Interviste

Aut in Vertigo

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Hanno vinto l’ultima edizione del nostro Contest AltrocheSanRemo, gli Aut In Vertigo ci parlano delle loro esperienze artistiche, della musica Rock e della pasta scotta. In Italia non abbiamo la cultura per i live come nel resto del mondo.

Vincitori del nostro super testato Contest AltroCheSanremo. Gli Aut in Vertigo, a questo punto sono obbligate le presentazioni, ci parlate di voi?

Siamo una band piemontese, della provincia di Torino, nata nel 2004. Evoluzioni e cambi di formazione ci hanno portato dal 2012 alla line-up che oggi potete conoscere. Suoniamo per raccontare quello che viviamo, cosa sentiamo e cosa pensiamo; per divertire e per divertirci, per condividere con il pubblico il nostro modo di vedere il mondo.

Adesso vogliamo conoscere anche tutto quello che avete fatto fino a questo momento della vostra vita artistica…

Come abbiamo detto, nel 2004, siamo nati da un progetto condiviso sui banchi di scuola, per poi raccattare amici e conoscenti con una visione comune del mondo e della musica. Abbiamo iniziato a suonare, dal piccolo e poi sempre più in alto, e nel 2007 abbiamo inciso il primo lavoro, Welcome. Abbiamo partecipato a diversi contest, come Emergenza, TourMusicFest, Torino Sotterranea, e così via, che ci hanno permesso di conoscere molte altre band e suonare su palchi d’eccezione. Nel 2012 abbiamo cambiato formazione, e con i nuovi musicisti la band ha dato una vera e propria accelerata. Ecco che nel 2013 è uscito iI nostro disco In Bilico, che riassume parte del lavoro fatto negli anni, e parte della nuova spinta verso il futuro.

Stiamo parlando di una band emergente e soprattutto indipendente, trovate difficolta nell’inserirvi nell’ambiente musicale italiano?

Sì, se parliamo di palchi istituzionali. Suonare in giro non è difficile, ma è difficile farsi considerare, soprattutto se la musica proposta non è immediata o di moda, difficile entrare nelle reti di locali dove suonare, se non hai già un giro, che purtroppo non si crea solo sapendo suonare bene. Spesso e volentieri ci troviamo di fronte alla valorizzazione di band con scarso valore artistico-musicale ma molto “appariscenti”, con i quali sembra che i “ganci” siano più importanti della musica.

Pensate che gli altri artisti nel resto del mondo vivano le stesse vostre difficoltà? Perché?

Non lo sappiamo. Altre band amiche che hanno fatto tour in USA o in nord Europa ci raccontano che lì la cultura del live è diversa, che c’è attenzione e considerazione anche per le band emergenti, e soprattutto ascolto del prodotto che stai proponendo. Continuiamo a sperare che questo modo di vivere e ascoltare la musica arrivi anche qui…

Com’è il vostro rapporto con i locali (o gestori) per quanto riguarda la possibilità di esibirvi? Raccontateci anche qualche particolare situazione in cui vi siete trovati.

Il rapporto è difficile, nei locali medio/grandi è possibile suonare solo con i contest. Meno male che ci sono, ma è un po’ frustrante essere valutati solo per il numero di persone che si portano, che pagano o che consumano. La maggior parte dei locali non rispondono nemmeno alle mail, e anche questo rende tutto più complicato. Detto questo, ci sono anche gestori attenti, che ti danno la possibilità di suonare senza troppe storie e senza tirarsela tanto. Se vuoi un aneddoto, una volta, in centro a Torino, ci siamo montati completamente il palco, dalle spie, alle luci, al setting (della serie: arrivare concentrati al live) attaccato con cura tutto alla ciabatta e dopo due ore che nessuno del locale ci considerava abbiamo scoperto che il mixer non esisteva. Capisci? Questa ti sembra “cultura del live”? O anche solo professionalità? A noi no. Per fortuna il nostro pubblico è superbo, ripaga ogni sforzo, e non c’è serata in cui non ci sentiamo arricchiti dalle persone che ballano, ascoltano, criticano e condividono le nostre fatiche. Ecco, se dobbiamo dirla tutta il grazie più grande va a loro, non ai locali, né ai contest, ma alla gente che col sorriso ti accompagna e ti solleva in modo costruttivo.

Pensate sia giusto ricevere un cachet anche da perfetti sconosciuti? E non parlo del vostro caso ma in generale. Dove entrambe le cose non fossero possibili, meglio suonare tanto e gratis (o quasi) oppure suonare poco ma ben remunerati?

Pensiamo che sia meglio suonare tanto, giustamente remunerati. Sono molte le ore che una band come la nostra trascorre a pensare, progettare, allenare e perfezionare lo spettacolo, così come sono molti i fondi investiti, i km fatti, il tempo sottratto al lavoro che ci sfama. Dunque suonare e almeno non perderci i soldi investiti per raggiungere il palco, o per affittare la strumentazione mancante, ci sembra il minimo. Suonare tanto, anche aggratis, è indispensabile per farsi le ossa e l’esperienza, ma fino ad un certo punto e fino a un certo livello: se una band muove anche solo un centinaio di persone e intrattiene per un ora e mezza, beh, una birra e una pasta scotta non bastano più.

Tralasciando i contest on line, trovate che quelli più popolari e dove si suona dal vivo siano utili per una band emergente? Vi faccio qualche esempio, Arezzo Wave, Marte Live etc…

Utilissimi. Come dicevamo prima, grazie ai contest abbiamo raggiunto palchi difficili da raggiungere per una band emergente. Per chi è di Torino parliamo dell’Hiroshima, delle Lavanderie Ramone, le Officine Corsare o i Giancarlo ai Murazzi. Inoltre si conoscono e incontrano altri musicisti e altre band, e questo è sempre arricchente. Trovando dei limiti, da musicisti, a volte sembra poca l’attenzione verso la proposta musicale: non è sufficiente ascoltare due pezzi su youtube per capire qual è la ricerca di una band; se si organizza bisognerebbe avere la pazienza di scendere nel dettaglio, sebbene implichi tempo e denaro ma è il prezzo per fare un lavoro di qualità e migliorare la proposta artistica nazionale. Altro problema, molto più concreto è al solito il chiedere a chi ti segue di pagare la tessera associativa di turno, l’ingresso, ecc ecc. Certo, la colpa non è solo di chi organizza, ma anche la mancanza di politiche adeguate a finanziare le attività giovanili in generale, tra cui la musica live.

Avete mai avuto a che fare o solo sentito parlare degli uffici stampa? Cosa pensate? Una band precedentemente intervistata si lamentava dei prezzi, voi come vedete queste realtà ormai fondamentali per farsi conoscere?

Sì, conosciamo il mondo degli uffici stampa. Con l’uscita del nostro disco In Bilico, abbiamo deciso di fare questo investimento. Il punto è che la promozione e la diffusione delle informazioni sono importantissimi, ed è necessario farli per valorizzare il lavoro che hai fatto: abbiamo imparato che bisogna starci dietro quotidianamente per avere dei risultati, e se non può farlo il musicista in prima persona, deve farlo qualcun altro. Ci siamo avvalsi di Rosina Bonino, ufficio stampa di Fratelli di Soledad, DotVibes, Invers, Dagomago e molti altri, e con la sua professionalità e esperienza, ci siamo trovati davvero bene. Affidarti a dei professionisti che si occupano di questi aspetti, ti permette di concentrarti ancora di più sulla musica e sugli spettacoli live.

Esiste ancora la possibilità che un gruppo come voi riesca ad emergere con le proprie forze?

Beh, è quello che speriamo. In ogni caso crediamo che suonando tanto, dando il meglio di sé, e avendo qualcosa di originale da proporre, le possibilità ci siano per tutti.

Perché qualcuno dovrebbe ascoltarvi?

Perché ama il Rock, ama i testi in italiano, ed è stufo di sentir dire che il Rock nel nostro Paese è in mano a pochi famosi artisti. Tutte le nuove proposte mainstream in Italia escono da reality show, ora, ma secondo noi la musica non è spettacolarizzazione della vita, è una cosa seria che richiede fatica, lavoro e studio. La musica può trovare mille vie per uscire fuori ma deve avere le possibilità per essere valorizzata, non vuol dire per forza diventare milionari, ma aspirare al riconoscimento di un lavoro che ha valore. La gente potrebbe ascoltarci perché il nostro è un prodotto sincero, che racconta delle storie nelle quali riconoscersi, che veicola sentimenti comuni, perché ha voglia di scoprire storie nuove, ambientate nelle nostre città, e perché ha voglia di venire sommerso dalla nostra energia dal palco.

Cosa riserva il futuro per voi? State preparando qualcosa?

Stiamo continuando a portare in giro i brani dell’ultimo disco, e nel frattempo stiamo scrivendo pezzi nuovi. Stiamo preparando due videoclip e pensando a un nuovo lavoro discografico.

In questo spazio potete dire tutto quello che volete e che non vi è stato chiesto e fare pubblicità alla vostra band.

Beh sicuramente vogliamo ringraziare Riccardo e lo Staff di Rockambula per questa occasione, oltre a quella del simpatico contest AltrocheSanremo. Tutti i fans che leggeranno e le persone nuove che vorranno cliccare “mi piace” sulla pagina Fb www.facebook.com/autinvertigo . Aut In Vertigo è un modo bello di fare musica, ascoltare, condividere, fare strada insieme. Aggiungetevi alla cumpa, non ve ne pentirete.

Rivoluzione

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3 Fingers Guitar

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3 Fingers Guitar è un cantautore Post Punk, un animale elettrico, una “quasi” one man band. Chi è Simone Perna, quanto c’è di lui in 3FG, e come è arrivato a fare questo disco, Rinuncia all’Eredità?
Fare questo disco è stata una necessità. Più che in altre occasioni. Ho dovuto farlo per liberarmi da cose rimaste in cassetti chiusi per molto tempo ma che continuavano a riproporsi comunque davanti ai miei occhi.  Quindi sì. In 3 Fingers Guitar c’è molto di me.

La scelta di suonare quasi tutto da solo è nata da una necessità o è una precisa scelta artistica? Doversi bastare è più facile o più difficile rispetto alla vita (sul palco e in studio) con una band?
Direi una necessità pratica che è diventata una scelta artistica di conseguenza. Una situazione del genere ti dà sicuramente autonomia e questo è un vantaggio. Per fortuna non vedo grandi svantaggi, è una condizione che ho scelto abbastanza conscio di tutto quello che comporta. Alla fine si riduce tutto alla motivazione che ti muove a fare le cose.

È difficile inquadrare la musica che fai. In Rinuncia all’Eredità” c’è del cantautorato, come dicevamo, insieme ad un’urgenza che sta a metà tra Punk e Blues. Ci sono attimi intensi, graffianti, ma anche panorami quasi sospesi, ossessivi. La pasta sonora dei tuoi pezzi, l’ambiente in cui li immergi, i vestiti che cuci loro addosso, sono frutto di un calcolo o di un lanciarsi a capofitto nell’improvvisazione più pungente?
Quasi tutti i pezzi sono nati da scampoli, piccole idee, riffs minimali di chitarra o loops ritmici ripetitivi. Quindi di lì l’improvvisazione certo, lo sviluppo di strati sonori istintivi, nati sul momento, a servizio di strutture a volte nate spontaneamente e altre volte invece meditate a lungo. Diciamo che entrambe le cose a cui ti riferisci coesistono.

Parliamo del disco. Qual è il brano “centrale”, quello a cui faresti riassumere la narrazione dell’intero album? E invece quello più ai margini?
Il brano centrale è sicuramente la title-track. Lo snodo narrativo del concept è lì. Un padre sul letto di morte, un figlio che lo ritrova lì, dopo anni di assenze reciproche e rancori. Un confronto cruciale di esistenze riflesse.  Non so individuare quello più ai margini, hanno tutti, chi più o chi meno, a che fare con lo stesso tema e sono legati tra di loro.

La scelta di farlo in italiano, dopo i primi lavori scritti in inglese, da cosa è dipesa?
Dal fatto che in primis l’inglese non è la mia lingua madre. Per un po’ il gioco ha retto ma quando il problema si è posto in termini di autenticità espressiva ho rivisto le mie posizioni nei confronti dell’italiano. Perché apparentemente l’inglese è una lingua  più musicale, più semplice da trattare in termini di rime e assonanze all’interno di un testo musicato. Quando però mi sono ritrovato a cantare su un palco un pezzo in inglese rendendomi conto di non essere convinto appieno del senso sia grammaticale che strettamente comunicativo di ciò che stavo dicendo, mi sono reso conto che era il momento di cambiare. Quello che volevo far arrivare al pubblico in quel momento non ero in grado di farlo uscire appieno.

