Bob Dylan & Mark Knopfler

Written by Live Report

Dopo quasi due sfiancanti ore di coda all’uscita di Assago (come al solito pecche organizzative notevoli nelle localtion per concerti italiane), prendo coraggio e entro nello storico Forum di Assago. Coraggio perché ciò che provo è proprio paura. Paura terrificante di vedere davanti a me per la prima volta uno dei miei miti deturpato da una vita paranormale, da una vita che lo ha reso vulnerabile come tutti noi umani, vita che gli sta facendo pagare tutte le sue crude parole scritte in quasi 50 anni di poesia, contraddizione, visioni, maledizione, redenzione e di (forse eccessiva) saggezza.

Mr. Zimmerman, in arte Bob Dylan, ha ormai 70 anni pieni e a sentire le voci in giro non se li porta neanche troppo bene a differenza di colleghi coetanei stracolmi di fighe 30enni, botulino e corse sul tapis roulant (vedi sir. Paul McCartney e Mick Jagger).
Quindi immerso nella nebbia che avvolge il Forum, ho paura. Ma affronto i miei timori sperando che il caro Bob mi stupisca, come dopotutto ha sempre fatto. E si sa che lui stupisce anche nell’essere prevedibile.

Alle 21.15 attacca prima di lui Mark Knopfler, suo amico e accompagnatore in questo tour “smezzato” e a dire il vero compagno un po’ azzardato. Dalla prima riconoscibilissima nota di Statocaster infatti il pubblico infatti pare essere un po’ scisso tra i due mondi: quello del lord inglese che vuol far l’americano (moltissimi i fan per lui per altro) e quello dell’americano che il suo paese invece pare conoscerlo davvero bene e lo cantar in lungo e in largo sin dal lontano 1962.

Knopfler sa di inglese: nei modi, nel suonare la chitarra, nel cantare con eleganza e sapienza e poi appiccica un sound che sa di americano nei suoi pezzi (quasi tutta la scaletta è concentrata sulla sua carriera post Dire Straits). La band è presa direttamente da un baretto del Texas e suonano tutti come indiavolati un blues/bluegrass accompagnato dall’elegante tocco di Knopfler.

C’è da dire che dopo il suo attacco sento un potente brivido lungo la schiena, mi accerto che non ci sia corrente d’aria all’interno del Forum e vedo tutte le porte sbarrate: anche per uno che non è un suo grande fan, Knopfler fa la sua porca figura col la 6 corde.

Dopo quasi un’ora di set egoista dedicato ai suoi mediocri dischi solisti ci concede una toccante “Brother in Arms” e un finale tutti a cantare sul classicone “So Far Away”. Di “Sultan of Swing” o “Money For Nothing” neanche l’ombra.

E qui la paura un sale, mi rendo conto che sta arrivando il momento. A me Bob, esci e fammi vedere che sei più forte della vita grama che ti consuma. Poco prima delle 23 si spengono le luci e una voce annuncia il menestrello.

Entra in scena una band che sembra appena uscita da un set di un film su al Capone. Vestiti eleganti marroncino/grigio da inizio ‘900, si intonano sul momento senza tanti fronzoli e poi eccolo come un fantasma che si materializza sul palco: cappello nero da cowboy, vestito ancora più nero e baffetti da vecchio sornione, è mr. Zimmerman in persona. Su di noi vigila un occhio gigante proiettato su un telo rosso che ricorda le tende della loggia nera di Twin Peaks. A farmi capire che non sono in piena fase onirica ci pensa l’unico essere umano ospite su questo surreale stage, Mark Knopfler che attacca il set dell’amico con un signor “cazzeggio blues” alla sua chitarra.

Parte così “Leopard Skin Pillbox Hat” e Bob Dyal ci presenta la sua voce ormai rochissima e quasi demoniaca, ma allo stesso tempo anche vellutata, per capirci quella del nonno che ci racconta le sue storiellle. Intanto mentre sfagiola parole senza fare troppi sforzi ad aprire la boccuccia sotto i baffi, suona accordi ancarchici a caso sulla sua tastiera.

