Silvio Don Pizzica Author

Era così tanto un bravo ragazzo. Poi ha conosciuto la trap.

De Rapage – Si Sveglia la Mattina e ti Gode Davanti

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Quando qualcuno ha sollevato dubbi sulle capacità tecniche dei De Rapage o sul fatto che durante l’esibizione di Streetambula avessero sputato troppe parolacce, il mio primo pensiero è andato ai mostri sacri del Rock (Iggy, Johnny, Lou, Jim, Kurt, Giovanni Lindo, e tutta la compagnia dell’inferno). Quand’è che i giovani, soprattutto ma non solo, si sono dimenticati di che cosa significa questa parola, Rock, perdendosi nella mediocrità del tecnicismo puro e del politicamente corretto (o fintamente scorretto)?

Se c’è un motivo quasi oggettivo per cui valga la pena avere tra le mani una copia di ogni singolo lavoro targato De Rapage ma anche di fermarsi a guardare le locandine dei loro spettacoli, visitare le pagine web, facebook, i blog, vedere i video e le foto, questo è dato dalla maniacale cura con la quale gestiscono gli elementi visivi come, ad esempio, l’artwork sempre di pregevole fattura che contraddistingue le copertine, i booklet e tutto quanto riporti la firma dei suddetti. Saranno più che contenti e soddisfatti i fortunati presenti alle finali di Streetambula del 31 agosto dove i vincitori (appunto, i De Rapage) hanno regalato circa cinquanta copie di questo Si Sveglia la Mattina e ti Gode Davanti, realizzato in collaborazione con i Pastori Sardi in Licenza. Anche questa volta, Ficurilli e soci non hanno deluso le aspettative di chi si attendeva un lavoro degno di nota, in tal senso.

Poi c’è la musica, quello che più conta; ma andiamo con calma. Chi sono i Pastori Sardi in Licenza? Semplicemente il seme che ha fecondato la cittadina di Chieti che poi ha cagato i De Rapage. Nati idealmente nel 1995 dalla mente di Francesco Ficurilli, poi cantante dei De Rapage e Luigi Marrone, hanno visto la loro espansione con l’aggiunta di Fabio La Torre e infine Alfredo Iannone. Le caratteristiche della loro proposta sono semplici. Innanzitutto suonano rigorosamente chitarre classiche e acustiche e cantano a turno (“come il cazzo”, citando lo stesso Ficurilli). In fase di stesura e composizione il punto di forza è l’immediatezza; partendo da una frase, una situazione o un personaggio reale o inventato, compongono brani per lo più improvvisati. Ed è proprio questa estemporaneità che darà luogo a componimenti dalla demenzialità assolutamente fuori dal comune, proprio per la sua apparente totale irrazionalità. Non vi sono mai palesi riferimenti ideologici, politici o sociali dietro i testi ma solo la voglia irriverente di divertirsi senza farsi alcun problema a fare a pezzi ogni piedistallo che possa elevare chiunque, fosse anche il Papa, Cristo o loro stessi.

Il progetto Pastori Sardi in Licenza non ebbe un seguito diretto e la nascita dei De Rapage, con la succitata presenza di Ficurilli appare, in quest’ottica, come un segno divino della necessità di dare nuova vita alle deliranti proclamazioni di quei quattro folli. Come le emorroidi dopo uno stronzo particolarmente ostinato e tosto. I De Rapage attingono a piene mani dal repertorio dei loro “padri” e scelgono nove pezzi che ripropongono alla loro maniera. Rispetto al precedente Sberle, sono messe da parte le tante contaminazioni sonore e i pezzi sono proposti  attraverso le tecniche del più classico Alt Rock, comunque svariando da ritmiche più aggressive e Hard a passaggi più dolci, quasi giocosamente infantili. La follia dei Pastori viene dunque amplificata dalla potenza sonica dei De Rapage che ancora una volta si mostrano all’altezza della situazione.

Esclusi alcuni pezzi come “California Dream Gay” e “Siringhe Perforanti” tuttavia, proprio la spontaneità e il cazzeggio allo stato puro sono anche il limite di questi pezzi, stesso ostacolo riscontrato nei precedenti lavori dei De Rapage, nei testi molto simili a questi targati Pastori Sardi in Licenza. Non sempre e non a tutti riescono a strappare sorrisi proprio perché le parole suonano come casualmente e totalmente fuori dagli schemi e il nonsense di taluni passaggi spinge piuttosto seguire le linee melodiche fregandosene del significato dei vocaboli, nella consapevolezza che oltre a non nascondere grossi contenuti ci sia il rischio di non sfociare neanche verso il divertimento dato da qualche frase ad effetto. Le stesse melodie mancano di orecchiabilità facile ad attecchire sul pubblico meno esigente e la forma canzone più classica si contorce alla ricerca di una configurazione più appropriata, più volte senza risultati efficaci. Perché tanta attenzione allora, nei confronti di questa band? Perché, per prima cosa sanno come costruire fisicamente i loro prodotti, tanto per tornare all’iniziale discorso sull’artwork. Secondo perché sanno suonare insieme (ma anche in senso assoluto) e molto bene, nonostante non abbiano le possibilità di provare frequentemente con formazione al completo (quando lo fanno però lo fanno sul serio). Terzo perché aiutano a sciogliere quella patina di snobismo e spocchia che contraddistingue un certo tipo di musica e i suoi seguaci. Quarto perché il limite dato dai testi è parzialmente giustificato dal fatto che c’è una piccola differenza tra quelli presi in prestito dai Pastori e quelli originali degli album precedenti che vi consiglio vivamente di ascoltare per verificare voi stessi le differenze stilistiche. Infine perché la loro dimensione ottimale è quella del live. Frase abusata che qui diventa dogma. Non è possibile disgiungere i brani da quello che sono suonati dal vivo ed io ho avuto la fortuna di essere sia al concerto di presentazione di Sberle che di questo Si Sveglia la Mattina e ti Gode Davanti. “Progetto Cane Morto” non ha senso senza Ficurilli che “offende” gli animalisti, “California Dream Gay” perde valore se prima non è introdotto da un vaffanculo corale del pubblico pungolato dal palco. La loro irriverenza e demenzialità non ha lo stesso rilievo se non vi ritrovate nel complesso di voci di quelli che mandano a fare in culo Zappacosta e la sua t-shirt del cazzo (letteralmente) e Schillaci. O Jimmy e Pasquale.  Aggiungete una ricerca melodica più puntuale e testi magari meno variegati, ma più lineari e meno cazzoni e avrete una band clamorosa. Ma poi non avreste più i De Rapage.

Cinque squilibrati che fanno i cazzoni ma sanno anche loro che potrebbero insegnare tanto ad una marea di ventenni se solo questi ricordassero cos’è il Rock!

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InSonar/Nichelodeon – L’Enfant et le Ménure / Bath Salts

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L’ultima cosa che avrei voluto fare è pronunciami su un prodigio di tale portata. Avrei preferito solo godermelo ma inevitabilmente è questo il modo migliore per farvi sapere che, in Italia, (già proprio nell’Italia de I Cani, Lo Stato Sociale, Vasco e Liga), qualcuno è capace di tirare fuori opere d’arte di pregevole fattura e totalmente slegate dalle logiche di mercato anche minime. Dietro tutto ciò c’è Claudio Milano nelle vesti della neonata creatura chiamata InSonar e di una vecchia conoscenza dell’Avant Prog, i Nicheloden.

