare le prospettive aeree della lontananza “The reckless”.

Nove tracce di razza, una band indissolubilmente legata ad un futuro.

Read More

Alanis Morissette – Havoc and Bright Lights

Written by Recensioni

Probabilmente quell’incantesimo che negli anni Novanta l’aveva innalzata ad icona assoluta del pop agguerrito di denti e dolcezza è finito, ancor più probabilmente quel suo impero colonizzatore di palinsesti radiofonici mondiali aveva stufato ad oltranza, fatto sta che la cantautrice canadese Alanis Morissette si pone fuori mercato massimo, non attira più quelle folle di ragazzi ribelli ma di buona famiglia ed educazione –  magari anche timorati di dio e attivisti la domenica mattina in qualche movimento di Avventisti del Settimo Giorno –  che con le sue hits riuscivano ad uscire perlomeno da quella parvenza buonista per rivendicare una libertà più che fisica di linguaggio; ora a quattro anni dal deludente Flavors of Entanglement, riappare con un nuovo disco “Havoc and Bright Lights”, disco che nelle ambizioni di molti doveva essere il rilancio categorico della verve Morissettiana, ma nulla da fare, tutto è tragicamente identico al precedente, tracce piene dell’indubbio pregio di “non distinguersi” in nulla, e non basta inserire qualche afflato elettronico per tirare su quotazioni che non esistono se non in difetto, rimane in sottofondo quella colorazione (sempre più sbiadita) espressiva dei dollarosi esordi ma niente che faccia gridare ad un miracolo in odor di replica.

L’artista come sempre non lesina testi che grondano di umanità da salvare, ambienti da conservare, cuori e anime da tenere stretti e quegli abbracci enormi che virtualmente cingono tutto quello che è sociale “Celebrity”, “Woman down” o “Edge of evolution”, i voli iper amplificati e a coralità aperta “Guardian”, reminiscenze rock torbide attraverso un violino in depressione “Numb”, uno zuccheroso beat a prova di diabete “Win and win” e la debacle finale di “Magical child”, quasi cinque minuti di fraseggi eterei che alla lunga innescano l’idraulica naturale di un sonoro sbadiglio.

Un rientro in scena che non segna nessuna importanza, la Morissette (neo mamma) è troppo presa in un gioco di morbido abbandono, confusa ed incerta, lontana ere geologiche da quella fantasmagorica magia chiamata Jagged Little Pill che ci fece venire la febbre, o meglio, il febbrone a contrasto degli spasimi del grunge.

Read More

Asaru – The Chasms Of Oblivion

Written by Recensioni

Striduli riff, freddi giri di chitarra e forse anche un pò ancestrali (inteso come  suono da garage) e uno cantato che molto probabilmente sarà approvato dagli Emperor, questa è la miscela che compone “From The Chasms Of Oblivion” il secondo disco dei blackster  Asaru. Registrato presso i Rohlekeller Studio e prodotto dallo stesso Frank Nordmann, cantante e chitarrista del gruppo, “From The Chasms Of Oblivion” ha sicuramente il suo impatto forte al primo ascolto, ma ad esser sinceri, è un lavoro che a lungo andare stanca. Potremo cominciare dalla lunghezza delle tracce: la più corta, “Blind Obedience”, dura cinque minuti e 16 secondi mentre la più lunga è “World On Fire”,ovvero  la traccia di chiusura dalla durata di sette minuti e quarantanove secondi, insomma, una  bella mazzata finale per essere franchi. Il difetto di questo disco sta nell’ andazzo monotono e ripetitivo, come dicevo all’ inizio può incuriosire e magari piacere anche un po’, ma dopo un paio di ascolti il disco inizia a diventare pesante. Mostra indubbiamente la tecnica e le capacità dei membri del gruppo, ma se dobbiamo essere sinceri  tutto il resto non fa impazzire.  E’ chiaro che gli Asaru hanno capacità strabilianti e questa piccola steccata non influenzerà affatto, questo perché la band è più che attendibile ed il loro primo disco, “Dead Eyes Still See” lo può provare. In ogni caso spero si rifaranno con il prossimo lavoro.

