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“Diamanti Vintage” Camel – Mirage

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L’europa, ma principalmente l’Inghilterra, è una esplosione incontrollata di formazioni e gruppi immolati alla musica Progressive che si perde quasi il conto, sigle, idiomi e quant’altro possa servire a far parte dell’armata Brancaleone di questo stile è ben accetto; un gruppo strabiliante e purtroppo mai riconosciuto come tale, sono i Camel con i loro suoni fiabeschi dove Elfi, Gnomi e creature inverosimili banchettano in una fantasia bucolica e volante molto personale, dove lunghissime suites prettamente strumentali fanno la differenza con le altre numerosissime band che affollano questo bengodi sonoro.

Andy Latimer chitarre e flauto ( che spesso cura anche la voce nei momenti sporadici), Peter Bardens tastiere, Andy Ward batteria e Doug Ferguson al basso arrivano con “Mirage” al secondo step della loro carriera, un lavoro si diceva arioso, polposo di tastiere e passaggi chitarristici che non appesantiscono mail la tramatura totale del disco, un viaggio “in silenzio” che pare attraversare boschi, declivi e praterie con il fruscio della psichedelica imperante del periodo, quel senso immaginifico di pace interiore che non inciampa nei barocchismi ampollosi che spesso vanno a griffare le anticipazioni su vinile di questo apparato atmosferico stupefacente; un disco luminoso, forte di quella scia solare che benedice il quartetto, e anche portato a prendere in visione il lato fantasy della letteratura per fonderla con un mood appropriato, grasso di particolari e vivo di accorgimenti colti.

Infatti nella stesura, i Camel prendono spunto “Nimrodel e le sue particelle” da Il Signore Degli Anelli di J.R.R. Tolkien, ma poi è una dolce bandanza di cavalcate e voli mentali che non si contengono, un ascolto talmente in alto e free che porta i sui massimali acrobatici nei ricami di Hammond che vibrano in “Earthrise” e nei svolazzi di flauto in “Supertwister”; la storia li scoprirà dopo decenni e questo è davvero imperdonabile, ma anche in quelle ere certe raccomandazioni esistevano già, gli inghippi delle major viaggiavano forte, tanto che una – senza far nome – fece da testimone alla multinazionale di sigarette Camel che denunciò la band inglese per plagio e sfruttamento di logo registrato e poi condannati ad un risarcimento cospicuo. Un disco dove regna una quiete affascinante ed un’eleganza compositiva e strutturale senza uguali, senza concorrenza. Da riscoprire vivamente.

 

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“Diamanti Vintage” Peter Hammill – The Silent Corner And The Empty Stage

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I Van Deer Graaf Generator si sono oramai sciolti e l’anima guida della formazione inglese, Peter Hammill, arriva al suo terzo e formidabile album solista, “The silent corner and the empty stage”, apice sonoro che chiude la tripletta dorata iniziata con “Fool’s mate” del ’71 e “Chameleon in the shadow of the night” del ’73, album in cui – nonostante la scissione di gruppo –  il resto dei VDGG continua a suonarci dentro, come a non lasciare da solo il capitano di quella astronave progressive che li aveva portati ad esplorare l’inesplorabile nei meandri di quelle decadi frastornatamente psichedelici.

Infatti Jackson, Banton, Evans e – come ospite – Randy California degli Spirit sono presenti in tutte le partiture di questo album inbastito da Hammill, ne scandiscono tutti gli sprint, le decelerazioni, le curve melodiche ed i deliri “astronomici” fino a disegnarne le fasi ellittiche e convesse di un nuovo trip di inestimabile valore; sette “parti sceniche”che si sbattono, si agitano e vanno a colmare grandi lucentezze liriche dove il progressive, quello di matrice drammaturgo psich, si inalbera e dilata in momento sonori di alto pathos poetico, quel fool thing in cui l’eroe Hammill ci si ritrova alla grande, quasi posseduto da uno sciamanesimo di grazia e ribellione.