Andiamo per ordine cercando di racchiudere in meno parole possibile tale progetto che in realtà avrebbe necessità di un tomo di oltre mille pagine per essere raccontato in modo esaustivo.  Lo split è composto di quattro cd per due parti. La prima è intitolata L’Enfant et le Ménure (il bambino e l’uccello lira) ed è realizzata dagli InSonar. il potere dell’immaginazione infantile che trasforma l’orrore in meraviglia. Sono i bambini a raccontarci delle fiabe per aiutarci a non avere paura del buio, dentro e fuori. Questo il tema. I due cd sono avvolti in un booklet per la prima metà in bianco e nero contenente alcune opere di Marcello Bellina (in arte Berlikete) e quindi mosaici di Arend Wanderlust. Il progetto di Claudio Milano e Marco Tuppo vede la partecipazione di sessantadue musicisti da tutti i continenti tra cui Elliott Sharp, Trey Gunn & Pat Mastellotto, Walter Calloni, Paolo Tofani, Ivan Cattaneo, Nik Turner, Dieter Moebius, Thomas Bloch, Ralph Carney, Dana Colley, Graham Clark, Richard A Ingram, Albert Kuvezin, Othon Mataragas & Ernesto Tomasini, Nate Wooley, Burkhard Stangl, Mattias Gustafsson, Werner Durand & Victor Meertens, Erica Scherl, Michael Thieke, Viviane Houle, Jonathan Mayer, Stephen Flinn, Angelo Manzotti, Roberto Laneri, Vincenzo Zitello, Elio Martusciello, Thomas Grillo, Pekkanini, Víctor Estrada Mañas, Eric Ross, Takeuchi Masami, Gordon Charlton, Francesco Chapperini, Luca Pissavini, Fabrizio Carriero, Andrea Murada, Andrea Illuminati, Max Pierini, Lorenzo Sempio, Andrea Tumicelli, Nicola De Bortoli, Francesco Zago, Michele Bertoni, Alex Stangoni, Michele Nicoli, Stefano Ferrian, Alfonso Santimone, Luca Boldrin, Andrea Quattrini, Beppe Cacciola, Simone Zanchini, Paola Tagliaferro & Max Marchini, Raoul Moretti, Pierangelo Pandiscia & Gino Ape.

Il primo disco intitolato appunto L’Enfant è un tripudio di sperimentazioni Progressive e vocali che partono da atmosfere giocose e fanciullesche per svilupparsi in arie più languide, tenebrose e inquietanti. Si passa da cantati in latino, alla lingua italiana, dall’inglese al francese, dal Progressive più classico, alle digressioni psichedeliche e cosmiche, passando per motivi fiabeschi e lisergici o melodie più Pop, sempre alla maniera di Milano. Tutta la prima parte è dedicata ai membri familiari, per poi rivolgersi a Dio o agli amici e la resa musicale è rifinita da una strumentazione variegata e, a volte, inusuale. Pensiamo al marimba (una specie di xilofono di legno), al theremin, la fisarmonica, la tabla, l’arpa, il didgeridoo (una specie di lungo e grande flauto), il glockenspiel, altri strumenti fatti in casa, altre bizzarrie etniche, oltre ovviamente a cose più consuete, per modo di dire. Si passa dai testi del compositore francese Charles Gounod, a brani totalmente originali targati Claudio Milano e/o Marco Tuppo; da citazioni del compositore Umberto Giordano a collaborazioni importanti; da prestiti illustri da autori celebri come Agatha Christie, Federico Garcia Lorca o la Bibbia fino a una cover assolutamente degna di “Venus in Furs”, dei Velvet Underground.

Il secondo cd, intitolato Ashima, si apre subito nella più totale inquietudine, rafforzando ancor più quel legame tra improvvisazione jazzistica, canto sperimentale ed elettronica. La citazione tratta dai sottotitoli italiani del capolavoro di David Lynch, Twin Peaks, sarà il presagio dell’atmosfera che ci accompagnerà in questo secondo tempo dell’opera mastodontica che stiamo ascoltando. Altro indizio importante sarà la cover di “Song to The Siren”, probabilmente il brano più noto del genio Tim Buckley che è anche tra i suoi componimenti più struggenti. Oltre a sviluppare leggermente il discorso di sperimentazione musicale, evolvendo in suoni più moderni ed etnici, il secondo disco regala l’aggiunta della lingua spagnola, d’idiomi infarciti di babelica confusione (in questo senso, perfetta la scelta di realizzare una cover di “Warszawa”, brano scritto da David Bowie e Brian Eno, dal linguaggio immaginario e prettamente musicale) di nuova strumentazione, kargyraa, buste di plastica opportunamente tagliate, eccetera, eccetera, eccetera. Il disco si chiude con la versione number  two di “Gallia”, questa volta con testo in italiano (nel disco uno era in francese) e poi un pezzo strumentale volto ad allentare l’atmosfera. La prima parte cessa cosi. Vi ho detto tanto e invece non vi ho detto quasi niente di quello che c’è dietro ai due dischi che formano L’Enfant et le Ménure ed è già ora di mettere sul piatto un altro cd. Da questo primo tempo quasi giocoso e bambinesco si passa alla seconda parte, targata Nichelodeon e quindi su un terreno più battuto, vista la vecchia conoscenza con il supergruppo di Milano (anche geograficamente parlando) ormai in circolazione da circa sei anni e all’attivo piccoli gioielli di Avant Prog e Free Improvisation (come No o Il Gioco Del Silenzio), che narra motivi come il cannibalismo nei rapporti interpersonali nell’epoca contemporanea, non dimenticando gli orrori che guerre passate, come fantasmi, hanno lasciato sedimentare nelle nostre coscienze. Il booklet in questo caso contiene i dipinti e le poesie visive di Effe Luciani e le foto di Andrea Corbellini. Claudio Milano è affiancato da Raoul Moretti, Pierangelo Pandiscia e Vincenzo Zitello, Michel Delville, Walter Calloni, Paolo Tofani, Valerio Cosi, Fabrizio Modonese Palumbo, Alfonso Santimone, Stefano Delle Monache, Elio Martusciello, Paolo Carelli, Lorenzo Sempio, Max Pierini, Andrea Breviglieri, Andrea Murada, Massimo Falascone, Sebastiano De Gennaro, Giorgio Tiboni, Laura Catrani, Valentina Illuminati, Ivano La Rosa, Luca Pissavini, Alessandro Parilli, Francesco Chiapperini, Andrea Quattrini, Fabrizio Carriero, Anna Caniglia, Marco Confalonieri, Simone Pirovano, Simone Beretta. I dischi che compongono Bath Salts sono due capitoli della stessa pellicola. Il primo, sottotitolato D’Amore e di Vuoto e il secondo Di Guerre e Rinascite. Si tratta di una miscela spettacolare d’improvvisazione jazzy, sperimentazioni vocali, testi criptici ed evocativi, atmosfere incantate ed inquietanti che sembrano spaziare tra le pieghe della fantasia umana. Anche in questo caso non mancano pezzi presi a prestito da Bertold Brecht, cover di Peter Hammil e tanto altro. Le sonorità Progressive sono ora dilatate, ora liquefatte, ora attorcigliate e deformate, ora ricomposte in forme più consone lasciando alla voce gran parte del palcoscenico e della luce. Il canto di Milano si avventura verso i suoi limiti invalicabili ma non disdegna le tenui passeggiate nelle nuvole della melodia più popolare figlia della tradizione cantautorale tricolore. Nel secondo disco la voce si attesta su tonalità più gravi e le situazioni si fanno più crude, feroci. I temi essenziali, quali l’amore, la spiritualità, la vita lasciano il posto a freddi riecheggiamenti bellici, a temi come la morte, la guerra, la sofferenza fino alla rinascita, anche musicale, alla quale si assiste a partire da “L’Urlo Ritrovato”, forse il punto più alto dell’opera.