Read More

The Abi – Song of Trail

Written by Recensioni

Dopo aver passato sei anni dal 2001 a comporre demos con varie bands locali Andrea Braina, musicista di Sassari, decise di fermarsi per poi intraprendere nel 2010 la carriera solista.
Song of trail” è il suo primo mini cd che vede la luce, totalmente autoprodotto e distribuito.
Una voce cupa e roca che potrebbe essere una sorta di incrocio fra Peter Murphy dei Bauhaus e dei Love and Rockets e Tom Waits scandisce le cinque tracce di questo mini ep.
E sicuramente è proprio la voce che colpisce di più in questo lavoro sebbene sia spesso e volentieri coperta dagli altri strumenti.
L’unico difetto (forse e se si può chiamare così) di questo viaggio sonoro è una batteria troppo statica che fatica a imporsi benchè scandisca alla perfezione il tempo.

Interessante poi la copertina rigorosamente in tonalità di grigio contornate di bianco in perfetto stile Ecm records (anche se col genere musicale dell’etichetta non c’è proprio nulla in comune).
Battlefields” è una freccia che colpisce al cuore direttamente, degna di esser paragonata alle prime opere dei The Cure grazie alle sue infinite sfumature sonore.
Ascoltando “You were” riecheggia invece nell’aria invece l’anima dei Joy Division e quella dei loro “pronipoti” Diaframma, che dal 1981 al 1983 si ispirarono profondamente al gruppo.
By memories” è invece un po’ più movimentata sin dalle prime note (sempre rigorosamente arpeggiate) e dà un po’ più di vivacità al tutto.
In “No Thrill” a far da padrone è invece (in mia opinione) per la prima volta il basso che altissimo si eleva per dar spazio alla chitarra durante il ritornello.
The beats” è invece il brano più psicotico, caotico e confusionario (ma in senso buono sia ben chiaro) mai sentito.
E se non mi credete tutto ciò che dovete fare è procurarvi “Song of trail” che viene venduto a prezzi modici in formato mp3 su internet.
Non posso quindi che esprimere un giudizio più che positivo per questo minicd a cui seguiranno presto altri lavori già preparati e in attesa di pubblicazione da parte di Andrea Braina che si spera possano mantenersi sullo stesso livello di qualità o, perché no, anche migliorarsi.

Read More

Aeternal Seprium – Against Oblivion’s Shade

Written by Recensioni

Provenienti da un piccolo paesino ricco di storia a Nord della Lombardia, gli Aeternal Seprium manifestano la loro presenza con un disco d’ esordio veramente grintoso. La band che di gavetta ne ha fatta, è riuscita con la propria audacia e voglia di fare a sfornare un lavoro di ottima fattura. Parlando del gruppo, nacque  come cover band con il nome Black Shadow nel 1999, poco dopo i ragazzi si resero conto che volevano qualcosa di più e cominciarono a comporre e a proporre pezzi inediti. Con il tempo produssero due demo, “A Wishper From Shadow” il primo e datato 2007, qui con l’ inizio e dunque la  benedizione degli Aeternal Seprium, e nel 2009 “The Divine Breath Of Our Land”.  Nel frattempo gli Aeternal Seprium suonano in alcune date di supporto a gruppi come Phantom X, Omen e Tokyo Blade. Nel 2011 producono il disco d’ esordio “Against Obliovion’s Shade”. Questo disco, protagonista della recensione spazia dal Power  al Progressive , il tutto con sfumature Epic. I riferimenti sono i classici: Iron Maiden, Helloween, Grave Digger e Gamma Ray, perciò chi è appassionato di queste band sicuramente apprezzerà questa fatica  degli Aeternal Seprium. Ad ogni modo “Against Obliovion’s Shade” è un disco ben suonato, il lavoro delle chitarre è eccezionale ed il cantato  di Stefano Silvestrini è veramente impressionante, mettiamola cosi: le sue doti canore sono un ottima garanzia anche per il futuro. E’ difficile indicare una traccia precisa, perché ognuna di  esse ha qualcosa di particolare nonostante la loro struttura lineare. Insomma “Against Obliovion’s Shade” è un album apprezzabile,  ha tanti punti a favore come del resto gli Aeternal Seprium. Non resta altro da fare che godersi il disco.

Read More

Propagandhi – Failed States

Written by Recensioni

Molto  probabilmente hanno fatto un patto col diavolo, sicuramente, altrimenti non si può giustificare l’eterna giovinezza sonica che i canadesi di Winnipeg, i  Propagandhi,  si tirano dietro, tutto è come – quasi – agli esordi del combo capitanato da Chris Hannah, anzi, mettiamoci in più anche una ulteriore spanna di incazzatura, perché a loro piace, a loro serve per denunciare – come sempre –  la politica corrotta, i poteri forti dell’economia e le diseguaglianze sociali dentro, fuori e di lato del Canada e del mondo circostante.