Strofe, frasi, andamento incalzanti e declivi amorevoli di psichedelica ben costruita sono i panneggi adulterati che la tracklist conserva e sparge durante l’ascolto, niente nostalgie per i VDGG, piuttosto la propensione a superare i limiti – se limiti si possono chiamare – delle direttrici disegnate dalla sua band e, se proprio il superamento di queste ultime crediamo non sia il caso di starle a stigmatizzare, rimaniamo ben protetti da una prova discografica – differente – ma di livello divino, oltre la libertà delle proprie forze mentali e creative; lavoro molto definito, tonico nelle esposizioni sognanti, drammaticità e immensi respiri tra pianoforti, flauti, classicità e improvvisazione free si dilaniano una per una su di un ascolto frenetico e sbalorditivo, la fonetica stizzita “Modern”, l’intimità cosmica di “The Lie (Bernini’s Saint Theresa)” , il progressive centrato come un amore infinito “Forkasen Gardens”, la ballata acustica folkly “Rubicon” e la  potenza sobillatrice del rumorismo “The lie”, quando a fine ascolto rimane nell’aria un senso di beatitudine d’altri tempi che non vuole sparire per un bel po dal giorno rimasto.

Un sesto acuto indispensabile per le architetture Prog del tempo, un incunabolo discografico da collezionare per chi ama le cose semplicemente infinite.

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“Diamanti Vintage” Lucio Battisti – Anima latina

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Malandrino fu quel viaggio in Brasile e Sudamerica che portò il Lucio Battisti nazionale ad un travagliato parto di questo bel disco Anima Latina, un lavoro intenso, amalgamato in due contrapposti generi musicali, un antesignano lavoro world che comprende le influenze latine – poi assottigliate al minimo – e le vibrazioni personalizzate di tutto quello che dalla Canterbury del Nord arrivava come vento oltre i nostri confini.

Un disco possiamo dire sperimentale, ricco e nutrito di ELP, Genesis e quant’altro faceva Progressive; ma la fama di Battisti è stata anche quella di fagocitare nello spirito che lo pervadeva in quel dato periodo enormi patrimoni di stilemi e sonorità quali new-wave, disco, il prog stesso, molto di beat e abbastanza di R’N’B’ che, una volta rielaborati dalla sua fervida immaginazione, fuoriuscivano in un continuo gioco di sfumature capaci di scavare un solco pieno d’agio e novità stupefacenti per il tempo che correva.

Un Battisti più spirituale e meno cantante? Sì certamente, a pieno titolo, ed è qui che infatti l’artista lascia da parte la forma canzone strofa/ritornello/strofa per abbracciare il cantos senza paramenti, il volo libero del “cante jondo” che si libra su percussioni, cesellamenti armonici e sensibilità estrema fino allora – nella sua odiernità – mai adottate per quello che discograficamente conosciamo.

Al contrario però anche un lavoro poco accessibile – per chi non abituato a vedere e sentire il cantante di Poggio Bustone in queste vesti “alternative”,  per la stesura a tratti criptica dei testi, quell’oscurità che fievolmente affiora nelle sottotracce espressive, ma che una volta chiusi gli occhi, ti faceva immaginare e sognare cose distanti dal tran tran festivaliero che becchettava l’Italia della canzonetta; gli ortodossi drizzarono il pelo, gli innovatori lo acclamarono a tal punto che rimase in classifica per ben 65 settimane di cui 13 al primo posto della Hit Parade.

Non era poco per quel 1974 musicale che oramai si rivolgeva solamente all’esterofilismo d’avanguardia, il progressive d’oltremanica arrembava tutto il resto d’Europa e formazioni come King Crimson, ELP, Gentle Giant e vari erano gli alati eroi altolocati del nuovo rock e dettavano legge ovunque, ma questo grande capolavoro si conficcò in mezzo a loro come una spina nel fianco, e i dolori dei Golia – in un certo modo –  si piegarono al cospetto di questo Davide della storia sonora del nostro Paese.