Il capolavoro è una beatificazione sonica delle arti che vengono nei quattro cd rievocate e mescolate, elevate e sporcate le une dalle altre; l’arte visiva è messa egregiamente in mostra all’interno dei booklet, con foto di pregiatissima fattura ritraenti le opere di diversi, già nominati, artisti. La poesia è sia raffigurata dai testi dello stesso Milano ma si sposa anche con le arti visive e con la musica e le rievocazioni delle opere di altri grandi autori del passato, più o meno recente. Il teatro è parte integrante del cantato di Milano e diventa uno dei tanti protagonisti di tutta l’opera. Pittura, scultura, poesia, teatro, cinema, musica, fotografia. Musica Rock Sperimentale, Jazz, Progressive, Pop, Cantautorato, Ambient, Psychedelia e poi una moltitudine di autori, strumenti, ricordi ed evocazioni.

Per chiudere il cerchio sarebbe opportuno gustarsi anche dal vivo le performance di Claudio Milano e di tutti i diversi pezzi da novanta che lo accompagnano nelle sue svariate avventure, ma non ho la possibilità fisica di farlo nell’immediato e quindi non mi resta che sigillare questo mio scritto, più un consiglio per appassionati che una vera recensione. Dovrei ora aggiungere la classica frase a effetto, che riassuma l’opera tutta, le emozioni suscitate e vi lasci la voglia di ascoltare i quattro dischi. Non ci riesco perché letteralmente mi ritrovo ancora bocca aperta, con un sorriso ebete, a bearmi di quanto ascoltato e di quello che L’Enfant et le Ménure / Bath Salts rappresenta anche ben oltre i significati artistici e le chiavi di lettura fornite dai sensi e dall’intelletto. Vi lascio allora alle parole di Claudio Milano, tratte da una sua vecchia intervista. Forse vi aiuterà a capire cosa c’è dietro tutto questo:

Nell’attuale idea di arte, sostanza e forma collimano così come creatività, professionismo e peso economico. Non è possibile intendere l’artista come qualcuno che non appare ripetendo alcune dinamiche ed essendo immediatamente riconoscibile. Arte oggi coincide con specchio, è manifestazione di una società che ci dicono, si “autocrea”, ma che in realtà è sottilmente “facilitata” da abili venditori. Per me, arte rimane invenzione di nuovi linguaggi di contenuto e forma significante, capaci di spostare, anche solo di un passo più in là, la nostra capacità di visione e percezione. Esistono tanti musicisti che lo fanno tutt’oggi, che trovano tristemente pochi mezzi per arrivare a un pubblico più vasto. Sarebbe bello che la critica musicale avesse percezione della sua storia, così come fa la critica che si occupa delle arti visive”.

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Il Santo Niente – Mare Tranquillitatis

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Conobbi Il Santo Niente tanti anni fa, non ricordo bene il giorno, né l’anno ma ricordo bene il luogo. Ero nella stanza della sorella più grande di un mio vecchio compagno di scuola. Avete presente quelle situazioni molto anni novanta, camerette piene di poster e musicassette e musica che scivola lungo i bordi delle pareti? Ricordo benissimo quel giorno in cui ascoltai per la prima volta la voce di Umberto Palazzo, ben prima di conoscere i Massimo Volume che molti vedono come una delle due metà del progetto iniziato dallo stesso Palazzo ma che in realtà rappresenta una linea parallela alla vita artistica de Il Santo Niente. Ricordo esattamente le emozioni che m’ispirò ascoltare le note di quei brani. “Junkie”, “È Aria”, “’sei na ru mo’no wa nai ‘i”, “Angelo Nero” e sul lato A della tape casalinga le tracce dell’opera prima, “Cuore di Puttana (Hardcore)”, “La Vita è Facile” e poi la coppia di cui m’innamorai subito, “Il Pappone” e “L’Aborigeno”. Ricordo con un brivido sulla mia pelle le sensazioni che provai nell’origliare quei brani, portare a casa quella musicassetta, inserirla nel mio mini sound system e iniziare la copia che gelosamente custodisco come un inutile ricordo sbiadito; copia che avrei poi perfezionato inserendo con cura, a mano, a uno a uno i titoli di La Vita è Facile e ‘sei na ru mo’no wa na ‘i. Da quella circostanza iniziò un rinnovamento estremista nel mio modo di discernere e scoperchiare la musica. Non più solo rifrazione dei miei amici infossati nel Punk e non più banale conseguenza di qualche fugace ascolto radiotelevisivo. C’era tutto un mondo in fermento sotto l’asfalto; una realtà underground pronta a esplodere nel suo silenzio, nella sua disperazione. Sono trascorsi ben oltre quindici anni da quel giorno e troppi dall’ultimo album targato Santo Niente, Il Fiore Dell’Agave ed è ovvio che, cosi come ho atteso con trepidazione l’uscita del primo lavoro solista di Umberto Palazzo e seguito il progetto El Santo Nada (viste le ovvie distanze, più per curiosità che per altro, considerando poi che io sono un tipo che lega più con i brani che con i compositori/esecutori), con maggiore partecipazione ho assistito alla genesi lenta di questa quarta fatica della band, Mare Tranquillitatis. L’ho ascoltata ormai una decina di volte in pochi giorni e la prima cosa che mi ha trafitto è che qualcuno tra noi deve essere cambiato perché, nello strato più abissale della mia pelle, c’è una linfa che non sembra scolare e non pare vibrare allo stesso modo di tanti anni fa. Ovviamente non sono io lo stesso; ho il doppio degli anni, diverse idee per la testa, un modo differente di scorgere il mondo, qualche pensiero pratico in più e alcuni falsi problemi in meno, qualche birra di troppo sulle spalle e parecchi acciacchi ma allo stesso modo non sono gli stessi quelli che sento nelle casse. Tutto ciò, per fortuna, aggiungo.

Chiunque non abbia ancora ascoltato l’album ma si sia imbattuto volente o nolente nel singolo “Le Ragazze Italiane” non si lasci trarre in inganno da questo pezzo cosi dinamico (anche se molto vicino al classico sound della band), ossessivo e dal testo e dalla melodia un po’ “paraculo”; sia che sia piaciuto che in caso contrario. È quanto di più estraneo si possa trovare nei quaranta minuti di musica di cui è composto Mare Tranquillitatis. È evidente una certa presa di posizione, di distanza, dalla rabbia Garage degli esordi, anche se le sfuriate introspettive Post Hardcore stile Jesus Lizard (“Cristo Nel Cemento”) tengono ancorata la band a quelle che sono le loro radici anni 90. Stessa cosa, sia a livello testuale sia musicale, per quanto riguarda la forma canzone classica che è quasi interamente lasciata alle spalle nel tentativo di sviluppare una strada più predisposta all’Art Rock che tendenzialmente si risolve in Spoken Word impreziositi da chitarre distorte, tutto molto in stile Massimo Volume, per chi ha apprezzato la formula solo da questi “cugini” artistici bolognesi, ma che in realtà era stata già impiegata, anche se con ovvie varianti narrative e musicali, da Palazzo e compagni.

Soprattutto le strutture ritmiche riprendono in un certo modo quella che è la corrente più importante del Rock sperimentale teutonico, il Krautrock di Neu! specialmente ma anche di Faust e Can, sviluppandone le esasperazioni in una formula moderna e più vicina ai gusti del pubblico post Y2K bug e mantenendo la parte avanguardistica a livelli accettabili, in contrapposizioni ad alcune follie pure (vedi The Faust Tapes ad esempio) dei padri fondatori. Una delle immagini più avvincenti del disco è la parte testuale che mette in secondo piano l’elemento autobiografico e si concentra piuttosto su una sorta di analisi sociologica dell’universo che circonda l’uomo che sta dietro alle canzoni. Esempio è proprio il singolo “Le Ragazze Italiane” che riassume in pochi versi tutto quello che significa essere giovani, donne, oggi, in certi ambienti tra cui, immagino, quelli della vita notturna pescarese, acquario in cui s’immergono costantemente gli autori. Non uno spaccato generalista di ciò che può significare essere una sbarazzina ragazza oggi in Italia e nessun subdolo sistema per giudicare tutta una generazione. Nessuna accusa ma solo un atto d’amore nei confronti di alcune donne che hanno nuotato nello stesso acquario di Palazzo e d’odio verso certi atteggiamenti puritani di chi non ama mai bagnarsi. Se nel singolo l’elemento testuale si materializza efficacemente in tutta la sua franchezza, molto più soffuse sono le luci che circondano gli altri brani. Si passa da pezzi ispirati dalla letteratura o dalla storia (“Cristo Nel Cemento” è un brano suggerito dall’omonimo romanzo di Pietro Di Donato, figlio di un muratore abruzzese emigrato in America mentre “Sabato Simon Rodia” è un emigrante in America, creatore delle Watts Towers di Los Angeles) a brani che narrano (quasi letteralmente, visto lo stile usato nei pezzi) storie di violenza, droga, adolescenza e delinquenza (“Un Certo Tipo di Problema”, “Primo Sangue”) e disagio (“Maria Callas”, nome di un anziano travestito).

