Bob Dylan. A rolling stone gathers no moss (e allora rotola)

Written by Live Report

Unica data italiana. 6000 fortunatissimi (sold out in neanche una settimana) praticamente rinchiusi per motivi di sicurezza nel perimetro della piazza principale del comune cuneese che dà il nome a uno dei vini italiani più pregiati e che lontano dal festival fatica ad arrivare alle 700 anime.
Cornice splendida: il castello, le colline, una lunga tradizione contadina radicata che si respira nei mattoni vecchi delle case e in quella nicchia che mal riproduce un pezzetto del Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Over50 nostalgici e giovanissimi che “Quando mi ricapita?” o “Almeno una volta nella vita si deve vedere”. Biglietto a prezzo più che politico (27€ e qualcosa, più i diritti di prevendita), birra a 3 €.
Tutto faceva ben sperare, insomma.

(Sto per massacrare un icona del rock, perciò, sentitevi liberi di non andare oltre nella lettura).

Bob Dylan è demolito e qualcuno dovrebbe prenderlo per le spalle e fermarlo.
La voce non c’è. OK, non l’ha mai davvero avuta, è un cantautore lui, non ha mai saputo che farsene del belcanto. Ma sembra aver subito una tracheotomia più che essere semplicemente invecchiato.
La mani non ci sono. Dylan sta sempre al piano e prende in mano la chitarra solo per farci vedere perché ormai non la suona più. Tenta un paio di assoli, ma è una successione di note stoppate, sbavature, errori. OK, è vecchio e da un cantautore non mi aspetto sappia andare oltre qualche accordo per la sopravvivenza.
La band non c’è. E qui non c’è tolleranza che tenga: i musicisti di un pezzo di storia della musica mondiale devono essere bravi e devono farmelo vedere. Il chitarrista deve sbattermi in faccia assoli prepotenti e sanguigni e il bassista deve contorcersi e trascinarmi tra i battiti. Niente. Elegantemente standard, giri armonici tradizionali, arrangiamenti blues, perché questa è la nuova cifra stilistica del Dylan anni 2000.
Un blues freddo per altro, che non arriva al cuore, non scalda, fa a malapena ondeggiare la testa a tempo.
Fermati, Bob, davvero. Non vedi che questa sterzatona blues anacronistica se la fanno andare bene sono perché sei tu? Non puoi fare un’ora e mezza di puro blues del Delta praticamente tutto uguale anche nelle tonalità, senza uno straccio di passaggio virtuosistico da parte tua o dei tuoi.
E fosse solo un problema di voci, di genere, di presenza scenica (al piano quasi tutta la sera, strumentisti immobili, non una parola rivolta al pubblico). Dylan ci prende anche in giro, alla fine, o almeno così mi sono sentita io nel vederlo buttare –e non credo ci sia termine più indicato – la tripletta All long the watchtower, Like a rolling stone e Blowin’ in the wind, in chiave blues (ancora? Santo cielo Bob, perdono fatte così, sono tre maledettissimi pilastri di una generazione che ha cambiato le sorti della società e della musica fino ad oggi, trattele con cura!). Quella versione di Blowin’ in the wind mi stava facendo venire da piangere e non per la commozione. Snaturata. Una filastroccona. Non una riflessione amara di un profeta di una generazione. Solo l’ennesima intonazione, da parte di un vecchio, di una canzone in cui non crede più.
E va bene, Bob. Io posso immaginarlo che a forza di cantarla, di vedere il pubblico sbracciarsi su quella come se fosse l’unica cosa buona che hai fatto, un po’ possa esserti venuta in odio, ma me la dovevi una versione quanto meno fedele nell’interpretazione. A me e a tutti quelli per cui ancora quel testo ha un briciolo di significato. E ne ho sentite di ogni per giustificarlo, frasi dette da quelli che facevano gli entusiasti ma sotto sotto sapevano di aver assistito a un concerto di basso livello: “Ma è Bob Dylan”, “Ci sta, è un nonno”. Non sono di questa opinione. È Bob Dylan, certo, e per questo mi aspetto un bello show, in cui sia la musica a farla da padrone, non l’iconoclastia di se stessi. E un nonno, 71 anni lo rendono innegabilmente tale, allora che mi prenda sulle ginocchia e mi racconti come va la vita, come va il rock, com’era quando era giovane lui, quali valori l’hanno fatto crescere come ha fatto.
Peccato, peccato davvero.

Last modified: 23 Luglio 2012

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