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“Diamanti Vintage” Francesco Guccini – Radici

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Uno dei capisaldi della lunghissima discografia di Francesco Guccini, “Radici”, quarto album al centro di cambiamenti sociali e rivoluzioni culturali che rimarranno impressi nella memoria di chi li ha vissuti e cantati, canzoni eterne che dopo il periodo “giovanile” del grande cantautore cominciano ad incanalarsi nel filone espressivo che si potrebbe apparentare con il progressive, lunghe suite, poetiche senza limiti e quella intensità splendidamente provinciale di raccontare storie e favole urbane oramai impresse nella roccia della storia della musica italiana.

Ed è con questo disco che Guccini diventa il sommo poeta scomodo, è qui che la poetica incontra il sogno, metriche, rime in un costante ed infinito filo logico che intreccia e ricama cose di tutti i giorni e cose immaginarie, ed è grossomodo un lavoro che rompe certi schemi sonori, via la protest song e si agli spazi d’anima, tutte ambientazioni di vita che l’artista amplia e riconsidera tra dolci struggente e crude parole inestimabili; non parliamo di qualità ma di storia, melodie e sonorità che si sposano con ricordi e buoni fiaschi di Sangiovese, atmosfere da cantina fumosa, bagnate di amicizie di anni, amori nascosti e nebbie invernali che non vogliono finire mai, ma che forse è stato anche un bene perché quelle nebbie, negli anni, hanno conservate integre le vibrazioni stratificate di “Radici”, la supremazia poetica e rarefatta de “Il vecchio e il bambino”, gli intarsi chitarristici de “Canzone della bambina portoghese” o l’inno generazionale inossidabile che a tutt’oggi viene sempre riproposto nei live a distanza di anni e anni “La locomotiva”. Un continuo dissolversi di fole che riempiono l’album fino a tramutarlo in un libro d’amarcord, libro che il Vate Guccini sfoglia con una sei corde acustica, una erre moscia e un pensiero che non conosce palizzate. Da riscoprire vivamente.

Si dice che tutto passa e poco rimane, che emerita cazzata.

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“Diamanti Vintage” Violent Femmes – Violent Femmes

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Tre  storditi intellettualoidi di Milwaukee, Gordon Gano, Brian Ricthie e Victor De Lorenzo, per la gente del posto tre fancazzisti drogati di tutto, si incontrano e senza nemmeno guardarsi negli occhi, condividendo solamente la passione storta per il rock libero da complicazioni, decidono di formare una band e in due giorni, prendendo in prestito il nome di una nota marca di assorbenti decidono di chiamarsi Violent Femmes, e mischiando i loro gusti spalmati dal gospel, al folk, trucioli jazz, punk e gli albori di una timida new-vave cominciano la loro avventura che si dipana tra suoni acustici ed elettrici, un insieme di stimolazioni e novità che in poco tempo prendono la curiosità di pubblico e addetti ai lavori

Con Faulkner, Cash, Richman ed i suoi Modern Lovers, Pastorius ed altri geni in circolazione tra i neuroni, i VF diventano subito idoli di folle di nerd, intraprendono con l’aiuto del chitarrista dei Pretenders, James Honeymann, un tour che finalmente li sbarca nella Grande Mela ed è proprio lì che il fenomeno Violent Femmes deflagra in tutta la sua potenza, in tutta la sua grazia maledettamente sgraziata, ed è il trionfo.

Tra Modern Lovers e Talking Head, il loro sound infatua tutta l’America underground, e questo loro album omonimo pieno di cori ubriachi, attitudini punk, melodie radiofoniche, cabaret, ed improvvisazioni ritmiche utilizzando anche bidoni, pentolacce, lamiere ecc, va a colpire il segno e li porta a generare una scia di ascolti paurosa; dieci tracce gettonatissime e stilose che prevedono cambi d’aria e di gusto immediati alla giovane America che ne rimane sconvolta, lo shake avvitante “Kiss off”, lo slogamento punk con un giro di basso e cordame di chitarra folli “Add it up”, il pop-surfer che ondeggia simpaticamente tra le rime di “Promise”, lo stuzzicante xilofono che viene suonato come dentro una jam session alcolica “Gone  Daddy gone”  e la lenta ballata dal pad sausalito “Good feeling”, un lungo addio di violino e  piano che vanno a chiudere il cerchio di una band che lungo i dorsali degli anni Ottanta generò un equilibrio tra stranezza ed bellezza tutt’ora mai superata.