Come detto, la musica di Mare Tranquillitatis è una sorta di esperimento che vuole unire elementi propri della tradizione Alt Rock italiana (che va dagli stessi Il Santo Niente fino ai Massimo Volume ma anche ai Csi, rievocati in alcuni passaggi di chitarra di “Un Certo Tipo di Problema” ad esempio) al Post Hardcore dei Jesus Lizard ma anche molto “albiniano” (“Cristo Nel Cemento”); congiungere il Rock aggressivo, banalmente e volutamente diretto tanto da essere subnormale in perfetto stile Stooges (“Le Ragazze Italiane”) alle eccezionali e perfette deformità del Krautrock anni 70; fondere l’Elettronica e le sue ritmiche “danzereccie” (“Primo Sangue”) alle cacofonie soniche estreme (“Sabato Simon Rodia”) passando per cenni di psichedelia. Umberto Palazzo prova a utilizzare come legante di questa indagine sonora il sax di Sergio Pomante (eccezionale la sua opera prima con gli String Theory, mio disco italiano dell’anno nel 2012) ma restano alcuni dubbi sull’opera. Assolutamente da apprezzare la parte testuale (chi critica questo elemento dovrebbe consigliarmi qualche ascolto italiano), che scivola via senza inutili e ridondanti pesantezze, lasciando invece tante preziose oscurità che si lasciano scoprire elegantemente ascolto dopo ascolto (penso al fatto che molti abbiamo letto “Maria Callas” pensando alla diva e che ora, riascolteranno il pezzo scoprendone lati impensati). Certamente è risultato piacevole il distaccarsi dai cliché dei primi album ma, personalmente, mi aspettavo qualche rischio in più da un compositore esperto come Palazzo. Ovviamente è un concetto relativo quello di azzardo perché brani come “Primo Sangue”, quello che ho più ammirato o “Sabato Simon Rodia” sono tra le cose più lontane dalla normalità per l’ascoltatore medio italiano. Resta troppo in primo piano la vocalità mentre avrei preferito che Il Santo Niente avesse dato maggiore possibilità espressiva alle chitarre e soprattutto al sax che poteva veramente elevare Mare Tranquillitatis a uno dei migliori album degli ultimi vent’anni oltre che, magari, dare un’impronta innovativa al lavoro che altrimenti resta ineluttabilmente infangato nei ricordi di passate correnti. Tante influenze che rischiano di incanalarsi nel ricordo di tempi andati e una ricerca di strade Art Rock e sperimentali che appaiono ancora molto lontane. Inoltre crea qualche perplessità un brano come “Le Ragazze Italiane”; molto diverso dal resto dell’album  finisce per confondere l’ascoltatore, anche e soprattutto prima ancora di ascoltare il resto. Può avere senso come gancio per il pubblico, dato il tema e le sonorità immediate ma niente di più.

Se proprio vi piace fare un raffronto con i Massimo Volume, mi assumo la responsabilità di dirvi che c’è molto più coraggio in questo disco che nelle loro ultime cose (alcune delle quali fatico a riascoltare, nonostante non ne neghi il valore) e c’è anche di più della pura temerarietà perché Mare Tranquillitatis riesce nella difficoltà di non annoiare pur dislocandosi dalle vie sicure della canzone italiana (chiamatelo pure cantautorato Indie, se preferite). Un disco che non dimenticherò di lasciar partire dalle casse nel breve tempo ma che mi lascerà comunque sempre con un profondo dispiacere per quello che sarebbe potuto essere. Parafrasando L’inizio di “Sabato Simon Rodia”, (“Puoi essere solo ottimo o pessimo. Se sei buono a metà non sei buono”) se la sperimentazione è solo a metà non è sperimentazione. Oppure possiamo fare meno i puntigliosi, vivere la musica per quello che è e goderci semplicemente un disco pregevole.

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The Letter Yellow – Walking Down The Streets

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Solo poche settimane fa mi sono io stesso ritrovato a parlarvi del lavoro di un duo di Brooklyn chiamato Live Footage, per metà rappresentato dal batterista e percussionista Mike Thies. Ora lo stesso Mike torna a farsi sentire con il debutto di The Letter Yellow, al fianco di Randy Bergida (voce, chitarra e synth che con l’altra metà dei Live Footage, Topu Lyo, forma gli Skidmore Fountain) e Abe Pollack (basso, lap steel e synth) per non dimenticare la special guest Beck Burger (piano, rhodes e organo).

Un debutto che vi anticipo carico di armonie e melodie malinconiche come passeggiate tra i viali di una New York colorata d’autunno e che racconta tutte le micro storie che questi letti d’asfalto rivelano ogni giorno. Una lunga camminata che parte da Greenpoint Brooklyn (quartier generale della band) attraversa le case di Bleecker Street, Hope Street, Harlem, Coney Island, lambisce quartieri nascosti, sorvola le linee ferroviarie di vagoni dipinti dalla strada, racconta dialoghi banali, innamoramenti, solitudine e ci porta dritti a scoprire la propria, di strada, dentro il caos della grande mela. Un album che va ascoltato con attenzione, anche nella sua parte testuale, perché proprio le parole saranno l’amplificatore emozionale di questo piccolo gioiello che, sotto l’aspetto musicale, presenta la stessa freschezza degli esordi di band ormai affermate del panorama Indie Pop, come Grizzly Bear o Fanfarlo. Eccezionale il trio iniziale “Changed”, “Hold Me Steady”, “I’ Can’t Get A”, meraviglia melodica, con spruzzate di tradizione Folk. Tre pezzi che, se approfonditi, perfezionati, e addobbati, specie nei crescendo pseudo orchestrali, sarebbero stati la chiave per inserire questo disco già nel limbo dei migliori dell’anno. Convincono meno invece i momenti più “neri” (“Hope Street”, “I Got You”) dove basso e voce prendono la testa della carovana. Per quanto apprezzabili le doti cantautorati di Randy Bergida, proprio la sua voce non sembra poter reggere sulle spalle lo scheletro di certi brani che dovrebbero trovare in lui la loro forza. Cosi come suonano inutili le ostentazioni Rock’n Roll di “14 Bar Blues”, che, per quanto sia solo un episodio sporadico dentro la tracklist, non ha il merito né di fare da intercalare a due tempi dell’album, né di allentare le tensioni soniche.