Chi è il padre, e cosa ha lasciato in eredità? E perché, soprattutto, ci si sottrae a questo lascito?
Il padre e un’allegoria. Rappresenta il passato. Un passato fatto di traumi che non riusciamo a risolvere e che condizionano il nostro presente. Mi spiego meglio: in generale nella nostra vita e nei nostri rapporti umani inseriti nella società in cui viviamo  ci può capitare di avere a che fare con cose non particolarmente piacevoli. Cose che ci segnano, che ci fanno star male e che ci portiamo dentro. La cosa terribile che ho constatato a volte  in me e negli altri è questo sentirsi inconsciamente autorizzati a far star male altre persone sulla base di ciò che abbiamo subito noi in precedenza. Un modo per liberarsi dei propri traumi che in realtà non fa altro che generare altro dolore e alimentare sensi di colpa. Una cosa tremendamente autocompiaciuta e che a volte  serve a giustificare la parte peggiore di noi.

Perché il codice morse nel booklet? Un divertissement casuale o una precisa aggiunta a posteriori?
Il codice morse è stata un’idea di Cinzia La Fauci di Snowdonia Dischi che ha curato con estrema attenzione la parte grafica. Una scelta estetica minimale che mi ha convinto subito. Ma è soprattutto un modo per comunicare  alcuni sottotesti dell’album. Sta alla pazienza e alla voglia di chi si appassiona all’ascolto del disco decifrarli.

Sono affascinato da questo modo di saper intendere il cantautorato in modo anche molto diverso da quello che anni di De André, De Gregori, Guccini ci hanno fatto sedimentare nelle orecchie: anche oggi i loro epigoni imperano, col risultato, spesso, di rallentare le possibili evoluzioni della cosiddetta “canzone d’autore”. So che tu, invece, ti ispiri ad altre realtà: Claudio Rocchi, Fausto Rossi… cosa pensi di aver inserito nelle tue canzoni che si ispira a questi “grandi outsider”?
E’difficile parlare di ispirazione per me. Nei confronti di ciò che ascolto e che mi appassiona mi vedo come una specie di spugna che assorbe cose anche diversissime tra loro. Nel caso dei cantautori italiani a cui ti riferisci, nelle Border Nerves Sessions (4 video-cover rispettivamente di Juri Camisasca, Fausto Rossi, Federico Fiumani e Claudio Rocchi) ho voluto rendere omaggio ad autori che amo e che hanno un approccio alla canzone in cui mi ritrovo. Viscerali, istintivi, a volte grezzi nella forma ma sempre molto personali. Attenzione però. Si può essere epigoni di chiunque. Il punto per me è assorbire il più possibile dalle cose che mi coinvolgono e mi colpiscono (quindi certamente  anche De Andrè, De Gregori..) e cercare poi di dare una forma che mi convinca a quello che faccio.

Un altro cantautore sui generis che è uscito da poco col disco nuovo è Vasco Brondi (Le Luci della Centrale Elettrica). È evidente che per tanti motivi i vostri dischi siano distanti anni luce, ma io ho trovato anche qualcosa che forse li lega: il tentativo di sposare l’idea di “cantautore” con questa urgenza Post Punk (nel tuo disco è ovunque, in quello di Vasco affiora qua e là, nei suoni, nelle strutture dei brani) che, in qualche modo, tenta uno sradicamento dei cliché che la canzone italiana si porta dietro anche nei suoi lati più “indipendenti”. Questa Rinuncia all’Eredità la possiamo intendere anche in un senso “meta”? Ignorare, o meglio ancora, spezzare i topoi che ci precedono e creare qualcosa di veramente nostro, anche assumendoci la responsabilità degli errori e delle difficoltà di comunicazione che, inevitabilmente, ci troveremo ad affrontare? In altre parole: c’è nella tua musica il tentativo cosciente di renderla “nuova” e quindi, in qualche misura, “difficile”?
Se da ascoltatore  hai individuato nel mio disco una proposta  nuova e personale la cosa non può far altro che farmi un grande piacere e ti ringrazio davvero tanto. Da parte mia però, non riuscirei mai a  partire da delle  premesse programmatiche nella mia musica. Mettersi lì e dire: “Oh! adesso diamo una bella  scrollata a questo cantautorato italiano e facciamo un bel disco innovativo e difficile!” non è proprio da me; la vedo come una cosa un po’ rischiosa che potrebbe  condizionare  la creatività in fase di realizzazione dei pezzi.

Torniamo a domande più leggere. Come porterai in giro il disco dal vivo? Sarai da solo o ti farai accompagnare da qualcuno?
Sia in duo, con in più la batteria di Simone Brunzu (che suona sull’album)  sia da solo. Cerco di adattarmi a seconda delle situazioni.

Dopo Rinuncia all’Eredità cosa farai? Hai altri progetti in corso? Novità di cui ci vuoi parlare?
Ho già qualche pezzo pronto e parecchie idee a cui dare una forma più definita. Ma per il momento mi sto concentrando sul disco appena uscito e a portarlo in giro coi live.

Grazie per la chiacchierata, alla prossima!
Grazie a te per le domande Lorenzo, a presto!

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Nicola Manzan (Bologna Violenta)

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Sta girando l’Italia in lungo e in largo per il tour legato al suo ultimo album. Si porta dietro un’esibizione live dal forte impatto emotivo. Dopo aver partecipato al concerto tenutosi a Torino, era inevitabile porsi delle domande su Uno Bianca. A domande fatte, Bologna Violenta (Nicola Manzan) risponde. Eccovi serviti.

Ciao Nicola, cominciamo dal principio. Com’è nata l’idea di Uno Bianca? Voglio dire, in Italia purtroppo si sono verificati un gran numero di fatti di cronaca nera. Come mai la scelta degli avvenimenti legati proprio ai fratelli Savi?
La scelta è ricaduta su questi fatti perchè si sono svolti in larga parte a Bologna e provincia (per quanto la banda abbia operato anche lungo la costa adriatica fino a Pesaro). Volevo fare un disco su Bologna, un po’ come era successo nel 2005 con il mio primo album. Lì era più una questione di istinto, di sensazioni trasformate in musica, filtrate attraverso l’immaginario dei film poliziotteschi degli anni Settanta (ma con sonorità moderne, ovviamente). Qui il lavoro è stato diverso, sentivo il bisogno di raccontare Bologna, ma volevo farlo partendo da una storia vera che secondo me ha sconvolto e cambiato sotto molti aspetti la città di Bologna e le persone che ci vivono.

Ti sei dovuto documentare molto per la realizzazione di questo album? Di che tipo di materiale ti sei servito per poter riscrivere in musica questa storia? Hai trovato difficoltà nel reperirlo?
Ho cominciato ad interessarmi a questa storia una decina di anni fa e quando mi sono messo al lavoro per scrivere e registrare il disco mi sono reso conto di avere parecchio materiale utile senza dover impazzire per reperire molte altre informazioni. Tengo anche a precisare che il mio intento è sempre stato, fin dall’inizio, quello di “sonorizzare” i peggiori crimini della banda, quindi la cosa fondamentale per me era capire come si erano svolti i fatti per poter poi creare una sorta di sceneggiatura che sarebbe diventata la struttura del pezzo. Quindi mi sono concentrato più che altro sulla ricerca di libri o documenti con fonti attendibili che raccontassero cos’era successo (o cosa si presume possa essere successo) e poco altro. Non mi è mai interessato affrontare tutte le questioni e le ipotesi riguardanti le azioni della banda (qui le teorie si sprecano), per me l’importante era mettere in musica dei momenti di follia e terrore.

Nelle tue esibizioni live di Uno Bianca la musica è accompagnata da immagini, scritte e video  essenziali, molto diversi da quelli che accompagnano le esibizioni dei tuoi precedenti pezzi. Una formula che aiuta a descrivere i fatti e a meglio comprendere la tragicità degli eventi, senza però far passare in secondo piano la musica. Più che un concerto i tuoi live sono una sorta di esperienza multisensoriale dal forte valore emotivo. Ci racconti com’è nata l’idea di un live di questo tipo?  
Devo innanzitutto dire che avrei voluto avere i visual anche per i tour precedenti, ma alla fine per un motivo o per un altro (a dire la verità sono tantissimi fattori messi insieme) non sono mai riuscito a mandare in porto questo aspetto dei live. Per questo disco, però, la questione “visual” non poteva essere ignorata. Non a caso anche nel disco si trova una guida all’ascolto in cui vengono raccontati i vari episodi, dando così la possibilità all’ascoltatore di poter capire cosa stia succedendo a livello musicale. Quindi ho deciso di creare un video per ogni pezzo del disco, ma non volevo fare dei videoclip veri e propri (anche perché le immagini di repertorio non sono comunque moltissime), mi interessava più che altro raccontare attraverso poche immagini, poche parole e alcuni simboli ricorrenti (come i flash degli spari e le croci). Se non ci fossero i visual penso che nessuno capirebbe cosa sto facendo durante i concerti, i pezzi sarebbero fini a se stessi e ci sarebbe addirittura il rischio che venissero ascoltati con le stesse “intenzioni” di quelli dei dischi precedenti, dandone una interpretazione grottesca e quindi sbagliata. I video della seconda parte del concerto (i cui suono appunto pezzi presi dai dischi precedenti) sono addirittura spesso più truci di quelli di Uno Bianca, ma tutto sommato vengono vissuti con più leggerezza dalla gente.

Uno Bianca è stato oggetto di critiche per una sbagliata interpretazione dei tuoi intenti; se ne è parlato molto sul web. Te l’aspettavi una cosa del genere? Cosa hai pensato quando hai letto l’articolo in questione su “Il Resto del Carlino”?
Ho pensato che a questo mondo non c’è proprio speranza… L’articolo (quello che ho condiviso su Facebook è solo uno dei tre usciti anche sul cartaceo) è stato scritto dopo essere stato un’ora al telefono con uno dei loro giornalisti a cui ho spiegato per filo e per segno tutto di me, del mio progetto e di quello che ho fatto nella vita, giusto per non lasciare delle zone d’ombra. Però niente da fare, evidentemente avevano già deciso tutto prima di contattarmi e nonostante io abbia mandato il disco alla redazione del giornale, è palese che l’articolo fosse in pratica tutto già scritto prima ancora di contattarmi. Come è palese che nessuno ha ascoltato gli mp3 che ho mandato. Questi articoli poi hanno sollevato degli strascichi di polemiche molto fastidiose, a dirla tutta. Io ho solo raccontato in musica una storia, ma evidentemente questa cosa non si può fare. Davvero non capisco.

Questa è una domanda personalissima, o forse no. Nelle tue produzioni musicali ti sei quasi totalmente discostato dal concetto di “canzone”. In Uno Bianca i testi sono quasi del tutto assenti. Tuttavia ho sempre avuto difficoltà a scollegare totalmente la tua musica dalle parole, perché non immagini la quantità di parole che viene fuori dalla mia penna dall’ascolto di Bologna Violenta. Come la mettiamo con questo aspetto della tua musica?
Eh… bella domanda… Penso che il tutto nasca dal fatto che sono cresciuto con la musica classica, soprattutto quella sinfonica e da camera (quindi molto poco cantata) e non sono mai stato molto legato ai testi delle canzoni. Mi sono sempre perso nell’ascolto dei suoni più che nel capire il significato dei testi. Quando devo fare musica mia non mi viene mai l’idea di metterci una voce o un testo per così dire “tradizionali”. Non amo cantare (e non riesco a ricordare i testi delle canzoni), ma mi piace mettere delle piccole parti parlate per dare un senso più compiuto a ciò che sto cercando di comunicare (vedi ad esempio “Morte” o “Maledetta del Demonio). Nell’ultimo disco ci sono poche parole, ma c’è la guida all’ascolto che è comunque una parte fondamentale dell’intero lavoro. Come dire, di testi ce ne sono, a volte sono poche parole, ma devo dire che spesso celano dei mondi molto più grandi di quello che può sembrare. Forse è semplicemente perché nella vita tendo ad essere logorroico, quindi nella mia musica cerco di essere sintetico.

Forse è troppo presto per parlare di bilanci, Uno Bianca è uscito da poco e tu sei a metà del Tour di promozione. In ogni caso, te la senti di dirci come sta andando? Si tratta di utopie o di piccole soddisfazioni?
Penso di poter tranquillamente parlare di grandi soddisfazioni. Il disco, pur nella sua complessità, piace molto alla gente e i concerti sono un momento molto forte, in cui il pubblico se ne sta in silenzio per quasi un’ora a guardare con attenzione e a subire la violenza che esce dall’impianto. Spesso a fine concerto scattano dei lunghi applausi a cui non sono davvero abituato e questo mi fa pensare di aver fatto un buon lavoro, che nonostante sia lontano da quello che la gente ascolta normalmente, riesce comunque ad arrivare al cuore di è presente al concerto.