Lester Bangs disse che questo disco era un piacere per le orecchie e che difficilmente poteva suonare meglio, ma aveva solamente scoperto l’acqua bollente!

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“Diamonds Vintage” Francesco De Gregori – Bufalo Bill

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A dispetto d’ogni re che ha il suo oro, d’ogni regina che ha il suo diadema,  il nostro “Principe” Francesco De Gregori, dopo Rimmel, vanta un suo secondo gioiello, Bufalo Bill, il disco della sua completezza e trasformazione nella maturità, che sebbene sempre refrattaria ad ogni confronto col mondo fuori, splende come un dispetto conto terzi fatto all’ingranaggio discografico mai come allora delineato al sensazionalismo della leggerezza commerciale di un “pop per tutti”.

E appunto  il successo commerciale di Rimmel trova un De Gregori spiazzato, sdoganato nelle classifiche modaiole, il mondo che lui ha sempre rifuggito a gambe levate, e da lì che vediamo il cantautore “rintanarsi” di nuovo nelle sue cripte espressive, culle di purezze e fecondità.

Il mondo di De Gregori è sempre una meravigliosa strana favola a parte, un ricco vocabolario di metafore, sillogismi e “mezze parole” che introducono nella profondità  – scambiata sempre per assurdità ermetica – dei personaggi, storie e scene che a grandi passi o gattonando, fanno andirivieni nelle sue straordinarie canzoni, nei suoi spaccati di sogno “fissati” in cristalli di poesia.

Con quel cantato anarchico, che non segue metrica o contrappunti, l’artista romano stria di venature agrodolci, amare e gigione le composizioni del suo spirito, le capovolge e le passa al setaccio del significato in cui mirare, fino ad estrarne solo il preciso distillato che occorre per ammaliare e avvelenare, di  piacere armonico, un qualsiasi palato in cerca di schietti aromi lirici.

Pulito da ogni retorica decadentista, il disco è una vera rivoluzione di parole e assemblaggi, sempre girovago nella buona semplicità e con quel pianoforte che viene a trovare casa tra le tracce per arrotondarne le curve e per stilizzare ancor più le direttrici sognanti dei cantos, delle immaginazioni e degli orizzonti, nuovi, che si vanno a definire.

Una lotta continua il dover scegliere la traccia o le tracce da mettere in un’ipotetica lista graduata di emozioni, veramente impossibile sacrificarne una per l’altra per decifrarne una linea d’arrivo diretta al cuore, tutto si amalgama nell’insieme e niente si stacca dal corpo caldo di queste dieci gemme d’autore; ci sono dischi ove è possibile, ma questo non è un disco, ma un poema gentile e malinconico di velluto e carta paglia senza prezzo, dove non ci sono avanzi o fondi di tessitura e dove la fantasia cede il passo alla realtà delle cose.

Quello che si può fare è un azzardato assaggio di infinitesimali gocce di rugiada poetica, come nelle illusioni borghesi dell’infanzia L’uccisione di Babbo Natale, nella metafora amarognola sull’espansione maledetta dell’America verso l’Ovest degli indiani Bufalo Bill, ispirata da “La ballata di Cable Hogue” film di Sam Peckinpah  o sulla “profezia” dei legami politici sporchi Disastro aereo sul canale di Sicilia, magari fermarsi nella coscienza che fa preghiera nella dolcissima Santa Lucia oppure riflettere sul dramma festivaliero del suicidio di Luigi Tenco Festival; ma un’avvertenza è d’obbligo, prima di assaggiare in pieno questo disco è sempre bene chiudere gli occhi e scordarsi di essere pesanti sulla terra, perchè il Principe non ama ritornare sui suoi passi una volta distribuiti con garbo ed eleganza i semi giusti per il germoglio di questi autentici “fiori di campo”, ha un carattere che non concede bis ma un cuore immenso come le note del suo filtro tra realtà e i poveri eroi di essa