Failed States” è il sesto disco di questa formazione velenosa, la nuova ventata di rabbia, ribellione e denti aguzzi che in dodici scudisciate sonore mette in riga ed incute rispetto l’ascolto, fa salire la pressione sanguigna fino agli attici dello stordimento fisico; chiaramente e da immemori tempi figli adottivi dell’onda americana dei Nofx, la formazione – che ricordiamo essere dopo un’ultima rivisitazione della line-up  formata dal già citato Hannah voce e chitarra insieme a David Guillas chitarra, Jordy Samolesky batteria e Tod Kowalski al basso – riconosce degnamente anche certe limitazioni che il loro sound va ponendo man mano che i tempi corrono, ma la fustigazione del loro istinto giustiziero è più forte e rapida di un verdetto, di una condanna.

Con ancora in testa un loro fulminante album del 93, How to clean everything, la summa artistica di questa band è pressappoco la stessa, anche perchè il genere sonoro espresso non concede variazioni di sorta ma che continua a rappresentare la coscienza etica di una è più generazioni in fallimento; chitarre, fuzz, corse elettriche, funambolismi melodici e urla, rabbia, saliva e dolcezze lampo picchiano la tracklist come una pena da scontare, non mancano lancinanti metallismi a tergo di rimebranze di Iron Maiden, Judas PriestDevil’s creek”, lo speed doom acre che sfiata dai woofer di “Rattan cane”, le pedaliere doppie che sanguinano tra le macerie di “Cognitive suicide”, “Dark matters” e le esalazioni potenti alle quali nuove roccaforti dell’HC  – vedi International Noise Conspiracy, Subhumans e altri – ne fanno fede “Lotus gait”.

Sono in piedi da anni (1986), e da anni sparano da matti, inutile bloccarli, sono della vecchia generazione e alla pensione non ci pensano affatto, preferiscono la guerriglia amplificata che la becera bontà di facciata. Come dargli torto?

Comunque da avere.

Read More

Gli Ultimi – Storie Da Un Posto Qualunque

Written by Recensioni

Avete presente quando, da bambini, aspettavate un anno intero che arrivasse Natale perché sapevate bene che vostra nonna vi avrebbe regalato il Voltron gigante? Poi succedeva che arrivava il giorno del compleanno di vostro signore Gesù Cristo e vedere la scatola avvolta nella carta del negozio di giocattoli più figo del paese vi riempiva gli occhi di lacrime sorridenti e i muscoli d’una frenesia epilettica. Poi strappavi quella carta a morsi e il tuo volto diventava un misto tra verde melma, grigio catarro e arancio vomito. La carta era solo un riciclo, ormai era chiaro e ti ritrovavi a fare i conti con la verità dei pizzicotti della vecchia rincoglionita, col suo Alzheimer e con l’ennesimo pigiama con gli orsetti.