C’è un’esibizione live che più ti ha emozionato finora o alla quale tieni particolarmente?
Questa è una domanda difficile… Ogni data è speciale per molti motivi e devo dire che questo tour mi sta portando anche in posti dove non avevo mai suonato, trovando un forte riscontro di pubblico anche nelle serate nei posti meno tradizionali. Le prime date, quelle all’interno del Woodworm Festival sono state molto impegnative da un punto di vista emotivo, almeno per me, visto che non sapevo assolutamente cosa avrebbe recepito il pubblico e se sarebbe piaciuto il nuovo spettacolo.

Rileggendo una tua intervista di un paio d’anni fa su Rockambula, ho sorriso di fronte alla tua risposta alla domanda “La tua paura più grande?” (Cito:  Ho paura che tutto possa cambiare da un momento all’altro e dover ripartire. Di nuovo (…) Vorrei un po’ di tranquillità). Sei riuscito a trovare la tranquillità che ti eri augurato qualche tempo fa?
Ricordo quell’intervista e ad oggi non mi sembra che le cose siano molto cambiate. C’è da dire che sto lavorando molto, quindi il periodo è assolutamente positivo, ma ho anche capito che quel tipo di tranquillità che ricercavo un paio di anni fa non è ancora così vicino come pensavo. Però molte cose sono cambiate nel frattempo, ho un’idea più chiara di chi sono e di cosa voglio e posso fare nella vita, quindi sono più tranquillo da questo punto di vista. Mi sono anche reso conto che le ripartenze fanno parte della mia vita (e penso anche di quella di molti), quindi ogni volta vado avanti senza pensare troppo al passato o a quello che è stato e cerco di dare il meglio ogni giorno.

Hai già nuovi programmi per il “post” Uno Bianca? Ci sono già dei progetti futuri in ballo?
Ho sempre molte idee che mi girano in testa, e sto anche pensando al “post” Uno Bianca, ovviamente. Attualmente sono impegnato su parecchi fronti, collaborando con vari artisti come arrangiatore, violinista o produttore, quindi tra il tour e questi vari lavori non ho molto tempo per pensare al futuro di Bologna Violenta, ma sto già cominciando a raccogliere materiale per quello che potrebbe essere il prossimo disco.

Grazie mille Nicola. Per concludere, c’è qualcosa che non ti ho chiesto, alla quale ti sarebbe piaciuto rispondere?
Grazie mille a te per lo spazio che mi hai concesso. Tengo solo a precisare che non uso synth e tastiere varie per ricreare il suono degli archi. Faccio delle lunghe session di registrazione in cui registro tutti gli strumenti. Giusto perché qualcuno parla di “tastiere” riferendosi agli archi…

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Inigo & Grigiolimpido

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Dopo i problemi avuti con la rete per il loro video che è stato bloccato per cause ancora da chiarire ma ora tornato di nuovo on line, il nuovo singolo della band capitanata da Inigo Giancaspro vuole raccontare più che denunciare, la vita e la società italiana di tutti i giorni vista da due punti di vista totalmente opposti. Il popolo contro il potere. Ecco la nostra intervista agli Inigo & Grigiolimpido:

“Baci Alla Repubblica”. Troviamo un nesso che vuole essere di critica e di denuncia. Addio alla Repubblica che fino ad ora ci ha delusi? Oppure sono baci di affetto e di speranza?
“Baci alla Repubblica” è una canzone che descrive, racconta, ma non giudica, pertanto i baci sono rivolti a tutti, belli e brutti, basta solo saperli riconoscere e il nostro pubblico a tal proposito è abbastanza sveglio.

La notizia di questa “censura” ha fatto molto parlare. Prima oltre 30 mila visualizzazioni e poi misteriosamente scomparsi da YouTube. Ora di nuovo on line. Come mai secondo voi?
Ce ne siamo preoccupati per poco tempo, ipotizzando una censura cautelativa per alcune scene. Ad esempio ho appreso da questo episodio che su youtube non si possono caricare video con scene di uso di stupefacenti, questo potrebbe essere un motivo. Ad ogni modo una volta che il video è tornato online, abbiamo dismesso impermeabile e lente d’ingrandimento.

Inigo & Grigiolimpido2

L’informazione libera: chimera o in realtà è un filtro contro tante cattive notizie?
Ogni medaglia ha il suo rovescio. Hai presente quando metti una mano sul ghiaccio e dopo un po’ ti senti bruciare? Ecco per l’informazione oggi succede più o meno la stessa cosa. Auspichiamo un’informazione libera, vera, non strumentalizzata e questo è sacrosanto, ma l’esasperazione di questo concetto porta all’esatto contrario. Tutti si sentono improvvisamente giornalisti, politici, tecnici, economisti, critici musicali e cinematografici, etc. Questo crea un livellamento verso il basso dell’informazione stessa. Quindi, informazione libera va bene, ma libera di dire cazzate… non saprei.

Questo nuovo disco degli Inigo & Grigiolimpido racconta dei ragazzi di oggi e della vita in un’Italia che piace sempre di meno. Vi sentiti dei “moralizzatori” o dei semplici osservatori?
Moralizzatori lo escluderei a priori, è difficile provare ad esserlo con se stessi, figuriamoci col mondo intero. Osservatori va decisamente meglio, scrivendo personalmente i testi delle nostre canzoni è giusto e naturale che io prenda tutto ciò che posso dal mondo che mi gira intorno, cerco di fare delle fotografie, se poi non c’è il sole sullo sfondo, però, non le ritocco con photoshop.

A giochi fatti, cosa cambiereste di questo disco?
Il budget a disposizione per la produzione e per la promozione. A parte quello, nient’altro in senso assoluto. Ogni disco è figlio di un momento storico di una band o di un cantautore e non è che siccome in un certo momento va di moda altro bisogna adattarsi come pecore. Quando e se un giorno andrà di moda il nostro modo di fare musica saremo stati dei precursori e chissà magari sarà quello il momento giusto per iniziare a fare altro.

E dopo Controindicanzoni? Regalate agli amici di Rockambula qualche indiscrezione…
Un nuovo singolo in uscita prima dell’estate. E poi testa bassa e pedalare verso nuovi orizzonti.

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Borghese

Written by Interviste

Il centro Italia come fucina di validi artisti è uno dei paradigmi musicali, che negli ultimi anni si sta configurando e imponendo, non solo come opinione personale, ma anche come sostanziale realtà di successo. Fa parte di questa ondata di freschezza un artista che, tra le pagina di Rockambula e non solo, ha riscosso un notevole interesse, che sta girando l’Italia con una serie di live show, è prossimo alla ristampa del disco e molto altro ancora. Conosciamo meglio Borghese e il suo album L’Educazione delle Rockstar.

Partiamo dalle domande semplici: una pistola, un passamontagna e una 24 ore, sono questi gli oggetti che hai scelto per raccontare l’immaginario di Borghese. Da cosa nasce questa scelta e cosa rappresentano per te questi oggetti?
La 24 ore è il simbolo di quello che sono nella parte della giornata in cui non mi occupo di musica, diciamo una metafora della quotidianità che ognuno a modo proprio cerca di sublimare o di sfuggire. Il passamontagna è una scommessa aperta con un sedicente produttore con cui ho avuto a che fare prima di entrare in TouchClay Records, il quale diceva, riferendosi alla mia musica, che c’era bisogno di una certa faccia per avere dei risultati in musica; evidentemente non alludeva alla mia. Ho pensato di uscire col mio progetto allora senza alcuna faccia: una provocazione e al tempo stesso una sfida.  La pistola giocattolo è il trait d’union di tutto: mi sentivo un infiltrato in clandestinità nel mondo della musica che come arma poteva disporre solo della voglia di giocare e un certo sense of humour.

Prima abbiamo citato il passamontagna; per Borghese l’anonimato e il mascheramento sono il simbolo della spersonalizzazione dell’individuo e della dissimulazione della realtà o un semplice espediente visivo per catturare e colpire l’attenzione di un pubblico distratto?
Come ho già detto la mia era solo una provocazione ad personam, principalmente una rivalsa nei confronti di una concezione estetizzante della musica, che oramai reputo superata (e persino stupida se proposta da un soggetto organico allo show business come può essere un produttore). Solo in seconda battuta il significato è stato dall’esterno globalizzato e politicizzato: mi sentirei di dire che la valenza sociale del disco è stata “eterodiretta”. All’oggi, dopo sei mesi di concerti, di interviste e recensioni, e dopo che nessuno, tranne quelli che sono venuti in concerto a vederci, mi ha visto in faccia, mi piace il fatto di poter essere in un certo senso un Dottor Jekyll and Mister Hyde, uno Spiderman che ad un certo punto della giornata dismette i suoi abiti e diventa qualcosa di più affascinante. In pratica così facendo sono diventato un clandestino nella mia stessa vita.

In questi giorni è uscito “Bella Ciao”, il secondo singolo dell’album. Oltre a farti i complimenti per il passaggio su XL, mi piacerebbe sapere come è nata l’idea di riscrivere uno dei capisaldi, di quelli intoccabili, della tradizione musicale della lotta partigiana, tramutandolo in una dichiarazione di guerra contro la società moderna? Hai avuto più detrattori o sostenitori?
Più che un passaggio su Repubblica è stata un’autostrada percorsa con un TIR carico di tritolo: il nostro articolo ha fatto quasi 900 mi piace e diverse migliaia di visualizzazioni, molto di più di quanto abitualmente riesce a fare un emergente al primo disco: evidentemente il pezzo (lo ricordo per non passare per presuntuoso, non riscrive la “Bella Ciao” partigiana ma ne usa il titolo e le prime cinque note della melodia per parlare della fuga delle nuove generazioni dall’Italia) ha colpito forte un problema che ogni ventenne sente proprio. In quel pezzo, forse il più distorto di tutto il disco, rifletto sul concetto di fuga e di liberazione e come in Italia per una ragazzo oggi siano quasi coincidenti: per molti scappare da questo paese è una liberazione, non è un’alternativa, ma una necessità. Qualche polemica in effetti c’è stata, anzi qualcuno mi ha pure mandato a quel paese (per rimanere in tema), ma non mi stupisce, lo avevo messo in conto e in fondo anche cercato. Quelle due parole in Italia sono un dogma assoluto, che viene usato per manifestare oramai solo antagonismo di facciata; quei due o tre contrari saranno gli stessi a cui, dopo 20 anni di anti-Berlusconismo all’acqua di rosa, (di quell’antagonismo radical che si tura il naso quando sente l’odore forte del popolo), sta bene che due extraparlamentari (Renzi e mister B) di cui uno pregiudicato (Mister B.) scrivano la nuova legge elettorale nella sede del Pd.

Un altro brano che mi ha colpito subito al primo ascolto è L’Odore. Una contraddizione in termini in forma canzone: tematica forte e di denuncia contro la sensibilità delle parole e la delicatezza della musica. Un contrasto voluto, una scelta stilista o solo fortuna?
Contrasto voluto, of course, “L’Odore” parla di una vita sotterranea e scura, parla di segreti inconfessabili, di passioni che si dipanano nel buio. Parla di una relazione immorale, di un amore impraticabile che nonostante non possa essere esplicitato diventa insuperabile e poetico, proprio nei suoi lati più fisici, come appunto l’odore. Comprendo che è un pezzo che possa piacere molto ad una donna; le donne hanno un interiorità molto intricata, un’altra faccia della luna molto marcata, albergo di fantasie che tengono ben strette e che coltivano in segreto, rendendole sempre più magiche, quasi esoteriche. L’uomo no, l’uomo è un animale e basta, lo è da quando aveva una clava tra le mani e forse lo è ancora di più da quando impugna un iphone. Sono un femminista convinto, lo sapevi?

Abbiamo parlato molto dei testi e meno degli aspetti musicali. Sei uno di quei cantautori che compongono da sé anche la musica o ti sei affidato a dei collaboratori. Come nasce una canzone di Borghese?
Le modalità sono tre e mi permetto di elencarle dandomi la terza persona in senso di altera supponenza e rigido contegno. Borghese esce di casa di sera, beve e tornando a casa appunta i pensieri sghembi. Modalità due: Borghese esce di casa, prende un aereo o un treno per un viaggio e appunta tutto quello che succede in testa, mentre il terreno si muove sotto il suo culo (sono appena rientrato dalla Cambogia, quindi annuncio che il secondo disco è già praticamente scritto). Modalità tre: Borghese guarda una sit com in tv, appunta una battuta e riflette sul tema. Per quanto riguarda l’arrangiamento, in sala o in studio mettiamo a confronto le idee tra me, Giacomo Pasquali (chitarrista e deus ex machina della TouchClay Records) e Daniele “Verz” Domenicucci, drummer nonché ingegnere robotico nei ritagli di tempo.