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“Diamonds Vintage” Otis Redding – Otis Blue

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Certamente non teneva in mano la mossa, l’eleganza e il lusso geniale di Sam Cooke, Marvin Gaye e Ray Charles, ma aveva più anima soul di tutti messi insieme.
Il verbo/sound della Stax di Memphis, le origini povere e proletarie, la passione umanistica che fu presa anche come  colonna sonora per l’I have a dream di Martin Luther King, che in questo timido ragazzo trovò il portavoce melodioso, l’interprete stupefacente della lotta per l’uguaglianza. La sua era una voce da brivido, completa e travolgente, come dimostra l’indimenticabile I’ve been you too long,  capace di prendere e ridare ogni sfumatura emozionale di qualsiasi canzone.
Il terzo album della sua purtroppo breve parabola, stampato nel 1965, due anni prima della sua tragica fine in un incidente aereo, trasformò definitivamente Otis Redding in una divinità black.
Eccolo qua, è arrivato “The Big O”, come lo stuzzicavano con affetto e goliardia i suoi musicisti e colleghi. “Quella ragazza ha rubato la mia canzone”, dichiarò dopo che Aretha Franklin aveva fatto sua Respect.
Con la identica mossa agile, in questo disco Redding catturò e fece suoi i classici del soul quali My Girl di Smokey Robinson, Wonderful World, Shake, Change Gonna Come – tutti di Sam Cooke, Down in the Valley di Solom Burke, del blues. E andò anche a ritagliare una scheggia  di rock – Satisfaction –  dei Rolling Stones.
Diventarono tutte suoi pezzi d’anima da distribuire al mondo, grazie anche all’accompagnamento slanciato, frizzante e magnificamente impetuoso dei Booker T & The M.G’s, il gruppo che, insieme alla sezione fiati dei Memphis Horns, fece della Stax la regina, la Black Queen della storia del riscatto dei neri.

Otis canta il soul, quel cataclisma dolce e possente che finì troppo in fretta, e lo ha cantato ieri, lo canta oggi e lo canterà fino che il globo non finirà il suo giro dispettoso che divide l’umanità in colori.

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“Diamonds Vintage” Bob Dylan – The basement Tapes

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Più che uno stupendo doppio raccoglitore di tapes “di seconda”, un tracciante sulla musica popolare di Bob Dylan e di quello che accadde in quella fattoria vicino Woodstock nel 1967 in cui il Maestro – in convalescenza dopo un incidente di moto – e la Band – esausta da un lungo tour – si ritirarono.per registrare per gioco e relax – in un idilliaco mix d’alcool, marijuana e risate –  quello che poi – impresso su nastro di un vecchio registratore –  uscì, come un miracolo, in questo Basement Tapes, disco nel 1975. Prima che la CBS mettesse le mani sulle registrazioni, le stesse furono preda di bootleg “The great white wonder” e scippi da parte di artisti che ne fecero successi: la Baez, i Byrds e Manfred Mann che con “Mighty queen” – poi mai sfruttata da Dylan –  fece la sua fortuna. Ripeto uno stupendo vinile in cui la tradizione, il divertimento e la voglia di dire sprizza come una sorgente di acqua balsamica, in cui Dylan si sgola, canta e si ubriaca con i vecchi compagni di rock & road di sempre Orange juice blues, Long distance operator, suona pezzi nuovi di zecca mai sentiti prima This wheel’s on fire e Goin’ to Acapulco e si lascia trasportare all’indietro in un divertissements di old traditional Apple sucking tree, Clothes lines saga, Ain’t no more cane. The Basement Tapes è il frutto dell’allegra brigata che contemplava tra le file – oltre che Bob –  Levon Helm batteria, mandolino e basso, Garth Hudson ogano, fisarmonica , pianoforte e sax, Richard Manuel pianoforte, batteria e armonica, Robbie Robertson chitarre elettriche e acustiche e Rick Danko al basso e mandolino, ma principalmente, da parte di Dylan, l’elaborazione cosciente del passaggio della musica americana dalla sua fase Folk a quella rockeggiante, ovvero l’intero patrimonio americano che viene messo in discussione. Il disco suona come un esame ed una scoperta della memoria delle radici sopra un bel sorriso, audace e venerabile ma anche un insieme di tracce che vengono a patti con un vecchio senso di mistero talmente intenso che non si è più ascoltato da moltissimo tempo; forse i vecchi demoni di Dylan che non si vogliono sopire o probabilmente l’alcool che li ingigantisce, li dilata. Ma questo poco importa a chi ne fruisce la sintesi sonora, resta solo il fatto che, in quella cantina della Big Pink Factory nel West Saugerties di New York, i nostri si sono divertiti sonoramente, fino a tramandarci memorie e fonti maestose dove abbeverarci,  senza parsimonia, alla bisogna.