Meglio allora i pezzi in cui Randy Bergida si mantiene su binari più consoni, a metà tra il Folk Rock più popular che quasi ricorda gli Arcade Fire (“Hooray He’s Not Dead”), pur senza la magniloquenza e l’energia dei canadesi e derive quasi Chamber Pop. Molto meglio quando la musica abbraccia e danza con la sua timbrica (che troverete certamente familiare) scivolando senza patemi d’animo e inutili ridondanze stilistiche (“It’s Monday And I’m Dreaming”) in un Indie Folk ora più potente, quasi in stile british morrisiano (“Out on The Streets”) ma non solo (“In The Sun Making Waves”), ora più compassato e romantico (“Window”, “Southern Bound”).  Se dentro i dodici pezzi, le cose da cancellare sono veramente poche è anche vero che le cose che potremmo definire sopra la media sono anch’esse esigue e si limitano alla parte iniziale. Nulla è troppo originale o geniale ma quei tre brani che danno il via al cammino per le vie di New York suonano perfetti, melodiosi, evocativi, gradevoli, semplici ma mai spartani o grossolani e questo basta perché possano essere considerati come un ottimo inizio. Tutto ciò che viene dopo la traccia numero tre è pioggia e tuoni, schiarite, sole accecante dritto nelle pupille e vento freddo sulla faccia. Per non gettare tutto del tragitto basta guardare, come fossero foto, solo le cose più belle e sognare che il prossimo viaggio possa essere tutto come l’inizio di questa passeggiata.

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I 10 peggiori personaggi incontrati ai live estivi! Ci sei anche tu?

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Ed è finita un’altra stagione di concerti e festival, nonostante i tagli siano stati numerosi e abbiano ridotto di molto i live “delle grandi occasioni”. Non resta che programmare i concerti al chiuso che vorremmo andare a vedere nell’interminabile autunno-inverno e, nel frattempo, ricordarci la spensieratezza dell’estate. I pantaloni corti, le tipe in bikini e stivali anche a luglio perché gli stivali fanno Rock, le zanzare, la birra sempre sciacqua e sempre cara, il sudore del barbuto metallaro di fronte a noi, perché c’è sempre un metallaro a qualsiasi concerto, di qualsiasi genere e i rompicoglioni. E già… perché sì sì, che bello il live come momento di condivisione di una passione, sì sì che bello ritrovarsi lì, nello stesso posto, noi e centinaia di altre persone comenoi. Cazzate. Non ce la meniamo. A ogni concerto che si rispetti c’è sempre qualcuno con cui ciascuno di noi pensa di non avere proprio niente a che spartire. Esattamente come quando siete nella vostra spiaggia libera a leggere l’ultimo saggio che vi appassiona e di fianco a voi c’è quella che legge i romanzi Harmony o Novella 2000. O proprio come quando al mare siete lì a cercare relax e pace al largo, pensando a quanto sia bello farsi accarezzare dalle onde leggere e dal sole ma sentite dal bagnasciuga gente che impreca, starnazza o semplicemente passeggia con musica improponibile, a un volume improponibile che esce dal proprio smartphone, rigorosamente senza cuffie, così che tutti gli astanti possano compartecipare al cattivo gusto artistico del soggetto in questione.  Ai concerti è uguale. L’inopportuno, il rompicoglioni, quello che crede d’essere nel posto giusto e che magari si atteggia anche a grande frequentatore, grande appassionato, grande cultore e non ha mai imparato un minimo di etichetta. O quanto meno il vivere civile. Vogliamo ricordarli con voi, stilando un breve elenco che non vuole essere una classifica, ma solo una carrellata di macchiette da live con cui sicuramente vi sarete imbattuti anche voi. Così il quadro dei ricordi della nostra estate musicale può essere veramente completo. Eccoli:

1)      Il fotografo o cameraman raffazzonato che invece di guardare il concerto passa tutto il tempo con la macchina fotografica o il cellulare alzato impedendo anche a te di godere dello spettacolo. Nelle situazioni di scarso pubblico, alcuni s’improvvisano fotografi ufficiali piazzandosi nei posti più improbabili sul e vicino al palco.

2)      L’organizzatore di eventi che a fine concerto, palesemente ubriaco, blocca il cantante e ufficializza con contratto verbale una data a costo zero nel suo paesino, il prossimo anno, per la festa del patrono.

3)      Il fan che le sa tutte, le canta tutte, le canta male e, nelle pause, urla come una groupie di Justin Bieber in preda a crisi d’overdose. A fine concerto si lamenterà perché non hanno fatto il suo pezzo preferito nonostante per tutta la durata del live avesse suggerito la scaletta alla band, urlando il nome delle canzoni.

4)      L’indifferente e/o infastidito che dà le spalle al gruppo, rompe i coglioni chiedendo come possiamo apprezzare certa “roba”, sbuffa, si annoia ma dentro sta male perché vorrebbe scatenarsi anche lui. Non lo fa perché distruggerebbe la sua immagine di indie snob. Tende a sviare quando gli si chiede che cazzo ci sia andato a fare al concerto. Al limite risponde di aver avuto un accredito o di aver accompagnato qualcuno.

5)      Il giornalista. Ha avuto l’accredito stampa. Sta lì impassibile, passando il tempo a guardare ogni minimo movimento delle dita del bassista e giudicando ogni nota. Scatta al massimo un paio di foto che allegherà a un articolo, non balla, non ride, non può divertirsi. Lui sta lavorando. Ovviamente gratis.

6)      L’ubriaco che non ha neanche idea di chi stia suonando. Urla a caso, canta a caso, balla e poga a caso, litiga con quelli vicino, inveisce contro la band, sputa, suda (rigorosamente in canotta o a petto nudo) e ogni tanto vomita. Qualche volta è portato via dai buttafuori o da un’ambulanza.

7)      Lo spaesato. Ce l’hanno portato. Non voleva venire. Spesso è la ragazza o il ragazzo del fan. Non sa chi stia suonando e non sa nulla di musica che vada oltre Tv Sorrisi e Canzoni. Di solito ascolta la Pausini, Emma o Malika Ayane ma gli amici o il/la fidanzato/a non volevano lasciarlo/a solo/a di sabato.

8)      Quello che ci deve stare. Mocassino firmato viola, calzino leggero, pantaloncino lungo bianco, cinta a riporto, camicia di lino slacciata, petto abbronzato e depilato in bella vista, barba finto incolta e sorriso da piacione con cocktail in mano, per tutta la sera. Poteva suonare Gg Allin o i Pooh, lui sarebbe stato col gomito appoggiato a quel bancone.

9)      Il reduce degli anni 80 (anche 70). È sempre il più vecchio della serata, leggermente in sovrappeso; indossa una t-shirt di una vecchia band abbastanza nota ma senza esagerare. Ramones, Dinosaur Jr, Joy Division. Di solito è solo perché i suoi amici hanno famiglia, non beve troppo, non balla troppo, non si diverte troppo.

10)   Il commentatore. Ce ne sono di due tipi. Uno che parla bene di tutto e uno il contrario. Ti si piazzano di fianco e ti raccontano tutto sulla band, sulla serata, sul gruppo spalla, sulla loro vita, sulle loro passioni. Intervallano i momenti di semplice cronaca a considerazioni su quanto sia figo l’ultimo disco del gruppo, su quanto siano stati innovativi i riff del chitarrista o al contrario, si lamenta per il costo della birra, per l’assenza di parcheggi. Comunque, non sta mai zitto.

Sono anche loro che rendono speciale l’esperienza di un live che sia di un supergruppo o di una sconosciuta band Indie di Pavia. Ma inutile fare tanto i superiori, se leggi tra le righe, uno di questi dieci sei tu. Che numero sei? Io un misto tra cinque e nove.