Rockit ti ha definito un cantautore fuori moda e prossimamente aprirai un concerto de Le Luci della Centrale Elettrica; come ti poni all’interno del panorama Indie italiano e nei confronti dei tuoi colleghi cantautori. Ti definiresti più una mosca bianca o una pecora nera?
Cercherei di non farmi accostare ad alcuna pecora, non è un animale molto popolare dalle parti nostre (Abruzzo ndr). Le pecore le infilziamo con dei bastoncini e ce le mangiamo. E nemmeno alle mosche che come è noto hanno molta affinità con le deiezioni organiche. Preferisco, se proprio devo essere associato ad un animale, preferisco essere me stesso, l’unico uomo che amo, nonché l’unico animale che viva con me dentro casa mia.

L’arte della provocazione e dell’ironia sono il tuo biglietto da visita, ma quanta rockstar e quanta ideologia ci sono, se ci sono, dietro Borghese?
Forse in realtà non c’è né la rockstar né l’ideologia in me e questo mi solleva un po’, considerato che sono due categorie vecchie su cui ormai si può e si deve scherzare su. L’ironia mi appartiene davvero, il distacco ironico è fondamentale nel mio approccio alla creatività ed alla giornata stessa. Senza la buona dose di ironia pensi che ci sia qualcuno che oggi potrebbe mettersi una cravatta senza sentirsi un cappio al collo, un camice senza sentirsi un macellaio o una tuta da lavoro senza sentirsi uno schiavo? Ci vuole molta ironia per vivere il presente di questi anni.

Ringraziandoti per questa intervista non posso non farti il classico domandone finale, quali sono i progetti futuri di Borghese e dove possiamo trovarti o vederti?
Al momento siamo impegnati in studio, ci siamo messi in mente di ristampare il disco aggiungendo tre bonus tracks con collaborazioni (per gli amanti dei termini anglosassoni, featuring) con artisti che ci stimano e che stimiamo. Poi da metà di marzo ripartirà il tour che, come abbiamo fatto nei mesi scorsi, toccherà il Nord, il Sud di questa pazza Italia. Su internet siamo dappertutto: sul bellissimo sito (ad opera di Giuseppe Zaccardi) www.borgheserock.it , su fb: www.facebook.com/borgheserock.it. Inoltre se volete sapere di più su google potrete trovare tutta la corposa rassegna stampa de “L’Educazione delle Rockstar” visto che dal Manifesto al Fatto, da Rumore a Rockit hanno parlato tutti quanti, e bene, del nostro esordio.

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Medulla, tra teatro e poesia

Written by Interviste

I Medulla sono tornati con un nuovissimo disco autoprodotto (ascolta il disco!), un lavoro che oscilla tra realtà e finzione. Dark Rock e poesia, pensieri intimi e riflessioni personali questi i principali ingredienti che compongono il loro ultimo disco Camera Oscura, lavoro  dalle tetre tinte. Per Rockambula abbiamo l’intera band e con grande piacere siamo riusciti a strappargli qualche curiosità.


Salve ragazzi e benvenuti su Rockambula. Perché non cominciamo a presentare la band ai nostri lettori?

Salve a te! Innanzitutto grazie per lo spazio che ci concedete e che già ci avete concesso. Siamo una band milanese nata nel 2008, abbiamo pubblicato un disco nel 2010, Introspettri, ed eccoci qua col secondo in uscita in questi giorni, Camera Oscura.

Camera Oscura è il vostro nuovo disco ma cosa vi ha ispirato per la composizione, di cosa trattate fondamentalmente nei testi?

Ci ispira da sempre ciò che si muove dentro, quel mondo privato e celato in cui le ombre vivono e influenzano i nostri umori, comportamenti, insomma tutto ciò che poi si manifesta al di fuori di noi.

Nella recensione ho letto che vi definite Dark Cabaret/Cantautoriale Disturbato. Cosa volete intendere con queste due definizioni?

Dire che “ci definiamo” è una parola grossa! Cantautoriale Disturbato ci è stato affibbiato da Daniele Grasso, produttore siciliano. Ascoltando i nostri lavori ci ha detto queste due parole, io (Michele) ho subito ribattuto: “Non sono un cantautore”, ma lui mi ha risposto: “Scrivi quel che canti? Sei un cantautore.”. Come ribattere di fronte alla semplicità dei fatti? Per quanto riguarda il Dark Cabaret, invece, è tutto un mondo che viene fuori dal vivo. E’ stata più una definizione presa per cercare di spiegare cosa accade durante un nostro live, perché la domanda: “che genere fate?” è quasi più un incubo che altro. Ultimamente con un amico è saltato fuori anche il “dissociato”, essendo fuori anche dai target dell’Indie (che ormai è un genere più che uno status di indipendenza dalle major)…(ride)!!!!

Da chi o cosa sono influenzati i Medulla?

Le nostre influenze sono disparate, veniamo da 4 mondi diversi e con ascolti totalmente diversi, credo sia abbastanza improbabile riuscire a dire: facciamo questo perché abbiamo ascoltato musica simile nel corso della nostra vita.

A parer vostro quali sono le principali differenze tra Introspettri e Camera Oscura?

Crediamo che la prima cosa che salta all’occhio sia lo spostamento nelle retrovie della chitarra per metter in primo piano la parte di tastiere/synth/piano e il basso. Anche la forma canzone è stata semplificata (rispetto ad Introspettri) per permettere all’ascoltatore di focalizzare sui testi.


Il vostro look mi fa pensare molto al teatro parigino Grand Guignol; non so perché ma vedendovi mi date l’ impressione di quei personaggi tanto rappresentativi del teatro. Cosa dite, mi sono avvicinato a qualcosa che è di vostro interesse?

Michele ha un amore spropositato per il teatro e insieme abbiamo ragionato sulla nostra voglia di cominciare a creare un immaginario che non fosse solo suono ma anche, appunto, immagine. Quest’ultima serve forse ha spostare dal piano del reale tutta la nostra musica.

La Filastrocca è il vostro primo singolo, come mai avete scelto proprio questo brano?

Perché era quello che marcava uno scostamento dai compromessi. La canzone non è certo la più facilmente fruibile all’interno del disco, la filastrocca è tetra e parla della difficoltà del vivere una vita normale mentre dentro qualcosa non funziona come dovrebbe. E’ stata più una sfida con il pensiero. Tanto se cerchiamo di fare i “normali” non ci giochiamo nulla, puntiamo su un pezzo “degenerato”. E puntare su un ritornello che dice “Un ragno sospeso al filo di tela è un uomo che al collo un cappio si lega” è in questa direzione!

Sempre per questo singolo avete girato un video, perché non ci spiegate un po’ come sono andate le cose? Dove è stato girato e chi ha collaborato con voi per la realizzazione?

Dobbiamo ringraziare MelaZStudio e 2s2b Shutterbugs: Diego Alberghini, Giovanni Bottalico, Antonio Alberto Valdameri e “miss Wolf” Serena Borsieri. Hanno curato ogni dettaglio, ci hanno aiutato a realizzare quel che era un susseguirsi di sensazioni date dall’ascolto. Il girato è stato eseguito soprattutto presso l’ex manicomio di Mombello. Siamo legati a quel luogo, si respira molto di quel che raccontiamo nelle nostre canzoni. Anche questo disco mi sembra sia stato un autoprodotto, deduco perciò che siete in cerca di una casa discografica.

Avete avuto qualche proposta da qualche etichetta?

Certo, abbiamo autoprodotto anche questo disco. Al momento siamo colmi di debiti (ride)!!! Sinceramente non abbiamo neanche cercato l’etichetta. Sappiamo d’esser fuori target, e quindi perché andarsi a prendere le porte in faccia gratis quando possiamo pian piano raccogliere consensi dal basso? 

E del tour cosa ci dite, che date avete in programma, dove potremmo sentirvi nei prossimi giorni?

Tasto dolentissimo. Qui, le porte in faccia, ne stiamo prendendo e tante (ride)!! Al momento abbiamo tre date tutte qui a Milano e provincia. Speriamo che col passare del tempo e col passaparola si muova qualcosa.

Ultima domanda: a cosa puntano i Medulla? Quale è il primo traguardo che vorrebbero raggiungere?

Traguardi? Al momento è quello di aver la possibilità di farsi ascoltare, testare, masticare. Non siamo dentro un filone: e allora? Ricordiamo con piacere uno degli ultimi concerti della scorsa estate: il proprietario non ci ha certo accolto nel migliore dei modi ma poi a metà concerto è andato a comprarsi una delle ultime copie del disco e ha insistito per pagarlo. Abbiamo detto tutto.

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Lili Refrain

Written by Interviste

Una  promessa, ecco cosa è Lili Refrain; una ragazza dalle mille doti  che è riuscita, attraverso la sua musica, a estirpare ed emanare il  lato più oscuro e creativo della sua persona. L’artista è  riuscita  in poco tempo a pizzicare l’attenzione dei critici e degli appassionati. Tra una chiacchiera e l’altra siamo riusciti a scoprire particolari  davvero interessanti oltre ai dietro le quinte delle canzoni  di Kawax.

Ciao Lili e benvenuta su Rockambula. Direi di iniziare questa intervista raccontandoci un po’ di te: chi è Lili, quando e come è nata artisticamente, da chi è influenzata e quali sono le sue aspirazioni?
Ciao a te e grazie per questo spazio! Ho sempre ascoltato moltissima musica fin dalla primissima infanzia ed ho sempre associato a questo linguaggio la più potente forma di comunicazione, libertà ed evasione. Ho trovato recentemente delle foto di quando ero piccola e imbracciavo molto spesso una chitarra immaginaria facendo finta di suonarla, credo tutto sia iniziato da lì. Ho sostituito l’immaginazione con una chitarra in legno, corde e anima all’età di tredici anni e pur non avendo mai studiato questo strumento non me ne sono mai più separata. Lili è diventata una parte di me nel 2007 dopo diversi anni passati a suonare la chitarra in diverse band,  ha iniziato a prendere il sopravvento in tutti quei momenti in cui emozioni, pensieri e visioni hanno avuto la forte urgenza di uscire fuori, da quel momento è nato il mio progetto solista e ho iniziato a mescolare differenti generi tra loro creando il mio personalissimo diario di bordo musicale. A livello di influenze sonore c’è sicuramente il blues, la psichedelia, il metal, la musica classica e anche un po’ di quel teatro sperimentale dove la voce assume un ruolo prettamente gestuale. Le miei aspirazioni sono quelle di continuare ad ascoltare e fare musica a 360°

Kawax è il tuo nuovo album; per qualcuno le tematiche sono parse come un continuo di quelle del disco 9. Ma a parer tuo quali sono le principali differenze tra i due dischi in generale?
9 è un album molto più barocco e complesso dal punto di vista compositivo rispetto a Kawax, è decisamente più virtuoso a livello tecnico e anche un po’ dimostrativo in un certo senso. Dopo due anni dall’uscita del primissimo disco autoprodotto,  avevo  l’esigenza di spingere al massimo livello le potenzialità compositive della stratificazione sonora senza mai sfociare nel Noise, lasciando molto spazio alla melodia e ripercorrendo volutamente quella che è stata la mia iniziazione musicale. Non a caso è un album pregno di citazioni che omaggiano alcuni dei miei punti di riferimento soprattutto in campo chitarristico. Kawax vede la luce tre anni dopo, nel mentre si sono susseguiti centinaia di live sia in Italia che in Europa e sono accadute anche moltissime cose nella mia vita privata.
È un disco che nasce da esigenze totalmente diverse e durante un periodo abbastanza buio in cui ho vissuto dolorose separazioni. La necessità che mi ha portato a questo album è stata estremamente viscerale e meno cervellotica, visto il bisogno estremo di esorcizzare in modo più immediato e diretto ciò che mi è capitato in questi ultimi anni. Anche a livello sonoro sono due album molto differenti, Kawax si porta sicuramente dietro tutto il bagaglio dei numerosi concerti fatti prima della sua uscita e i brani eseguiti evocano molto di più le atmosfere del live rispetto a 9.

Come nasce un pezzo di Lili Refrain, hai qualcosa che ti da inspirazione?
Solitamente quando sento l’esigenza di scrivere un brano significa che c’è qualcosa che non va. Quando  si è felici non si è molto ispirati perché tutte le energie sono convogliate a gustarsi quel determinato momento di gioia, io per lo meno cerco di gustarmeli un bel po’ quando capitano. Un mio brano nasce quindi da momenti meno luminosi, più riflessivi e scomodi emotivamente al punto da sentire la necessità di tirarli fuori in qualche modo, è un atto necessario, è come un esorcismo. Mi chiudo in una stanza e non esco finché non sono esausta, è una grande fortuna per me che in quella stanza ci sia un amplificatore e una chitarra, sarebbe potuto andarmi molto peggio!