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“Diamonds Vintage” Eugenio Finardi – Sugo

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Sugo di Eugenio Finardi è stato l’album della giusta carica  in un anno teso e difficile. Un 1976 insanguinato dalle Brigate Rosse, sporcato dallo scandalo Lockead e bloccato da una crisi petrolifera che opprimeva  una già deleteria situazione sociale di conflitto sindacale. Un giovane capellone italo-americano munito di una voce di grazia gentilizia impugna la sua chitarra e, dopo un album già edito dalla Cramps nell’anno prima “Non gettate alcun oggetto dal finestrino” e prodotto dall’amico Alberto Camerini, riversa nelle piazze e nelle allora Radio Libere questo disco di rock e filettature jazz-prog che oscura per un lungo periodo tutte le scremature cantautorali che in quel dato momento si rifacevano alle poetiche esterofile e lontano dalla realtà contingente. Finalmente qualcosa di lotta scorrevole e testualità aderente, che riporta in vita la necessità di sognare e nel contempo di svegliarsi dal torpore fatalistico. Inno della gioventù con la sua Musica Ribelle, Finardi con le tastiere, il basso e chitarra del trio Fariselli, Tavolazzi e Tofani degli Area e due amici della sua band giovanile Il Pacco cioè Camerini alla chitarra e Walter Calloni alla batteria, denunciava con il sorriso di “un nuovo cantautore” l’urgenza di far sapere a tutti quello che a tutti era nascosto, la voce di una generazione che non voleva stare al gioco; e la cosa funzionò a dovere e una sorta di manifesto liberatorio cominciò a girare tra gli sconfitti del sistema  che rialzarono la testa per guardare negli occhi il demone da combattere. Non canzoni di lotta, ma canzoni alla portata di tutti, cantabilissime, gioviali e pensierose, ma con tutta la sostanza di colore in un buio pesto. Contraddistinto da una loquacità inverosimile, Sugo è una linea di confine tra rock, canzoni di amore e per l’appunto dettagli tecnici progressive che in quell’anno di grazia – sull’onda dei grandi suoni che arrivavano dall’Inghilterra – cominciavano a volare di moto proprio Quasar . La creavità , la “Fantasia al potere” bussava forte in quei frangenti e canzoni come La radio, La C.I.A. e Sulla strada aprirono un varco di novità assoluta, un nuovo progetto di “cantautorare” la vita reale senza ricorrere – come era stato fatto fino allora – ad impeti di prolissicità testuale politicizzata né slogan d’arrembaggio. Ma è purtroppo una carica questa di Sugo destinata ad esaurirsi già con il successivo album Diesel, dove Finardi non saprà più replicare, se non cedendo alle lusinghe del pop, la voglia di esserci e contare tutte “quelle facce da bambino e i loro cuori infranti”.