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Murcof & Philippe Petit – First Chapter

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Questo primo capitolo è anche la prima collaborazione tra il barbuto genio (dell’Elettronica) di Tijuana Fernando Corona (in arte Murcof), dal 2001 in poi autore di alcune delle più luminose gemme Drone Music, Minimal/Ambient Techno e Glitch come Remembranza del 2005 e Philippe Petit, multistrumentista marsigliese, ex giornalista e Dj fortemente legato agli aspetti più sperimentali della musica Elettronica e Rock. L’opera è un trittico di brani, per una durata complessiva che raggiunge i quaranta minuti, che si rivela uno strumento di ricerca interiore attraverso l’esperienza meditativa. Lo stile utilizzato è quello consono ai due artisti e il più efficace per raggiungere il suddetto obiettivo. Si passa quindi dall’Elettronica Minimale alla Musica Cosmica, dall’Ambient alla Musica da Camera, passando per gli inserti elettronici Glitch tipici del messicano. Il pezzo d’apertura, “The Call of Circé” racchiude nella sua imponenza tutte le caratteristiche di quest’unione artistica, iniziando con una lieve, delicata, spaziale salita sonica che sfocia nei vocalizzi e nei cori barocchi del mezzo soprano Sarah Jouffroy. La manipolazione sonora di Murcof è già qui evidenziata e portata a livelli sublimi ma, nei passaggi successivi, riuscirà con prepotenza a mettersi in mostra, con vesti nuove, pur nella magniloquenza della multi strumentazione del francese.

Esempio di questa commistione tra struttura e aggraziato caos rumoristico è il secondo pezzo, “Pegasus”, nel quale è addirittura introdotta un’inquietante reminiscenza mediorientale nelle note di Philippe Petit coadiuvato dalla viola da gamba di Gabriel Grosbard. Se questi primi due lunghi momenti dell’opera prima del duo hanno rilevato la stilistica pura, nell’ultima traccia, “The Summoning of The Kraken” si concreta tutta la materia oscura accumulata in precedenza. Gli elementi d’angoscia e tensione sono sottolineati anche dalle puntuali pause mentre, a differenza della prima parte, sono ridotte all’osso le intelaiature più vicine alla realtà, preferendo scenari di stampo metafisico. Sono quindi gli iniziali circa venti minuti di “The Call of Circé” che danno a First Chapter tutta la sua forza espressiva. Sta tutto in quella cavalcata morbida; tutta la tecnica, il tocco magico e la natura psichica del duo che proprio in quel brano può trovare la propria strada eventuale futura, sviando da un semplicistico accostamento delle due forme espressive alla ricerca di una sommatoria che sia più della semplice addizione formale. I due passaggi successivi rivelano invece alcune sostanziali debolezze che vanno dall’eccessiva ostentazione manierata e convenzionale di “Pegasus”, al caos smodatamente deforme del brano di chiusura. Nessuna bocciatura, dunque, per questa coppia in prova che anche in quest’occasione si mostra un gradino sopra alla concorrenza ma solo l’esternazione di una speranza che ha sfavillato nella mia mente durante l’ascolto di “The Call of Circé” e che, per ora, resta tale. Una speranza.

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Land Lines – S/t

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Il progetto Land Lines è poco più della naturale prosecuzione di una lunga collaborazione tra un gruppo di amici intimi che, per oltre dieci anni, hanno suonato e scritto canzoni e musica insieme sotto il nome di Matson Jones, gruppo di Fort Collins, Colorado. Anche il quartier generale dei Land Lines è da individuare in quello stato federato degli Stati Uniti dalla forma rettangolare, non in quel piccolo paradiso che è Fort Collins ma novanta km più giù, nella capitale Denver, città resa mitica e immortale anche grazie a John Fante, Neal Cassady e Jack Kerouac.

Saranno quelle toccate dal mito della beat generation le linee di terra evocate dal trio Martina Grbac (violoncello, voce, percussioni), Ross Harada (batteria e percussioni) e Anna Mascorella (violoncello, voce, percussioni) in quello che è il loro primo full lenght ufficiale e che si annuncia come il primo di una lunga serie di lavori che ci presenteranno. Le dieci tracce altro non sono che una raccolta di canzoni rielaborate, originariamente scritte durante una pausa di quattro anni e ispirate dalle costrizioni della vita d’appartamento e poi registrate e mixate da Xandy Whitesel al Mighty Fine Audio di Denver e masterizzate da Bob Weston al Chicago Mastering Service.

L’opera si fonda su tre elementi portanti che si sviluppano e diventano l’emblema di tutto il sound e la proposta del trio americano. Per prima cosa c’è l’aspetto vocale, totalmente in mano o meglio affidato alle corde vocali di Martina e Anna. La loro voce diventa il protagonista quasi assoluto delle canzoni, l’elemento che permette alla musica di elevarsi e conquistare un’energia peculiare e assoluta. Non che la coppia dia uno sfoggio di tecnica senza uguali (diciamo che evitando ogni eccesso stilistico ci lasciano il beneficio del dubbio) ma riesce a inventare melodie avvolgenti e presentare una timbrica gradevole e forte, pur nella sua apparente delicatezza, ricordando per impostazione un’altra storica coppia femminile, le sorelle Casady conosciute come Cocorosie, anche se la voce delle due Land Lines, presenta spigolature e code ebbre più consone al grunge femminile anni ’90. Altra caratteristica importante è la struttura e l’architettura sonora (per lunghi tratti costeggiante il Dream e il Folk Pop) e gli arrangiamenti che riescono a essere perfetti senza suonare eccessivi; niente è di troppo e il risultato suona esattamente come dovrebbe, regalando momenti di femminea tragicità e altri di voluttuosa speranza, passaggi più eterei e altri maggiormente aggressivi, ora arricchendosi di fronzoli appariscenti, ora scivolando come un volo ad ali spiegate sotto la voce melliflua e ferma al tempo stesso. Ultimo fattore che diventa chiave di lettura di tutto quest’album che riprende il titolo dal nome stesso della band, è la presenza del violoncello di Martina e Anna, che riesce a sostituirsi con efficacia e ad accompagnare con eleganza le parti vocali, mentre la ridotta parte ritmica, si limita a ricalcare e portare il tempo delle musiche spesso ossessive, ben oltre le melodie vocali.

Se tutto sembra perfetto, nella sua semplicità e nel suo candore, è proprio nelle melodie che troviamo il muro più difficile da superare, perché se è vero che la musica dei Land Lines si presenta di una cedevole graziosità è anche vero che, per colpire, servirebbero quantomeno delle linee melodiche non solo ricercate ma anche d’impatto e immediatamente gradevoli. Le canzoni invece finiscono per suonare come un magma senza forma, pur se di bellezza innegabile. Un difetto da poco se si guarda all’interezza dell’opera ma che rischia di rappresentare un limite difficile da colmare, se si cerca anche un riscontro immediato del pubblico per sua natura, volente o nolente, legato all’impatto dell’orecchiabilità musicale. Non è un caso che gli episodi più riusciti siano proprio quelli nei quali tali limiti sembrano essere messi da parte per un attimo (“Bomb Blast”, “Sleepwalking”) e sono questi momenti del disco che lasciano intravedere possibilità sconfinate per i Land Lines.

Land Lines :: Wreckage from Mighty Fine Productions on Vimeo.

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Midnight Faces – Fornication

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Le due facce di mezzanotte che stanno dietro a questo progetto arrivato direttamente dalla capitale dello stato capitalista per eccellenza sono Philip Stancil e Matthew Warn. Warn inizia ben presto a fare musica con un amico d’infanzia, Jonny Pierce, poi voce dei The Drums (con lui Jacob Graham, Adam Kessler e Connor Hanwick), band Indie Pop in orbita dal 2009, con all’attivo due full lenght, l’omonimo esordio e “Portamento” del 2010, oltre a numerosi singoli, Ep e partecipazioni a compilation. Dopo un primo album pubblicato con l’amico Pierce, Warn fonda insieme a Josh Tillman (dall’anno scorso ex batterista dei Fleet Foxes, oggi più noto come Father John Misty), i Saxon Shore, formazione Post Rock di buonissimo livello.

I Midnight Faces nascono dall’incontro di Warn con Philip Stancil, anche lui cresciuto con la musica intorno, giacché la sua è proprio una famiglia di musicisti. Warn aveva già realizzato le parti strumentali e invitò quello che ne è il compagno artistico ad aggiungere le sezioni vocali. Prese cosi vita questo Fornication.