Oggi, la stessa situazione di merda sopraggiunge ogni volta che ricevo un nuovo disco di (, spero sempre buon) Punk tricolore e lo infilo nello stereo. Non è tanto la qualità della registrazione, le melodie o la bellezza pura della musica. È solo che non ne posso più di ascoltare band che fanno la stessa identica roba di decenni fa, quella del Flower Punk da musicassetta, dei Derozer o degli Impossibili. Che cazzo: hanno ibernato tutti i punk di questa fottuta penisola? La cosa mi mette in seria difficoltà, giacché ho sempre più l’impressione, a questo punto, che potrei scrivere un bel pezzo standard da copincollare di volta in volta.
Ora, è vero che il fratello cattivo Hardcore ha margini di variazione sul tema abbastanza ampi e che invece, il Punk, per essere considerato tale, deve rispecchiare schemi precisi ma è impossibile che nessuno abbia la voglia e la capacità di plasmare la materia per forgiare qualcosa che abbia anche solo un minimo d’inventiva al suo interno; non ci credo.
Detto questo, vediamo di darci una calmata e facciamo un passo indietro. Perché Gli Ultimi, in realtà, non sono niente male ad ascoltarli bene. Quattro ragazzi di Roma o giù di lì, Roberto “Berna alla batteria, Simone “Pat” al basso e voce, Maurizio “Bardo” alla voce e Alessandro “Palmiro” a chitarra e voce, che cercano di incarnare, già dal nome, lo spirito della nuova generazione del “No Future” cacio e pepe, quella dei ragazzi senza un lavoro, senza il paparino con i soldi che mette sempre pezza a ogni stronzata, quella senza prospettive e senza aspettative e soprattutto senza l’I-Phone. Simbolizzano la rabbia di tutti quei ragazzi che ogni giorno incontri al bar a giocare a carte o a biliardo per far scivolare via il tempo sulla pelle, quelli che bevono birra e non Spritz, che ti scroccano una sigaretta e si fanno qualche canna. Forse parlo proprio di te, di quello che sei o di quello che eri. Proprio tu che hai smesso di sognare, ma è solo quello che vorrebbe, quello che crede, la “nuova società dei magnaccioni S.P.A.” chiamata Italia. Gli Ultimi, nati nel 2008 da qualche costola di Automatica Aggregazione, Charlie e Desperate Living, ricordano che ci sono posti qualunque, pieni di storie dove gli ultimi sono i primi. Un concerto, gli amici, la curva di uno stadio, i sogni e le fantasie. Tutti questi luoghi e momenti e quelli raccontati dentro Storie Di Un Posto Qualunque.

Si parte con l’inno Street punk (questa è una cosa che solo i punkers oggi sanno fare bene, creare inni) “Gli Ultimi”, sorta di manifesto del proprio essere, della propria vita ed esistenza, fatta di campi da calcio, sala prove, emarginazione e vita di provincia. Tutto quello che segue, suggerisce in maniera dettagliata i temi accennati nel pezzo iniziale e di cui vi ho parlato sopra e si manifesta in quel tipico Punk Rock che ha fatto la fortuna, per modo di dire, dei già citati Derozer, Gli Impossibili o Le Pornoriviste, tanto per fare qualche nome, senza disdegnare incursioni nel mondo U.S.A. West Coast e nelle distorsioni sociali blues.  Di certo non possiamo che essere felici per la qualità audio assolutamente degna, nonostante le probabili difficoltà affrontate. Ottima anche l’esecuzione dei quattro ed ho trovato estremamente imbroccata la voce di Alessandro e Simone, sia nelle parti cantate sia negli immancabili coretti. Melodie quasi inappuntabili e sempre ben ricercate. Curioso l’inserto della tastiera al pezzo cinque, “Laida, Bastarda e Sporca” che forse poteva anche essere più incisivo e lo stesso si può dire della successiva, bellissima, “Canto Del Carcerato” che vede la presenza del mandolino di Andrea Rossi. Non mancano le ballatone alla Mike Ness tipo “Longness” e non mancano le compartecipazioni, con Massimo Il Sardo in “Morfina” e con Damiano, Falla e Teschio in “Ancora Qui”. Molto piacevole inoltre la copertina, ben rappresentativa di quello che è il punk oggi, nel suo sentirsi sempre più in gabbia con la sola compagnia di quello che è il punk di tanti anni fa, coi capelli bianchi ma sempre più vigoroso di quello che il mondo fuori dalle mura non immagini. Infine, non mancano i pezzi carichi, impetuosi, come “Terra Bruciata” nello stile Crummy Stuff di “Con Noi Non Duri Molto”.  L’album si chiude con “Ancora Qui”, il pezzo più “yankee”, più Hardcore e più sparato a mille, ma l’impressione è che Gli Ultimi riescano con migliori risultati utilizzando la formula melodica proposta nei brani antecedenti.
Un disco che trova proprio nelle melodie e nell’anima i sui punti di energia. Un bel disco e presumibilmente una bella band da vedere dal vivo. Resta quel dilemma del cazzo. Mi aspetto sempre la band che faccia virare il Punk verso una nuova meta vergine ma mi ritrovo incessantemente con la faccia nella pura convenzionalità musicale fatta da chi predica l’anticonvenzionalità per eccellenza. Per ora mi accontento e mi tengo stretto almeno questa band che sa essere sincera, sa suonare e scrivere bei testi.  Intanto aspetto con ansia il prossimo Natale. Non si sa mai che a mia nonna passi l’Alzheimer.

P.s. Grazie dell’adesivo Street – punk in natura Peroni. Salute! Vado a berne un paio.

 

Read More