In Kawax troviamo anche la partecipazione di alcuni ospiti d’ eccezione: gli Inferno Sci-Fi Grind’n’Roll; come è nato l’ incontro e perché hai scelto proprio loro?
Gli Inferno li conosco da moltissimi anni, soprattutto Valerio Fisik che oltre ad essere un chitarrista è anche l’eccellente fonico con il quale ho registrato tutti e tre gli album che ho prodotto fino ad ora. Due anni fa abbiamo deciso di partire insieme per un lungo tour in Europa e ci siamo tutti profondamente legati, la loro presenza era d’obbligo in quest’album, soprattutto in “Tragos” che molto spesso abbiamo eseguito insieme dal vivo proprio durante il tour. Oltre a loro ci sono anche altri due ospiti d’eccezione che sono Valerio Diamanti, il batterista dei Dispo che suona la batteria in “Baptism of Fire” e Nicola Manzan aka Bologna Violenta che ha impreziosito il brano finale con degli splendidi archi.

Anche la copertina di Kawax  è interessante, chi l’ha realizzata e perché hai scelto proprio quell’immagine?
Il disegno è opera di un’artista argentina che vive da anni a Roma e di cui ho sempre apprezzato moltissimo il lavoro, si tratta di Fernanda Veron che ho avuto modo di conoscere molto più a fondo grazie alla collaborazione con questo album. L’immagine rappresenta un sogno che ho avuto in un momento piuttosto difficile, avevo da poco perso mio padre e sono sprofondata in uno stato abbastanza buio d’esistenza, è una sorta di minotauro che è venuto a trovarmi nel tentativo di indicarmi l’uscita dal labirinto. E’ un’immagine per me molto evocativa, potente e anche estremamente positiva perché mi ha permesso di attivarmi e smuovere ciò che sembrava irrimediabilmente pietrificato in quel determinato frangente.

Invece della Subsound Records e Sangue Dischi cosa ci dici, come è nata la collaborazione?
Davide e Luca sono due persone che apprezzo e stimo moltissimo ed è per me motivo di estremo giubilo averli insieme in questo viaggio. Con Davide desideravo collaborare da tempo perché ritengo che con la Subsound faccia davvero un eccellente lavoro e avere una label che ti sostiene così tanto lavorando costantemente insieme è qualcosa di meraviglioso per un musicista, soprattutto per me che non avendo un gruppo ho sempre provveduto a tutto per conto mio. Luca lo conosco da anni e abbiamo condiviso palchi e collaborazioni, era diverso tempo che mi proponeva di fare uscire un disco con la sua etichetta e alla fine ce l’abbiamo fatta, questo è il mio primo vinile ed è una soddisfazione pazzesca!

Una domanda a bruciapelo: nella recensione ho detto che molto probabilmente i film sulle streghe di Dario Argento con una colonna sonora alla Lili Refrain avrebbero fatto ugualmente una bella figura, ritrovandosi un interessante tocco sinistro diversamente inquietante rispetto a quello dei Goblin. Tu cosa ne pensi?
Non saprei, non riesco proprio ad immaginarmelo un Argento senza Goblin! Ricordo che da piccola quando mi capitava di ascoltare la colonna sonora di Suspiria e senza mai aver visto il film, mi cacavo sotto in una maniera incredibile! Mi faceva una paura pazzesca quel disco!
Non credo che la mia musica abbia lo stesso effetto terrificante… ma grazie per l’associazione!

Parlando della tua teatralità cosa ci dici? A chi ti rifai per questa?
Quando suono dal vivo sento la necessità di tener separata la mia vita ordinaria da quella stra-ordinaria vissuta durante un concerto. Ho bisogno di rievocare e rivivere determinate sensazioni per eseguire un brano in tutta la sua essenza. È questo il motivo per il quale Lili Refrain ha il suo trucco guerrigliero, i suoi simboli e il suo abito di scena. Se non lo facessi e non assumessi un “ponte” tra me e la mia musica, rischierei di perdermi a lungo andare, di compiere dei gesti meccanici privi di “anima”. Più che teatralità si tratta quasi di un vero atto sciamanico, ma in fondo i concerti dal vivo non sono forse uno dei più potenti rituali collettivi che ci capita di celebrare?

Ho notato alcuni show sul tuo canale Facebook, hai seguito un criterio per scegliere le date in cui suonare? Riuscirai a venire anche a Napoli?
Magari! Napoli è una città che adoro! La prima volta che ci sono stata sapevo esattamente dove andare ed era incredibile dato il mio pessimo senso d’orientamento, era come se la città stessa mi guidasse, spero di tornarci molto presto! Riguardo al criterio della scelta della date è del tutto punk, non ho alcuna agenzia alle spalle, le date le trovo quasi sempre da sola e dopo sette anni di e-mail mandate nell’ovunque e una quantità industriale di concerti sparsi in tutta Italia, ho la soddisfazione di ricevere spesso richieste da parte di chi organizza i live, l’abilità sta poi nell’unire i pezzi mancanti per creare un viaggio sensato, soprattutto quando si viaggia in treno! Insomma, dipende un po’ da cosa capita ma a Napoli conto di tornarci presto, anche perché ho un album nuovo da presentare!

Ho notato nei tuoi lavori che strizzi un po’ l’occhio all’esoterismo. Se è un tuo interesse come è nato, cosa ti ha fatto scattare la molla?
Esoterismo è un termine forse un po’ troppo abusato e delle volte viene chiamato in causa rischiando di confondere un po’ le idee.
Per quel che mi riguarda ho un’attività onirica decisamente molto intensa che mi ha portato a fare diverse ricerche nel tentativo di interpretare i simboli che mi apparivano di volta in volta. Ci sono una miriade di cose che conosciamo senza sapere di conoscere e non c’è nulla di esoterico o magico in tutto ciò,  si tratta di qualcosa di atavico, impresso nel nostro DNA dai tempi dei tempi, solo che abbiamo bisogno di input per destare la nostra memoria o almeno questo è quello che capita a me… i miei lavori sono profondamente connessi alla mia vita personale, ai miei sogni e credo di strizzare l’occhiolino molto più a loro che non ad altro.

Bene Lili, l’intervista si chiude qui, concludi come meglio ti pare…
Grazie ancora per quest’intervista Vincenzo, concludo lasciando un po’ di link dove è possibile ascoltare ciò che faccio e trovare tutte le date aggiornate dei miei prossimi concerti:

http://lilirefrain.blogspot.it/
http://lilirefrain.bandcamp.com/album/lili-refrain
https://www.facebook.com/lilirefrain
http://www.youtube.com/shippinghead
http://subsoundrecords.it/
http://sanguedischi.com/

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Le Fate Sono Morte

Written by Interviste

Ciao ragazzi, cominciamo dal principio: chi sono le Fate? E come sono morte?

ANDREA: ciao, Le Fate Sono Morte sono cinque ragazzi che vivono tra Milano e Varese e hanno deciso di fare musica e di creare un progetto personale che potesse esprimere al meglio i propri sentimenti e pensieri. Andrea (voce e chitarra), Giuseppe (batteria), Daniele (violino), Riccardo (basso), Federico (chitarra). Le fate, in fondo, non sono mai morte per noi; il nome sta a rappresentare la fine delle illusioni giovanili, ma allo stesso tempo l’inizio di una crescita interiore. La band si è formata nel 2008 con svariati cambi di formazione che ha portato sino a quella attuale. In realtà per noi la parola morte nel nome non deve esser presa come negativa ma un pensiero positivo che ti possa far pensare che la fine non sia una vera fine ma un nuovo inizio.

Il vostro ultimo album s’intitola La Nostra Piccola Rivoluzione. Di quale piccola rivoluzione stiamo parlando? Che cosa è realmente cambiato dopo l’uscita di questo disco?

PEP: il titolo del nostro album ha un duplice significato. Il primo inteso come rivoluzione nel senso di riuscire a registrare un disco in modo indipendente, senza l’appoggio di nessuno se non delle persone che da anni ci seguono, ci supportano e ci vogliono bene. Il secondo ha un significato più profondo. Quest’album tratta di rivoluzioni personali che, seppur piccole, possono cambiare le nostre vite. Ognuno di noi ha dei sogni e il fare di tutto per realizzarli può portare a una svolta epocale nelle nostre piccole esistenze. Dopo l’uscita del disco è cambiato l’interesse della gente nei nostri confronti, che di giorno in giorno capisce il nostro messaggio e ci supporta e di questo siamo loro sempre più grati. Speriamo di vederli sempre più numerosi ai live.

Leggo sul vostro sito che attingete il vostro suono dal Cantautorato, dal Rock nostrano, dal Post Grunge e dal Pop. Ci fate qualche nome in particolare? Chi sono i vostri riferimenti?

ANDREA: noi veniamo da svariate influenze essendo persone molto diverse una dall’altra e avendo anche età molto varie (18,23,24,32,35). I riferimenti a cui m’ispiro o da cui vengo influenzato posso dire siano band come: Le Luci della Centrale Elettrica, Giuliodorme, Marlene Kuntz, Afterhours, Giorgio Canali, Nadar Solo tra le band della scena underground ma non disdegno neanche i vecchi cantautori che hanno fatto la storia del nostro Paese o quelli contemporanei.

PEP: io amo tutti i gruppi sopra citati da Andrea ma al contempo sono un grande appassionato di elettronica/strumentale (Aucan o Tyng Tiffany per citare qualche band italiana, Crystal Castles, 65days of Static, ecc). Diciamo che dall’incontro di tanti generi differenti è nato questo disco.

Leggo inoltre che traete ispirazione anche dai libri letti. La cosa è molto interessante. Anche in questo caso, di che libri stiamo parlando? In che modo entrano a far parte della vostra musica?

ANDREA: esatto. Penso sia normale che ogni cosa ci possa influenzare, noi diamo molta importanza ai testi e alle parole; questo ci porta anche a leggere spesso libri e a vedere film, mostre ecc, Un po’ tutto aiuta, il cervello è una gran bella macchina che assorbe tutto, lo rielabora e crea uno stile personale. Penso sia così per tutti. Nello specifico, ho inserito il nome di Alda Merini a cui ho dedicato la prima canzone “A Parte il Freddo” in quanto per un periodo le sue composizioni sono state una specie di colonna sonora della mia vita. In un altro brano “In Ogni Mio Sorriso” mi riferivo alla poesia di Giovanni Pascoli “10 Agosto”.

Nel corso del tempo avete cambiato più volte la vostra formazione. Questo ha portato anche a un cambiamento del vostro sound? Se sì, in che modo?

ANDREA: durante gli anni le priorità delle persone e le vite chiaramente cambiano e così, a volte a malincuore, a volte per scelte differenti, abbiamo cambiato elementi della band. Il sound è cambiato perché siamo cresciuti, gli elementi che sono arrivati dopo hanno solo arricchito e reso possibile quello che era il sound a cui volevamo arrivare quando siamo partiti. In futuro cambieremo ancora ed è giusto sia così perché l’esperienza e la vita aiutano anche a migliorarsi o a seguire diverse idee.

La bonus track del vostro ultimo disco s’intitola: “La Storia Non Siamo Noi”. Si tratta per caso di una dichiarazione di guerra a De Gregori?

ANDREA: Ahahah, no direi di no. De Gregori è uno di quei cantautori a cui mi riferivo nella terza risposta. Più che altro è una presa di coscienza del fatto che in questo periodo siamo troppo presi da noi per riuscire a fare qualcosa, ognuno ha la sua storia che va troppo veloce e si fa fatica a pensare ad altro, siamo diventati tutti molto più egoisti negli ultimi anni, delusi, disillusi, si salvi chi può insomma. Il titolo dell’album poi riprende anche questo messaggio. Se ognuno di noi facesse qualcosa di buono nel proprio piccolo per questa società, sarebbe un altro mondo. Spero non sia solo utopia.

PEP: come dice Andrea il messaggio di questo disco è racchiuso soprattutto nei due pezzi finali “La Storia Non Siamo Noi” e “Niente”, al quale sono particolarmente legato. Dire “La Storia Non Siamo Noi”, non significa “non possiamo fare nulla per migliorare il futuro”, ma anzi “la storia non sta nell’individualità e nell’egoismo dei NOI intesi come singoli, ma nella collaborazione, bellissima parola ormai in disuso”.

Dalla vostra musica, dai vostri testi, dai vostri video, emerge un pessimismo denso, una nebbia fitta nella quale è avvolta tutta una generazione, quella che voi e qualcuno prima di voi ha collocato negli “anni zero”. Oltre a constatare questa dura realtà, c’è un modo in cui pensate di combatterla?

ANDREA: più che pessimismo cerco di esser realista. Con gli anni e crescendo sono diventato molto più positivo e credo in un possibile miglioramento di questa situazione, ma su larga scala non saprei in che modo poter migliorare questo mondo, quindi mi limito a cercar di fare il mio ed esser sempre il meglio di quello che posso essere. Cerchiamo di trasmettere, per noi è fondamentale arrivare alle persone e riuscire a far provare qualcosa.