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“Diamonds Vintage” The Stranglers – The Raven

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No, sicuramente la cosa non poteva funzionare, ed infatti non funzionò come doveva.  In quel 1975 dopo aver calcato i palchi sotto il nome di Jonny Six, questi quattro giovinastri scavezzacollo Jean Jacques Burnel, Jet Black, Hugh Cornwell e Dave Greenfield vogliono e decidono finalmente di chiamarsi The Stranglers, vanno fortuitamente in tour con una giovane Patti Smith, incidono tre dischi che tra alti e bassi, “Rattus  Norvegicus” tra tutti, apparizioni sporadiche nelle hit-charts inglesi e fallimenti modaioli non li esportano alla grande ribalta, fintanto che un giorno tagliano corto col musicarello punk bagnato dalle allucinazioni tastieristiche dei Doors ed imbracciano un percorso sperimentale fatto di elettronica, colorazioni oscure della new vave sempre pixellata di punk e la schizofrenia attitudinale degli anni sessanta; era il 1979 e nacque un piccolo capolavoro che la storia tramanda come un alfabeto basilare, “The Raven”.

Un disco nero come la fuliggine, carico di quelle tensioni atmosferiche che segneranno per sempre la loro pur corta carriera, freddo il giusto per restare sulle coordinate – se non addirittura le barricate – della metamorfosi che l’aria inglese di quei tempi, del  No Future tirava a manetta; dolcemente “tetro” come fu definito all’epoca, e cosi  suona ascolto dopo ascolto pure oggi, un carico sensoriale che arriva da ogni direzione lo si ascolti, una continua stimolazione per testa e cervello che mantiene integra la sua missione, quella di de-potenziare e distorcere gli standard consueti della “bella musica” intesa come pulizia snob.

La new-vave d’Oltremanica è in subbuglio, il punk non accenna a diminuire la sua ribellione ed il romanticismo inizia a prendere piede in un contrasto cromatico fuori dall’ordinario, e questo disco si impone all’attenzione delle masse come un linea d’orizzonte rimarcante, dove fare affidamento tra il prima ed il dopo di questa rivoluzione musicale; tracce che si fissano nella mente per le infinite soluzione “below zero” come in “Ice”, “Baroque bordello”, dentro le cattedrali di sintetizzatori “Dead loss angeles”, l’elettronica spiazzante che si fa noir, horror meglio dire,  dentro la concupiscenza di “Meninblack” e la trasparenza in plexiglass che in “Shah saha a go go” accenna ad una dance sincopata aliena attraversata da correnti “tedesche”; poi, a distanza di poco tempo gli Stranglers – questi strangolatori del tempo che fu – furono inghiottiti nel nulla, forse in quel drammatico No Future che nonostante tutto – o niente – segnò le stimmate di un’epoca di gloria irsuta e lacrime dark.

Pietra miliare ben oltre il tempo.

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Epater le Bourgeois capitolo 4

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Quella sera a letto ripensai al fratello del tassista, al mio amico Andrea e a Piera.
Mi chiesi come fosse lei nella realtà. Lontana dagli sguardi del padre, da quella casa, da quel quartiere così fuori sync rispetto alla sua gonna al ginocchio e a quella sua aria da vergine di ferro.
Non avevo mai avuto grande intuito con le donne. Né fortuna. La mia ultima e forse prima storia risaliva a due anni prima quando incontrai Francesca, una ragazza di Bari che era venuta a passare le vacanze estive in Abruzzo.
Aveva una famiglia imbarazzante, di quelle che in spiaggia si portano riserve di cibo per un intero esercito e parlano a due toni più alti del normale come se il mondo non potesse sentirli altrimenti.
Lei era carina però. Venne per due settimane tutti i giorni nel bar dove lavoravo ordinando sempre la stessa cosa. Una cedrata grazie.
Fin quando un giorno non mi chiese sfacciata se la accompagnavo al concerto degli 883. Fu amore. Non tanto per il concerto degli 883, che in realtà non vedemmo mai perché nel tragitto in motorino verso il paese vicino cademmo sulla strada bagnata come due pere mature.
Fu amore perché in quell’occasione, in cui lei rimase perfettamente intatta e io mi ruppi una caviglia, si rivelò premurosa come mai nessun essere femminile era stato con me fino a quel momento.
Ogni giorno veniva a trovarmi a casa, si sedeva vicino al mio letto e mi raccontava aneddoti spassosi sulla famiglia. A volte piangeva piano dicendo che si sentiva in colpa e che se non mi avesse chiesto di accompagnarla non sarebbe successo niente. A volte mi leggeva le sue poesie. Scriveva roba che probabilmente non avrebbero pubblicato nemmeno sui biglietti dei cioccolatini ma in quel momento lei mi sembrava Sibilla Aleramo solo con le tette più grosse. Due tette così non le ho viste mai più. Forse furono quelle il vero motivo per cui mi innamorai di lei. Perché ce le aveva grosse ma le nascondeva come un segreto da difendere. Le faceva vedere solo a me. Anche se non riuscii mai a toccarle.
L’ultimo giorno di vacanze io non mi ero ancora rimesso in piedi e lei venne a salutarmi. Pianse tutte le sue lacrime e dicendo che non mi avrebbe dimenticato mai mi accarezzò sotto la cinta come se fosse l’ultima volta che avrebbe toccato un uomo.
L’anno scorso ho scopetto che si è sposata con un maresciallo dei carabinieri e che hanno fatto un bambino. Lo hanno chiamato Max.
I miei ricordi vennero interrotti all’improvviso da un gran frastuono di chiavi. Venti secondi dopo i Clash invasero la casa. Le cose si mettevano bene.