Dieci tracce, dieci canzoni melodicamente Pop ma dai mille retrogusti. Si passa da alcuni momenti più oscuri, quasi Darkwave, specie nella sezione ritmica e negli echi delle chitarre (“Fornication”, “Kingdome Come” “Turn Back”), ad altri nei quali la vocalità e l’approccio cantautorale di Stancil prendono il sopravvento (“Identity”, “Heartless”). Tanti sono i passaggi nei quali l’Alt Rock (“Crowed Halls”) si addolcisce per seguire strade più popolari e di più facile ascolto (“Give In Give Out”, “Now I’m Done”), grazie anche a un’attenta e puntuale ricerca melodica e moltissime sono le congiunture nelle quali tutta la vita di Warn e quindi le sue conoscenze personali, più o meno dirette (abbiamo detto The Drums, Fleet Foxes, Saxon Shore), sono riportate in musica. I brani più riusciti sono quelli nei quali il Dream Pop particolarmente sintetico si sposa con l’elettronica creando suggestive ambientazioni filmiche, a tratti danzereccie quasi eighties (“Feel This Way”, “Give In Give Out”, “Kingdome Come”) in uno stile perfetto che richiama il grande Anthony Gonzales (M83) ma anche, volendo ampliare il proprio spettro di vedute, i Depeche Mode (“Holding On”), cosi come gli Slowdive, ovviamente con ritmi più dinamici.

Un disco che miscela quindi atmosfera e melodia, con cura ed eleganza, puntando forte sulla voce ma senza tralasciare l’aspetto strumentale, elettronico soprattutto. Sceglie melodie orecchiabili e non calca troppo la mano su artifizi di alcun tipo finendo però per sprofondare nell’altro versante della questione. Eccessiva semplicità che si trasforma in povertà d’appeal e melodie che, per quanto gradevoli, finiscono per essere di facile oblio, perché troppo simili le une alle altre. Dieci episodi che si presentano, in linea di massima, tutti ugualmente apprezzabili e facilmente godibili, senza però riuscire a suscitare un interesse che vada oltre la semplice amabilità sonora. Per chiudere, se avete difficoltà a trovare mezze misure, questo è il disco perfetto per affibbiare la vostra sufficienza, niente di più, niente di meno, almeno per questa volta.

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Live Footage – Doyers

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Un album imponente. Questo è più di ogni altra cosa il secondo lavoro del duo di Brooklyn Topu Lyo (cello, sampler) e Mike Thies (drums, keyboards). A distanza di tre anni dal buonissimo esordio di Willow Be, tirano fuori un’opera costruita su ben diciassette tracce, rigorosamente strumentali, per la durata limite di quasi settanta minuti. Un disco che vi permetterà di godere pienamente del loro estro e vi giustificherà le parole di una certa critica che li pone tra i migliori compositori di colonne sonore surreali in circolazione. Corde ed elettronica, batteria e tastiere, realtà e sogno si mescolano alla perfezione per creare una suggestione sonica indimenticabile, resa ancor più umana dall’aspetto dell’improvvisazione esecutiva.

“L’assenza di limitazioni è nemica dell’arte”. Parte da quest’aforisma di Orson Welles il duo statunitense per mettersi a realizzare Doyers. Sono queste parole del genio della regia (ma non esclusivamente) che fanno da mantra al lavoro dei Live Footage, durante le registrazioni e la creazione delle diciassette (numero che in terra di Obama non genera gli stessi gesti scaramantici) gemme in questione.
Le limitazioni amiche dell’arte, in questo caso, possono essere tante e riferite a una miriade di diverse questioni tecniche, creative e non solo, ma quelle che saltano più all’orecchio, sono quelle dirette delle note, che sembrano spaziare e volteggiare nell’infinità del cosmo ma in realtà, alla fine dell’ascolto, vi renderete conto essere parte di una precisa galassia, uniforme e delimitata, pur se enorme. Tutto ha limite, anche se nella sua apparente illimitatezza e sta solo nel punto di vista dell’osservatore che tali limiti si rendono in parte visibili.

La musica dei Live Footage passa con disinvoltura da eteree e riverberate atmosfere lisergiche e Psych Rock (“Broklyn Bridge”, “Asian Crane”, “Lucien”) a un sognante Dream Pop più stile Beach House che Sigur Ròs utilizzando spesso le stesse forme del Post Rock mogwaiano, fatto di crescendo continui e muri di chitarre, o dello Slowcore Glitch (“Purgatory (The Storm Has Passed)”, “Broklyn Bridge”). L’ossessione ritmica dell’inizio di “Foresight” anticipa altri punti di vista, tendenti al Jazz e non mancano divagazioni addirittura nei territori della Dub Music (“Mortality”), della Drum’n Bass (“Going Somewhere”, “New Breed”), della musica sudamericana (“Caipirinha”), dell’elettronica di chiara matrice Kraftwerk (“Korean Tea Shoppe”, “Computer is Free”) o anche il Rock alternativo contaminato da ritmiche Funky, ovviamente sempre in combutta con un liquefatto e caldo Ambient (“Secret Cricket Meeting”) o il più fumoso e oscuro Trip Hop (“Ant Colony”). Eccezionali i passaggi più spiccatamente Film Score/Soundtrack (“Just Moving Parts”, “Airport Farewell”) nei quali si rende ancor più palese e chiaro il concetto di surreale applicato all’opera dei Live Footage.
Ovviamente, se ancora non avete ascoltato Doyers, vi starete chiedendo come possa io parlare di limiti ma poi tirare in ballo una quantità di generi musicali sconfinata. Come già vi ho detto, dovete ascoltare per capire. Ogni influenza sembra schizzare qua e là, apparentemente senza controllo ma in realtà, se provate ad allontanare per un secondo l’anima dalle note, noterete che la musica dei Live Footage, si ammorbidisce, quando deve suonare più forte e s’indurisce quando invece mira alla leggiadria. In questo modo, si crea una linea imprecisa che, come il volo d’un uccello, apparirà più armonica, con l’allontanarsi dello sguardo.

Per chiudere, non posso che rinnovarvi le mie promesse. Ascoltate e poi ditemi, basta leggere le mie parole, o impazzire dietro ad esse. Citando Welles, le promesse sono molto più divertenti delle spiegazioni. Quindi, buon divertimento.

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Faz Waltz – Back On Mondo

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Il ritorno dei comaschi Faz Waltz, dopo Life on The Moon, è ancora una volta più che convincente, almeno sotto l’aspetto estetico e caratteriale. Convince la copertina (opera dello stesso Faz La Rocca) in bianco e nero che mostra il power trio alle prese con un cannone da circo e tanto fumo; convince il nome dell’album, Back On Mondo, semplice, diretto, ironico e magniloquente al tempo stesso. Convince la scelta di legare le tredici tracce in tracklist con un concetto portante, la ricerca di una propria dimensione, umana o aliena, lavorativa o geografica, senza per questo appesantirne il risultato e sminuire la potenza dei brani presi nella loro singolarità.

Il terzo lavoro dei Faz Waltz, con una line up rinnovata e registrato in analogico su nastro a due pollici, è un frullato di Rock’n Roll, Psych Rock anni Sessanta, Glam, Pop-Punk e Blues Rock. Una miscela esplosiva di energia, come polvere da sparo, come un cannone pronto a mandarti in orbita. Uno degli elementi più forti nell’album è il Blues Rock, in stile Black Keys (“The Fool”, “I Wanna Find my Place”, “Cannonball Blues”, “Little Home”, “Get Poison”), che starebbe da dio in una pellicola di Tarantino e Rodriguez, reso perfettamente dal lavoro a voce e chitarra di Faz La Rocca; me le parti che più mi convincono sono le sfuriate Glam dei padri T-Rex o New York Dolls, ancor più che David Bowie (“Pay Your Dues”, “Leave Her Alone”) che, anche se povere di originalità come tutto questo Back On Mondo, quantomeno propongono una formula meno abusata negli ultimi anni. Saranno certamente gradite agli ascoltatori legati alla melodia messa al servizio della furia sonica le esplosioni Garage Rock Revival (“Looking For a Ghost”, “Baby Left me”, “Get Poison”) tanto care a Hives, The Libertines o The Strokes. Altro rimando importante è ai Sixties, alle sonorità sia Pop stile Beatles o Kinks (“Clown On The Scene”, “Wrong Side of The Gun”, “Get Poison”), sia psichedeliche e Blues, alla maniera degli Stones, magari i più romantici (“King of Nowhere”), e questa vena di passato sarà udibile, anche se non sempre con la stessa pulsione, dalla prima all’ultima traccia.