PEP: diciamo che ci limitiamo a descrivere una situazione, quella nella quale noi e tanti altri giovani vivono oggi. Non è un pessimismo fine a se stesso, come detto prima. C’è sempre un soffio di speranza in ogni canzone, una luce alla fine di questa fitta nebbia.

Il vostro logo rappresenta una fata trafitta da una penna che, immagino, le tolga la vita. Il messaggio che ne traggo è che date molta importanza alle parole; per voi possono avere anche un significato mortale. Qual è il messaggio che invece volete trasmettere?

PEP: come dici tu, per noi le parole hanno una potenza incredibile. Sono più forti di un pugno, più violente di qualsiasi gesto, quindi possono fare male. Ma questa potenza può essere usata anche per aprire gli occhi alle persone. Trafiggere la fata vuol dire uccidere le illusioni giovanili. Ma penso che anche dalla disillusione non debba automaticamente nascere un pensiero pessimista (anche se può sembrare quello più scontato). Questo però è un discorso ampissimo, se volete andiamo a prenderci una birra e ne parliamo per ore!

Siamo giunti alla fine. Per concludere, quale domanda importante non vi ho fatto, alla quale avreste voluto rispondere?

PEP: “Siete davvero convinti che non diventerete niente?” Forse, ma noi ce la stiamo mettendo tutta per diventare grandi e forti insieme, alla faccia di chi continua a lanciarci fango addosso.

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Funkin’ Donuts

Written by Interviste

Come promesso i Funkin’ Donuts vengono intervistati da Rockambula, un sound tra Red Hot Chili Peppers e James Brown. Essere emergenti al tempo di internet non è poi così facile. Ecco a voi i vincitori del nostro contest AltroCheSanremo Vol. 6.


Cosa sono i Funkin’ Donuts? Parlateci di voi… In poche parole?
I Funkin’ Donuts sono il Funk Rock visto e reinterpretato da quattro ragazzi di Roma. Sono il ricordo del basso di Flea dei Red Hot Chili Peppers unito ai riff alla Tom Morello dei Rage Against The Machine, passando attraverso un cantato che cerca di avere lo smalto e l’efficacia di James Brown, tutto questo condito con una batteria dotata contemporaneamente della leggerezza del Funk e della pesantezza del Rock.

Dalla recensione sulle nostre pagine emerge un sound Funky acerbo e con arrangiamenti raffazzonati ma di grande impatto. Fate una brevissima recensione dei vostri suoni?
Nella nostra musica convergono, come detto sopra, caratteristiche abbastanza precise. Ondeggiamo tra il Funk Rock dei primi Red Hot e la musica dei Rage Against The Machine, senza disdegnare un po’ di Funk tradizionale che ricorda vagamente James Brown. Ci piace suonare queste diverse sfumature e unirle magari all’interno di un’unica canzone, dove ad esempio può capitare una chitarra Funky che si trasforma in una chitarra pesantemente distorta, oppure un basso che passa da giri più elaborati a giri di accompagnamento più propri dell’Hard Rock.

Parliamo indiscutibilmente di un autoproduzione, pensate sarà facile (o difficile) trovare un adeguata produzione ai vostri futuri lavori? Perché?
Non è una questione che ci siamo ancora posti. Funk Tasty KO rappresenta la nostra voglia di mettere nero su bianco i nostri primi lavori ed è stato fatto nel box di Simone, il chitarrista, in modo del tutto autonomo, senza l’appoggio di nessun altro all’infuori di noi quattro. Gli evidenti limiti tecnici e di strumentazione dovuti ad uno studio di registrazione che il nostro Simone ha tirato su da solo e dal nulla, ci hanno permesso di osservare i nostri limiti come musicisti, per cui ci sembra molto più formativo continuare a registrare in questo modo, più che altro per migliorarci nell’eseguire e nel creare musica, e cercare di tirare fuori da noi quattro il massimo in quest’unico contesto, almeno finché non ci sarà la cosiddetta “grande occasione”. Comunque, per rispondere alla domanda, non sappiamo se sarà facile o difficile semplicemente perché ancora non ci siamo ancora posti il problema.

Cosa significa essere emergenti nel duemilaquattordici?
Essere un gruppo emergente oggi vuol dire sbattersi tra serate live, pagine Facebook, purtroppo contest ed un mondo fatto di uffici stampa ed etichette indipendenti. Le serate sono l’elemento più gratificante, ma ci sarebbero diversi “localari”, gestori di locali, che andrebbero presi e attaccati al muro. La cosa accomuna anche chi organizza e pensa alcuni contest, concorsi musicali, dove non è importante come suoni, quanti calli ti sei fatto nel provare e riprovare i pezzi o se hai una presenza scenica che farebbe impallidire James Brown se fosse ancora vivo (Dio l’abbia in gloria), ma solo quante persone riesci a portare al loro fottuto evento. In breve, ai nostri giorni, come un gruppo riesce a “vendersi” tramite canali alternativi alla musica che propone, conta molto di più.


Internet gioca un ruolo fondamentale per le band emergenti oppure è solo merda? Vi sentite danneggiati oppure aiutati dalla musica virtuale?
Il potere divulgativo di internet è innegabile e saremmo degli ipocriti a sostenere il contrario. Ci piace interagire sui social network con tutte quelle persone che hanno piacere a partecipare alla nostra musica, ci piace che sia possibile raggiungere noi e le nostre canzoni direttamente online. Detto questo, siamo comunque i primi, ogni volta che ce n’è occasione, che hanno piacere a comprare gli Ep o gli album dei gruppi che andiamo a sentire, piuttosto che ridurci a sentirli online, semplicemente perché troviamo sia un giusto e doveroso riconoscimento per tutti quei ragazzi che fanno musica. Anche qui, per riassumere, internet è un mezzo divulgativo, ma la musica va ascoltata su disco o, meglio ancora, live.

Trovate problematiche nel procurarvi serate live nei locali? Pensate anche voi che in Italia suonano sempre le stesse band?
Nel colloquio con i gestori dei locali romani, l’80% delle volte ti ritrovi a rispondere all’unica domanda che desta loro preoccupazione: “Quante persone mi porti?”. In quel preciso istante sta a te decidere se instaurare un tavolo di trattative, cercando, da bravo PR improvvisato, di fare una mera previsione sull’esito di quante entrate ci saranno, o semplicemente ricordare, a chi ti sta di fronte, che dovrebbe essere lui a preoccuparsi di sponsorizzare l’evento per far sì che il locale che gestisce sia pieno. Non ci sono, quasi più, direzioni artistiche che valutino veramente la musica che viene proposta loro, ma ci si accontenta di far suonare chiunque abbia un seguito e così è probabile che al tuo posto venga scelto il gruppetto di quindicenni che si porta dietro l’intera scuola. Bene così. Per ciò che riguarda la musica live fuori da Roma, pensiamo, che il panorama sia abbastanza vario di band e generi musicali.


Siete di Roma, parlando con altre band della capitale sono venute fuori molte difficoltà per la band del posto a farsi notare, come se una sorta di cerchia ristretta comandasse il “mercato” dei live. Insomma se non conosci non suoni nei posti che contano. Tutto vero?
Abbiamo già espresso una nostra idea su quali possano essere le difficoltà effettive di suonare a Roma. I locali sono tanti e quelli un po’ più “importanti”, dove c’è una selezione sicuramente più esclusiva degli altri, si contano sulle dita di una mano. Suonarci non è poi così difficile, basta non pretendere un cachèt, accontentarsi di una pizza surgelata per cena e portarsi dietro i propri amici “costretti” a pagare l’entrata senza neanche una consumazione inclusa nel prezzo. Non crediamo sia questione di conoscenze o raccomandazioni, ma di… se vuoi/puoi.


Cosa vi inorridisce del sistema musica in Italia?
I prezzi degli uffici stampa.


Pensate che l’estero musicale sia più all’avanguardia?
Pensiamo solamente che all’estero sia più facile vivere di musica, da che cosa derivi questa nostra convinzione non lo sappiamo neanche noi, forse speranza in orizzonti diversi o magari solo invidia per i più alti livelli qualitativi che si riescono a raggiungere.


I Funkin’ Donuts al comando supremo della musica italiana. Decidete voi incondizionatamente cosa fare. Cosa fareste?
Mah… Probabilmente nessuno di noi ci ha veramente pensato. Quello che ci piace fare è semplicemente suonare: suonare live, suonare tra di noi in saletta, creare canzoni nuove. A livello pratico, il diventare “famosi” sarebbe solo un modo per poter far diventare questa passione un lavoro, e quindi ci permetterebbe di farlo ogni giorno, piuttosto che un paio di volte a settimana o nei ritagli di tempo. Quindi invece che fare tot concerti in un mese, o provare tot volte la settimana, potremmo fare tot concerti alla settimana e provare tra di noi ogni giorno. Beh, in effetti sarebbe bello…


Esisteranno delle situazioni imbarazzanti legate all’ambiente musicale in cui almeno una vota vi siete trovati a fare i conti, volete raccontarci qualcosa?
Una situazione particolarmente imbarazzante riguarda un concerto. Per quanto ridicolo possa sembrare, Tommaso e Simone, bassista e chitarrista, si erano messi nel camerino del backstage con Flavio, il cantante, con l’intento di spiegargli quando saltare (sì, saltare) durante una canzone, in modo da riuscire a farlo contemporaneamente. Insomma mentre stavano lì a saltare come degli idioti, un altro gruppo che avrebbe suonato in quella serata ha aperto la porta del camerino e li ha trovati che saltavano tutti e tre in uno stanzino chiuso. Grandi risate.


Domanda obbligata visto il periodo, cosa pensate del festival di Sanremo? E’ quella la musica italiana? Si potrebbe cambiare? Avendo la possibilità ci andreste mai?
Diciamo che noi quattro complessivamente avremo visto sì e no cinque minuti delle ultime sei o sette edizioni di Sanremo. Probabilmente il problema non è Sanremo ma la musica italiana. Sanremo è solo un palcoscenico dove viene mostrato quello che l’Italia offre, quindi se l’offerta è bassa non è necessariamente colpa del Festival. La verità è soprattutto che come musicisti e membri di un gruppo Rock non ci sentiamo rappresentati da un festival che privilegia la musica cantautorale (o che dovrebbe farlo), quindi, al di là d giudizi positivi o negativi sul festival in se, non lo consideriamo proprio. Certo se un giorno arrivasse Pippo Baudo a dirci che siamo richiesti sul palco dell’Ariston, non so se saremmo in grado di dire di no, se non altro per la storia che Sanremo rappresenta.


Cosa avete in progetto nell’immediato futuro? Disco? Concerti? Cosa?
La nostra priorità sono sicuramente i concerti. Suonare più possibile e in più posti possibile è la cosa più importante, perché la musica va portata fuori. La cosa più importante è far conoscere noi e la nostra musica. Dischi, videoclip e altre forme di comunicazione verranno sicuramente, ma saranno sempre subordinate ai nostri impegni live.


Ancora complimenti per la vittoria del nostro insolito e gratuito contest, in questo spazio potete scrivere tutto quello che vi passa per la testa, fare pubblicità e dire quello che non vi è stato chiesto ma che volete dire…
Concludiamo con poche parole e piuttosto che fare pubblicità a noi, facciamo pubblicità al nostro genere musicale. Ascoltateci per ascoltare un genere, assolutamente non originale o innovativo, ma comunque leggermente diverso da quello che ormai si sente in giro. Ciao!

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Boxerin Club

Written by Interviste

Intervista con una delle band italiane che più e meglio si stanno aprendo la strada per la fama a livello mondiale. I Boxerin Club.
Partiamo dalle presentazioni: chi sono le persone che formano i Boxerin Club, cosa fanno nei Boxerin Club, e, soprattutto, perché “Boxerin Club”?
I Boxerin Club sono in cinque: Matteo Iacobis (voce, chitarra acustica, elettrica e ukulele), Gabriele Jacobini (chitarra elttrica e ukulele), Francesco Aprili (voce e batteria), Matteo Domenichelli (voce e basso) e Edoardo Impedovo (tromba, tastiere e percussioni). Il nome Boxerin Club viene trovato per caso durante una partita di Taboo, circa 4 anni fa e si riferisce ad un pub in Scozia gestito da un cane addestrato di nome Tarzan, frequentato da soli cani, è inevitabile rimanere affascinati.

È da poco fuori il vostro Aloha Krakatoa. Presentatelo a chi non lo ha ancora ascoltato.
È il nostro primo disco ed è la raccolta di quasi tutti i pezzi che abbiamo scritto nell’anno appena passato, nel quale ci siamo divertiti a sperimentare sonorità World Music, provenienti dalla cultura brasiliana, afro-cubana ed orientale, mantenendo comunque un impianto Pop, fatto di armonizzazioni vocali, qualche distorsione nelle chitarre e cantando sempre in inglese, quindi mantenendo un filo conduttore con i nostri ascolti americani, inglesi e italiani.