E’ tutto così misterioso, ma invece di spaventarmi di più per la situazione, per la voce spettrale che esce quasi distorta (forse è proprio la voce di Dylan ad esserlo senza effetti aggiuntivi), mi tranquillizzo e mi faccio trascinare dal ritmo indiavolato della band.

Questo è blues. La musica che proprio Dylan reputa così semplice e diretta che risulta essere uno dei più potenti mezzi di comunicazione. Potente, grezzo, violento, tagliente come la più affilata delle lamette. Questa è la musica di Dylan oggi, senza fronzoli, ma con la grinta, la protesta, il cuore in mano: quello rimane dal 1962.

La chitarra di Knopfler rimane on stage fino alla stupenda interpretazione cattiva e ostile di Dylan su “Things Have Changed” e la sconvolta “It’s All Right Now, Baby Blue”, snaturata nella sua semplice e nuda bellezza, presa di violenza dal paradiso e tritata come carne da macello nell’inferno blues dai 5 mafiosi e da Knopfler stesso, complice anche lui del magnifico strazio.
Poi mr. Dire Straits se ne va, e pare che sia stato chiamato solo come tramite tra mondo terreno e mondo dei sogni.

Ecco ora sogniamo tutti, cambia solo la sensazione ma la musica rimane cattiva e rude come prima.
Neanche l’amore più straziante di “Tangled Up In Blue” riesce a calmare il menestrello che senza chitarra davanti al microfono pare essere persino goffo. Accenna qualche buffo passo di danza, ma quando attacca la sua armonica ti strapazza la testa. Come se stesse gridando la sua disperazione ad un centimentro dall’orecchio e dicesse: “balla cazzo! balla” e io lo prendo alla lettera, con intorno un pubblico immobile ballo da solo e scordinato. Questa è la poesia cattiva e ruvida di Dylan, ora è proprio nella sua armonica.

Il Dylan oggi è live, il tour dopotutto porta l’inequivocabile nome di “Neverending Tour”. Live è la sua dimensione di oggi, con la coerenza del blues e delle radici della musica, che nasce live e lui pare la voglia fare morire live. Fino a quando avrà questo filo di voce ci porterà il suo nero fantasma davanti agli occhi, oggi è ancora tutto così magicamente potente che sicuro non smetterà a breve. Lo dimostra l’ottima prestazione di “Desoloation Row”, stravolta ma non snaturata nella sua magica monotonia e poi “Simple Twist Of Fate”, unico momento più “soft” della setlist, parlata girovagando per il palco. Sembra che il simpatico vecchietto debba convincere noi poveri terreni sprovveduti che il fato a volte di gioca stupendi e terrificanti scherzi. Se la ride sotto i baffi però, lo vedo chiaramente. Ci prende per mano su un ascensore, schiaccia il piano più alto e sulle nuvole si prende gioco di noi.

Il finale è dedicato a classici, rivisitati ma non troppo. E a dirla tutta “All Along The Watchtower” e una (adirittura!) cantabile “Like a Rolling Stone” stonano quasi davanti all’alchimia delle tende rosse. Quasi un piccolo regalo per noi poveri mortali che speriamo ancora di sentire qualche pezzo in più da “Blonde On Blond” oppure qualche stolto che aspetta addirittura “Knockin’ On Heaven’s Door” o “Hurricane”.
Dopo un’ora di scaletta Bob arriva davanti a noi, alza le braccia, quasi una benedizione e poi scompare dietro il tendone con la sua band di loschi ceffi, lasciandoci una grande lezione di musica e forse non solo di quello.

Nulla da dire, la critica sta sotto a un personaggio del genere. Non si puo’ dare un commento positivo o negativo. Forse la mia paura mia era del tutto giustificata. Ma per motivi ben lontani dalla prestazione live del menestrello: ieri non credevo agli spiriti, oggi si.

Last modified: 11 Dicembre 2011

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