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“Diamonds Vintage” Emerson, Lake & Palmer – Emerson, Lake & Palmer

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Un 1970 all’insegna delle nascite di grandi formazioni seminali della storia del progressive mondiale, tra queste gli Emerson Lake & Palmer , una delle band che più di tutte hanno lasciato un graffio, un segno trasversale nell’enciclopedia immortale dei suoni altolocati, fuori dalle orbite del pop rock, distanti dalle prosopopee del rock classico; Keith Emerson, già tastierista e leader dei Nice, Greg Lake voce e basso già alla corte dei King Crimson e Carl Palmer furente batterista degli Atomic Rooster, decidono di solidarizzarsi in un trio che, sebbene additati da molti come eredi fotocopia dei defunti Nice, cercano di fondare una propria storia, e dopo una effervescente incursione al Festival dell’Isola di Wight – sempre in quell’anno – il loro motto sonoro si impone sulle masse e da li a poco la fortuna benedirà il trio a venire.

L’omomino album è il primo vagito della band, una miriade di suoni ed atmosfere mutuate dalle forti appariscenze sinfoniche della musica classica frammista a stupende incursioni creative d’avanguardia e l’uso basilare di strumentazioni elettroniche come il Moog, il VC7 , Mellotron ecc, stupende macchinazioni di suono per voli e catapulte nell’infinito cosmico; non manca di certo i sintetizzatori che danno quelle atmosfere lancinanti di duelli e corpo a corpo immaginari, urli e strepitii immaginifici, molto più che realistici, ma soprattutto l’effettistica che il trio muove sul palco e dentro dischi futuri che oramai fanno parte della storia delle storie musicali.

Disco in cui la triade si gioca il tutto e splende in sei tracce seminali, dove la predominanza di Emerson sulle tastiere è alta, e che fa da traino alla dolcezza di Lake e alla energia di Palmer sulle pelli sempre più sofisticate, tra suite preziose e assoli personalizzati il disco dipana urgenze e passioni incontrollabili; la rielaborazione del classico di Bela Bartok  “The barbarian”, i dodici minuti che intrecciano acustiche, elettroniche e soliloqui di tasti “Take a pebble”, ancora un classico rielaborato dagli ELP “Knife edge” del compositore Janacek, o la lunga episodica in tre atti (Clotho, Atropos, Lachesis) che fanno parte della mitologia greca con cui “The three fates” si fregia di immortalità.

Con “Tank” Palmer si prende una rivincita a suon di tom e rototom mentre la conclusiva “Lucky man” è una dolcezza di chitarra acustica in cui Lake fissa ai posteri la sua straordinaria figura quasi da mediatore tra la caratterialità spesso prepotente di Emerson e la figura della terza ombra Palmer che, già dall’inizio, non vede di buon occhio il monopolio sonante delle tastiere su tastiere che in futuro si prenderanno l’intera scena di questa storia progressive bella quanto combattuta tra i personaggi primari.

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