Recensendo Aloha Krakatoa l’ho definito disco d’evasione, nel senso che mi è parso di capire che lo scopo primario della vostra musica, ammesso che ne abbia uno, chiaramente, sia divertire, stupire, e allo stesso tempo “coccolare” l’ascoltatore, ovviamente attraverso il vostro divertimento. Che ne pensate?
Sicuramente è un disco d’evasione. Durante la stesura dei pezzi avevamo sempre come obbiettivo quello di far evadere l’ascoltatore dal proprio contesto giornaliero e trasportarlo emotivamente in un posto che magari non aveva mai visto, rendendolo felice e allo stesso tempo stupito, speriamo di esserci riusciti.

Raccontateci come sono andate le registrazioni. Quanto ha influito sul disco la figura del produttore? Come avete organizzato i lavori, data la varietà di stili, strumenti, e mood che il disco incorpora?
È stato un processo molto faticoso ma allo stesso tempo estremamente stimolante. Tutto è iniziato a giugno scorso quando il nostro produttore Marco Fasolo, leader dei Jennifer Gentle, è venuto a stare da noi a Roma per fare un po’ di pre-produzione e registrare dei provini, quindi circa due settimane dopo siamo entrati in studio, a Vicenza. Il disco è stato registrato tutto in presa diretta e completamente in analogico, con alcuni strumenti e microfoni molto rari e datati; abbiamo deciso di agire in questo modo perché volevamo mantenere la complicità del live e al tempo stesso avere un sound molto nitido grazie alla registrazione su nastro.

Le vostre canzoni come nascono? C’è un’idea centrale (o una figura centrale, tra voi) da cui poi si sviluppa il resto? O, all’estremo opposto: lunghe jam e labor limae?
Lo scheletro dei brani viene creato da Matteo Iacobis e Matteo Domenichelli, successivamente realizziamo dei provini che ci passiamo per sviluppare le nostre idee tranquillamente a casa, poi con un po’ di tempo e pazienza in sala prove escono le canzoni.

La cosa che mi ha maggiormente colpito del vostro lavoro è la libertà d’espressione, l’abbattimento dei confini di genere, all’apparente inseguimento di una vostra personale visione musicale. Come nasce questo atteggiamento? È innato, naturale, o frutto di una ricerca o di una decisione presa a priori?
Abbiamo sempre avuto voglia di sperimentare grazie ai nostri ascolti, che sono la cosa di cui andiamo più fieri al mondo. La musica come qualsiasi altra forma d’arte è un modo per esprimere se stessi, ridursi a voler assomigliare il più possibile ad un artista che ti piace sarebbe riduttivo e sicuramente poco divertente.

So che avete avuto esperienze varie e molto soddisfacenti dal punto di vista del live. Avete girato da questa e da quella parte dell’oceano portando a casa ottimi risultati. Cosa combinate sul palco? Idee particolari, tradizioni strane…? Quanto conta l’aspetto live nel mondo dei Boxerin Club? 
Il live è la cosa a cui teniamo di più, sin dall’inizio, ci troviamo a nostro agio e ci divertiamo dall’inizio alla fine sempre. Negli ultimi due anni abbiamo girato molto e stiamo continuando a farlo, questo è il miglior modo per crescere come musicisti, come amici, ma credo sopratutto come persone, perché grazie ai ragazzi di Bomba Dischi e DNA Concerti con cui lavoriamo, abbiamo la grande fortuna di confrontarci con migliaia di persone e cercando di stabilire un contatto diretto palco-pubblico. L’America è uno dei paesi dove tutto questo succede in maniera totalmente naturale: l’ascoltatore è molto attento e curioso, sa divertirsi ma sa anche riflettere… non si trova lì solo per passare una serata, vuole essere parete integrante del concerto, per noi è stato così.

Raccontateci le tre cose più strane che vi sono capitate nelle vostre peregrinazioni.
Essere assaliti a Milano da due cretini entrati da dietro nel furgone in movimento alle 5 di mattina senza un motivo, aprire il concerto di Marina Rei senza saperlo, incontrare P. Diddy all’una di notte a Brooklyn che ti chiede di suonare per lui.

In chiusura, domande secche. Gli artisti più strani e meno “azzeccati” con cui vi hanno paragonato?
Devo dire che ci hanno sempre preso con i paragoni.

Il disco (o i dischi) fondamentali che dovremmo sentire per capire da dove arrivano i Boxerin Club.
Graceland di Paul Simon, Nacked dei Talking Heads e Swing Lo Magellan dei Dirty Projectors.

L’italiano “no, mai”?
No, mai.

Vi considerate, in qualche misura, un gruppo “psichedelico”?
A volte sì, sopratutto in studio, alcuni pezzi si prestano, altri no.

Per avere successo, secondo voi, serve di più essere capaci tecnicamente, avere idee originali, farsi il culo o essere rompicoglioni?
Tutto quello che hai detto, facendolo con il sorriso.

Voi pensate di avere tutte queste cose o ve ne manca qualcuna?
Pensiamo di dover fare ancora tanta strada, sicuramente ci facciamo un bel culo ogni giorno, sempre con il sorriso però (ride ndr)

Farete successo?
Non lo so e non so neanche se mi interessa.

Prossime cose che farete che volete si sappiano: concerti, dischi, ecc. Vai.
Presto usciranno dei nuovi video sia live che ufficiali. Il tour di Aloha Krakatoa è appena iniziato e sta andando molto bene, da qui ad Aprile ci sono 30 date e a breve avremmo anche il piacere di aprire il concerto de I Cani a Cesena, serata fra amici. Per il resto vi invito a consultare la nostra pagina Facebook che ci piace tanto aggiornare quotidianamente, cosi da poter rimanere sempre aggiornati su tutto!

Grazie per la disponibilità, alla prossima!
Grazie a voi per l’invito!

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Biagio Accardi

Written by Interviste

Abbiamo l’onore e il piacere di essere in compagnia di un grande artista, uno di quelli che sembrano sbucati da un passato remoto. Biagio Accardi, cantautore calabro, reduce dalla sua esibizione a Pratola Peligna (AQ) con il suo spettacolo Kairos, ultima tappa di gennaio del tour e abbiamo voluto con lui cercare di capire meglio la sua visione della musica e della vita.

Ciao Biagio, come stai?
Ti rispondo con una battuta di un grande cantastorie (Otello Profazio): “Tutti i grandi cantastorie sono morti; Rosa Balistrieri, Ignazio Buttitta, Orazio Strano, Cicco Busacca …ed io non mi sento tanto bene” …sono anni che fa questa battuta sul palco e pur avendo una certa età lo vedo in buona salute (dire questo gli serve come atto scaramantico ?!) … comunque anch’io non me la passo male … Anzi!

So che oltre ad esibirti a Pratola Peligna, sei stato anche nei bellissimi borghi abruzzesi di Anversa e Bugnara. Che ci faceva un calabrese ad Anversa?
Respiro aria buona (ride ndr)

Cerchiamo subito di capire meglio che tipo di musicista sei. Cantastorie, menestrello, folk singer, cantautore. Chi è, insomma, Biagio Accardi e che cos’è Kairos, il tuo spettacolo che, ricordiamolo, solo a gennaio ha toccato anche Cuneo, Reggio Emilia e Imperia?
Artista, suonatore, viaggiatore e autore di canzoni. Ricerco ed elaboro sonorità ispirate al panorama etnico-mediterraneo. Le composizioni sono un affresco poetico a tratti psichedelico e ipnotizzante e a tratti ammaliante per il suo forte e intenso potere nostalgico. Studio la società tradizionale e moderna dei luoghi in cui vivo, ho sempre cercato di promuovere eventi artistico-culturali votati a valorizzare il Sud. Anche se spesso faccio date al nord per l’appunto !!! KAIROS smaschera i nefasti sotterfugi legati al mondo del lavoro, gli ideali del falso benessere che hanno fatto perdere alla gente la semplice comprensione del bello e delle cose vere, togliendogli la possibilità di essere felici. Le politiche delle multinazionali, che ci controllano, ci annientano e letteralmente avvelenano la nostra vita, vengono spacciate come indispensabili per la crescita economica e per il nostro benessere. Invertire questo sistema è possibile, adottando uno stile di vita rispettoso dell’ambiente e iniziando ad allontanarsi dai vecchi e logori schemi politici, economici e sociali. Gli antichi greci utilizzavano due parole per definire il tempo: Kronos e Kairos. La prima parola si riferisce al tempo logico e sequenziale, mentre la seconda rappresenta un tempo di mezzo, un momento in cui qualcosa di speciale sta per accadere. “Kairos” rappresenta quindi il tempo propizio per agire, quel momento è ora!

Mi sono giunte all’orecchio alcune voci che raccontano di un Biagio Accardi che se ne va in tour per la Calabria girovagando per le piazze dei paesi sul dorso del suo asino. Mi dicono anche che viaggi solo ed esclusivamente in treno o comunque con i normali mezzi di trasporto pubblico. Il tuo è un rifiuto del progresso come lotta contro uno sviluppo incontrollato e devastante o piuttosto una scelta di vita personale, legata a fattori più intimi?
L’idea mi è nata leggendo un libro di Mauro Geraci dal titolo Le Ragioni dei Cantastorie e che parlava di Orazio Strano, uno dei più grandi cantastorie siciliani; partiva dalla sua terra con l’asino e il carretto per portare i suoi spettacoli perfino in Calabria e nelle Puglie. Questa immagine del cantastorie che girava di piazza in piazza mi ha spinto a volerla “restituire” nell’immaginario nella memoria collettiva. Subito mi è venuto in mente che avrei potuto farlo anch’io, così avrei potuto evitare di percorrere grandi tragitti che implicano l’uso di mezzi di locomozione. ..ma se proprio devo, preferisco il treno; ecologico, economico e comodo per leggere, scrivere e ascoltare musica.  “Per fare quello che a me piace non per forza mi devo spostare in poche ore da Palermo a Milano ..e neanche è detto che devo possedere un’auto per sentirmi realizzato …passo dopo passo, con la mia amica L’asina Cometina, calpestando terra e respirando polvere realizzo sogni, faccio ciò che mi piace e mi sento vivo…    già sono in viaggio!”

Spostiamo l’attenzione su cose meno impegnative. Parliamo della musica italiana attuale. Credi che un musicista come te possa trovare un suo spazio dentro la scena emergente e indipendente italiana (parlo di Tv, webzine, spazi web, web radio, locali di musica dal vivo) o sei, volente o nolente, relegato a un ruolo marginale come visibilità anche se non certo come espressione artistica? Qual è attualmente il tuo ruolo in questo senso?
La maggior parte del lavoro è svolto, in autonomia, dalla nostra associazione culturale Cattivoteatro. Poi ci sono delle realtà che ci supportano: Marasco Comunicazione, Video8 Calabria, Immaginerie, Suoneria Mediterranea, Rock Bottom Records e altri …ma la domanda “se c’è spazio per la mia arte nella scena emergente” dovremmo farla al pubblico e agli addetti al lavoro.

Come Biagio Accardi è diventato il cantastorie che stiamo imparando a conoscere? Ci sono stati momenti o eventi precisi che ti hanno spinto a prendere questa strada?
Sin da bimbo ho avuto un’attrazione per l’arte. Crescendo quello che mi ha attratto di più è stata la musica. Avendo avuto anche una formazione da operatore turistico ho cercato di mettere insieme le due cose, realizzandole in alcune strutture ricettive della mia zona. Mi occupandomi del lato ricreativo. Dopo c’è stato in me un conflitto interiore; non riuscivo a capire perché la gente andando in vacanza ricercava le stesse cose che aveva già quotidianamente … ho fatto una lunga pausa di riflessione, finché ho incontrato il Maestro Nino Racco con cui ho fatto vari laboratori e seminari. Racco ha messo insieme le tecniche cantastoriali con quelle teatrali della commedia dell’arte. Cosa che mi affascinò molto al punto di prendere spunto dal suo lavoro. Inoltre ho conosciuto di persona Otello Profazio che è il cantastorie che ha fatto più lavori discografici a riguardo.

A proposito, facci capire bene. Nella vita ti occupi di altro o sei musicista a tempo pieno? E comunque, pensi che nel 2014 si possa scegliere di essere musicisti professionisti (turnisti esclusi)?
Ho dedicato tutta la mia vita a questo mestiere e credo che continuerò a farlo fino alla fine dei miei giorni.

La tua musica è molto legata al teatro e alla teatralità. Non a caso Kairos è strettamente in contatto con l’associazione Cattivo Teatro. Di che si tratta?
L’ASSOCIAZIONE CULTURALE CATTIVOTEATRO è nata nel 2002 dalla commistione di svariate esperienze e competenze, il cui scopo sociale è la promozione e la realizzazione di spettacoli teatrali, convegni, manifestazioni artistiche, musicali, folkloristiche e letterarie, che abbiano carattere educativo. “Si propone in particolare la promozione di iniziative atte a sviluppare una maggiore coscienza socioculturale”. CATTIVOTEATRO è un’esperienza unica, che nasce dalla voglia di fare cultura fuori dagli schemi aberranti della cultura massificata e mercificata che nei tempi che corrono, ci opprime e ci aliena, essendo una non-cultura, una forma di ignoranza massificata. Laddove per ignoranza si intende appunto la mancata conoscenza. Mancata conoscenza di se stessi, mancata conoscenza del mondo che ci circonda. La cultura di massa che ci travolge è, infatti, mercato e basta.

Tra le tue tantissime avventure a spasso per l’Italia, ti sarà capitata una serie infinita di situazioni strane. Raccontaci l’episodio più divertente e grottesco che ricordi ma anche il più antipatico e brutto, quello che vorresti cancellare per sempre?
L’evento più grottesco è stato quando si avvicinò un signore dall’accento (ma anche di più dell’accento) partenopeo che mi contestava che non riuscì a capire bene lo spettacolo, colpevolizzando l’uso del dialetto in alcune parti. La cosa che mi stupiva è che il 70 % dello spettacolo è in Italiano; ho concluso, tra me e me, che forse non conoscesse che il suo dialetto …solo quello! Quelle più antipatiche e da cancellare per sempre sono state già rimosse!

La tua musica ha un forte valore culturale e sociale, soprattutto come strumento di preservazione e conservazione della memoria. La musica (e comunque l’arte in generale) deve sempre avere un ruolo sociale per essere scritta con la maiuscola?
Ne sono fermamente convinto ! …tutto il resto non è arte ma mero intrattenimento che si basa sul concetto di estetica e basta …ma non credo che sia questo il ruolo dell’arte e degli artisti.

La tua musica, oltre che influenzata dalla tradizione folkloristica italiana, sembra attingere anche al Folk più attuale e pare ispirarsi vagamente a band come gli Yo Yo Mundi o la Bandabardò. C’è questo nella tua formazione musicale? E cosa ti piace ascoltare abitualmente?
Abitualmente ascolto di tutto, ovvero tutto quello che ha un certo spessore poetico e culturale. Frank Zappa gira spesso in playlist!

Facci il nome di qualche band, magari emergente, che non dovremmo lasciarci scappare?
Magari, Adriano Bono e la Minima Orchestra oppure le fantastiche Honeybird o i giovanissimi Musicanti del Vento.

Che cosa distingue il Biagio Accardi uomo dal Biagio Accardi musicista e dove vedi entrambi tra vent’anni?
Li vedrei sicuramente, entrambi, negli stessi luoghi: tra la musica, sulle strade del mondo e fra la gente!

Ti faccio ancora i complimenti per l’esibizione che ho avuto il piacere di gustarmi. A proposito, si può portare anche musica come la tua fuori dai teatri e piuttosto nei luoghi di aggregazione giovanile come può esserlo il locale che ti ha ospitato?
Questa potrebbe essere una sfida stimolante!

Ciao Biagio con l’augurio di rivederci presto.

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Beppe Malizia e I Ritagli Acustici

Written by Interviste

Il Rap italiano non è quello che vedete su Mtv; su strade più o meno battute camminano artisti capaci, dopo tanti anni dalla genesi del genere, di riscoprirne alcuni dei valori fondamentali, musicisti in grado di ridare al Rap la dignità che merita, scavando nella sua essenza. Signore e signori, Beppe Malizia e I Ritagli Acustici.

Ciao ragazzi, come state?
Ics!

Mi permetto di iniziare con una domanda banalissima ma non posso non farvela. Beppe Malizia posso capirlo, ma I Ritagli Acustici che diavolo di nome è?
I ritagli acustici sono la prerogativa di questo progetto, perché in tutti i brani ci sono collaborazioni con musicisti differenti che hanno partecipato alla stesura musicale cantando o suonando strumenti diversi sui campioni assemblati da Beppe e prestando il loro operato, a loro volta come veri e propri “campioni”, al libero arrangiamento della produzione; ognuno di loro é stato uno dei ritagli acustici del progetto. In poche parole “ritagli acustici” é stata un’ esigenza di produzione e vuole diventare l’attitudine del gruppo. Poi suonava bene!

Da dove viene questo progetto (possiamo chiamarlo cosi?), quale è la sua storia, la sua genesi e dove pensa di poter arrivare?
Questo progetto (fai bene a chiamarlo così) è figlio di una collaborazione nata nel 2010 fra Beppe Malizia e il produttore Andrea Narratore, nello studio di quest’ultimo, il Bunker Café, studio dove fino a poco tempo prima Beppe ha registrato tutta la sua produzione musicale, antecedente quella dei Ritagli Acustici, fin dal 2002, sotto lo pseudonimo di Matiz Mc e, per il momento, la meta è sempre il disco a divenire.

Musicalmente siete molto vicini agli artisti che avete affiancato sui palchi italiani, da Frankie Hi Nrg a 99 Posse, da Mondo Marcio a Brusco. Eppure suonate comunque tanto diversi. Quanto Rap c’è nella vostra musica e cosa vi distingue dagli altri?
Il Rap é il comun denominatore di tutti i brani, per quanto riguarda questo progetto, e si distingue dagli “altri” per le caratteristiche capacità di adattamento ai diversi arrangiamenti musicali, un po’ come hanno fatto i Movits! in Danimarca.

Nello specifico, come descrivereste la vostra musica, quale ne è il suo processo creativo?
Ricollegandoci alla domanda precedente il rap nella nostra musica è proprio un processo creativo e, nonostante l’uso di musicisti, il workflow produttivo si discosta molto da quello di una band.

Oltre a I Ritagli Acustici, Beppe Malizia si fonde con The Acousticutz. Chi sono costoro?
The Acousticutz è stata una band nata circa tre anni fa, dall’esigenza di poter suonare live questo disco, anche all’infuori dei soliti spazi dedicati al Rap, di cui sopra. Questa formazione, cambiata ed evolutasi nel tempo, è ora la base dei Ritagli Acustici.

Quale ruolo avete occupato nel panorama indipendente italiano? Riuscite a vivere solo di musica?
Non viviamo di ruoli e non moriamo di musica. Lavoriamo per mantenerci e manteniamo la nostra musica. Stiamo investendo su noi stessi e non è detto che smetteremo mai di farlo.

Oggi sembra che le band emergenti possano imporsi solo attraverso le esibizioni dal vivo eppure, in alcune realtà, suonare live è diventato quasi impossibile. Locali minuscoli e non strutturati per la musica, impongono spesso situazioni fuori dalla consuetudine della band (come unplugged) a cachet ridottissimi, magari pretendendo anche che sia la band a fare promozione. Come uscire da questo tunnel?
Se parliamo di soldi, parliamo di commercio e quindi non più di musica fine a se stessa. Dunque a domanda segue risposta e di conseguenza molti gruppi dovrebbero suonare in spazi creati più per fare musica che per vendere aperitivi. Se non si porta un servizio non è giusto essere pagati. Quindi, per quanto riguarda gli spazi culturali, dovrebbero essere di più e meglio sostenuti, e chi vi suona essere ripagato anche dalla possibilità d’esprimersi in determinati contesti mentre, per quanto riguarda gli spazi commerciali, questi seguono la domanda ragion per cui il musicista che vuole camparci deve fare in modo di essere l’offerta, promozione compresa.

Tuttavia credo che sia anche giusto che la band si renda capace di crearsi un seguito; perché un locale dovrebbe spendere mille euro per un artista se poi non viene nessuno a vederlo? Come riuscite voi a crearvi un pubblico?
Da questo tunnel non se ne esce se non evitando d’entrarci. La band che non porta trecento persone non deve prendere mille euro, indipendentemente dalle capacità tecniche. Noi solitamente ne portiamo molte meno e infatti veniamo pagati molto meno. Quando non ne portiamo suoniamo anche gratis e, per suonare in un bel posto pieno di gente che non abbiamo portato noi, siamo disposti anche a pagare. Basta mettersi d’accordo prima del tunnel.

Molti collegano questo problema alla crescente presenza sulla scena di pseudo Dj e Tribute Band, capaci di riempire i locali senza troppi sforzi. Quanta colpa hanno loro? Veramente alla gente non frega nulla della Musica (con la M)?
Dj e cover band han solo la colpa di vendere il prodotto giusto e, credo, non con pochi sforzi e pochi investimenti. Chi invece dedica studio e creatività alla composizione della Musica (con la M maiuscola), non dovrebbe farlo per soldi.

Altra questione da affrontare è quella dei Talent Show. Non voglio mettere in dubbio il loro valore nella creazione di spettacolo e monetizzazione (le case discografiche hanno trovato la loro gallina dalle uova d’oro) ma piuttosto mi chiedo. Come fare per evitare che lo show venga confuso con la Musica? Come far capire ad un diciottenne pieno di talento che per arrivare in alto, la strada migliore non è quella di X Factor, che anzi può rovinarti per sempre?
Sia nel caso dei Talent Show che in quello della musica tradizionale o indipendente, la ricerca del successo comporta gli stessi rischi o le stesse scorciatoie; ciò che cambia è solo la rapidità con cui il processo si svolge. Un diciottenne PIENO di Talento non ha di questi problemi. Più talenti ai Talents.

Tornando a voi e parlando di talento. Cosa significa questa parola? Pensate che abbiate più talento o più cose da dire o i due concetti sono legati tra loro?
Il talento é una particolare predisposizione a fare una determinata cosa quindi, finché avremo qualcosa da dire ci toccherà farlo.

Perché in Italia sappiamo fare cosi bene Musica Leggera ma siamo quasi incapaci a fare Pop?
Ormai non crediamo più che sia così.

Che strada avete scelto per promuovere la vostra musica, trovare date, vendere cd, ecc…?
Dal digitale al territorio passando per Facebook, Twitter, Myspace, Souncloud, iTunes, Youtube, website, web radio, radio, riviste, webzine, associazioni, circoli, comuni, festival e rassegne. Ci manca solo l’agenzia ma stiamo valutando.

Di cosa parlano le vostre canzoni? E pensate che nel Rap come nella musica cantautorale i testi abbiano o debbano avere un ruolo più pesante che in altri generi, ovviamente non strumentali? La musica non dovrebbe parlare prima attraverso le note che le parole?
Le nostre canzoni parlano di bianco e di nero, di vita e di morte, di schiavi e di padroni, di odio e di amore. L’equilibrio della bilancia fra parole e musica per noi non ha regole. Balla di qua è di la.

Cosa vi distingue dalla nuova ondata di rapper per ragazzine, Emis Killa e tutti gli altri?
Ci distingue da questa ondata il fatto di non farne parte, per età innanzitutto e poi per tutto ciò che per età ne consegue.

Chi vive per la musica deve veramente inseguire il successo?
La nostra esigenza è quella di costruire la cosa migliore per le nostre capacità e rispetto ai nostri canoni e gusti, se sarà di successo tanto meglio, forse.

Nella scena Rap Underground di nomi ce ne sono tanti, alcuni validissimi come gli Uochi Toki, altri meno. Fate qualche nome, escluso quello di Beppe Malizia.
Non facciamo parte della scena Rap underground, ci escludiamo a priori, escluderei tanto più i Uochi Toki da qualsiasi etichettatura. Potremmo suggerire Kaos e Colle der Fomento, se si possono ancora considerare underground.

Fatevi un po’ di promozione. Un nuovo album dopo Bianco e Dal Cilindro, tanti  video e che altro in programma?
Un altro nuovo album, altri nuovi video e un nuovo sound, il tutto anticipato da un singolo rimasto nel cassetto con tanto di video ad illustrazioni.

A proposito, so che i tanti video non sono frutto del caso. C’è un filo conduttore che li lega. Spiegateci di che si tratta. E poi, come siete riusciti a far patrocinare i video di un rapper dal comune di Acqui Terme?
Abbiamo la fortuna di poter girare i video noi stessi avendo a disposizione il team bunker@work in casa. Il filo che li lega poi non è così spesso. In realtà sono legati gli uni agli altri da tante piccole scelte prese a priori: colore bianco e nero, location, personaggi del territorio, oggetti di scena e comparse dovevano ricorrere in più video. In più, invece che girare e montare ogni singolo video come al solito, prima li abbiamo girati tutti (ci son voluti 6 mesi) dopo di che siamo passati al montaggio.
Riguardo al patrocinio, beh, è bastato mostrare il nostro progetto e chiedere…

Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto. Poi, se volete rispondetemi.
Vi ritenete più musicisti, cantautori, rapper o altro?
Risposta: ALTRO!

Ringraziamo Silvio Pizzica e tutta la redazione di Rockambula.

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