Ancor più interessanti i momenti in cui questi influssi si abbracciano con vigore, generando brani che sfruttano i punti di forza di tutte le svariate influenze della band. Esempio il secondo pezzo, “Fingers in my Brain”, in cui la spinta del Garage prende fuoco sotto le note folli del piano di Faz La Rocca, ma anche la splendida “Leave Her Alone”, danza Glam che diventa uno spettacolo per le orecchie grazie ad una melodia semplice quanto accattivante, piazzata sopra ritmiche incandescenti. Un ottimo lavoro sia in fase esecutiva sia in fase compositiva che ha il solo enorme difetto di suonare vecchio già dalle prime note. Avete presente un oggetto creato oggi in uno stile retrò? Oggi è una modernità vintage, tra dieci anni sarà solo vecchio. Allo stesso modo, se il revival Blues Rock di decenni fa aveva un sapore vintage, la sua riproposizione quasi identica puzza di vecchio. E non basta mettersi a correre sui binari delle note Garage o ubriacarsi di Glam per apparire diversi da quello che si è.

All’inizio vi ho detto che Back on Mondo è una miscela esplosiva di energia, come polvere da sparo, come un cannone pronto a mandarti in orbita. Ricordate la copertina? Back on Mondo non è un cannone da guerra e non ha polvere da sparo ma uno di quegli aggeggi da circo il cui fumo è solo finto e a spararti in aria in realtà è un’inoffensiva molla. Back on Mondo è un cannone che ti spara in aria solo un po’, ti fa sorridere, ti fa smuovere il culo ma di certo non fa paura e non fa male a nessuno.

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À L’Aube Fluorescente

Written by Interviste

À L’Aube Fluorescente è la band vincitrice di AltrocheSanRemo Volume4. Nella nostra home potete vedere il loro banner e cliccandolo visitare la loro pagina Facebook mentre a breve avrete la possibilità di leggere la recensione del loro nuovo lavoro e vedere il primo videoclip proprio del pezzo che li ha portati alla vittoria. Nel frattempo Silvio “Don” Pizzica li ha intervistati e il risultato, che potete leggere di seguito, è una bella chiacchierata che spazia dalle curiosità del progetto, alla loro formazione, da qualche incomprensione (vedi domanda in cui si citano i MaDeDoPo, che volevano essere presi solo come esempio di band che ce l’ha fatta non solo grazie alla musica e non un riferimento stilistico), alle critiche e i complimenti della nostra redazione, per passare agli Smashing Pumpkins e a Steven Wilson, fino alle critiche alla critica musicale. Una lunga chiacchierata, una intervista vera in cui scoprirete l’anima di una band giovanissima che prova a fare le cose da grandi, districandosi con eleganza anche tra le questioni più spinose. Signore e signori, À L’Aube Fluorescente.

Ciao a tutti. Per prima cosa come state?
Ciao a te ed a tutta la redazione di Rockambula che ci ha concesso questa intervista. Siamo tutti carichi al punto giusto, pronti per i prossimi live!

Partiamo dalla domanda più banale di questo mondo. Come è nato il nome À L’Aube Fluorescente? Cosa significa, oltre il mero significato letterale? Perché il francese, visto che non c’entra molto con il vostro stile “anglosassone”?
Diciamo che la risposta che cerchi è all’interno della domanda che hai posto. Il nome si basa proprio su questa voglia di distaccarsi, almeno per quanto riguarda il primo impatto, da quello che è lo standard dei gruppi alternative rock italiani e stranieri. Ormai siamo abituati ad una marea di termini inglesi che sono entrati costantemente nel nostro vocabolario (e non fraintenderci, è assolutamente un bene) ma semplicemente ne eravamo un po’ stufi. È stato anche un modo per rinnovarsi, per respirare aria fresca. È dunque più che altro un’esigenza personale, senza nulla di particolarmente pretenzioso. Inoltre crediamo che in un certo senso la musicalità della lingua francese si sposi in maniera perfetta con la musica che cerchiamo di proporre, nonostante i testi siano scritti in inglese. È una sorta di assonanza inconscia che ci è venuta naturale sin da subito, già dalle prime prove quando lavoravamo ai primi arrangiamenti. Per quanto riguarda il significato preferiamo rimanere piuttosto coperti a riguardo, proprio per non togliere la possibilità a nessuno di associare il nome a quello che sente quando ascolta i nostri pezzi. Possiamo solo dirti che per noi esprime un profondo senso di rinascita, musicale e non.

Raccontateci molto brevemente come nasce questo progetto, cosa avete fatto fino ad ora e quali sono le strade artistiche percorse dai vari membri.
Le nostre strade artistiche sono molto simili; pur ascoltando generi di musica a volte molto distanti, abbiamo sempre avuto un’enorme passione per quella che suoniamo, eccezion fatta forse per Alberto, il nostro batterista, che dopo l’incontro con Paride (chitarra) in una cover band antecedente a questo progetto, si è avvicinato in modo prepotente all’alternative rock (che poi nella nostra musica ha un infinità di sfumature per i motivi sopra citati), entrando dunque nella line up definitiva. Jacopo (voce e basso) porta avanti diversi side project, come i Sixty Drops (l’ep uscirà ad Ottobre) e l’Articolo Il (duo con Lorenzo Lucci ormai super affermato in zona). Francesco (chitarra) lo trovate a suonare ovunque ci sia bisogno di un chitarrista, ci dorme pure con la chitarra, anche se ormai abbiamo abbastanza monopolizzato la sua attenzione!

Come descrivereste la vostra musica?
Beh domanda da un milione di dollari. Facciamo molta fatica anche noi a classificarci e a dire il vero non ci piace nemmeno molto. Sicuramente possiamo essere inquadrati in quell’enorme calderone che è l’Alternative Rock ma è un po’ come dire tutto e dire niente. Per far riferimento ad una cosa un po’ inusuale diciamo che in ogni arrangiamento cerchiamo sempre di essere il più raffinati possibile, evitando quelle che secondo noi sono scelte vistose, atte a far emergere il singolo strumento penalizzando il risultato finale. Facciamo tutto in funzione del pezzo. Se un chitarrista deve fare due accordi tutto il tempo per la miglior riuscita del brano non c’è nessun problema. La voglia di emergere come singoli non ci appartiene. In questo senso definiamo la nostra musica raffinata (non tanto per chi ascolta, quello è un giudizio che spetta agli altri) ma proprio per il modo che abbiamo di lavorare.

Parlateci del vostro ultimo lavoro in studio. Credo sia anche il primo, giusto?
Si è il nostro primo EP e si chiama Soar. Sarà anticipato dall’uscita del videoclip di Brand New Stupid Words, che avete già avuto modo di ascoltare. È stato registrato durante il maggio di quest’anno presso l’Acme Recording Studio di Davide Rosati, che è stato anche a tutti gli effetti un produttore artistico. Quello che ne è venuto fuori è un qualcosa ben oltre le nostre aspettative proprio perchè in studio si è creata subito una forte alchimia tra noi e Davide, che ci ha permesso di lavorare molto bene e senza nessun timore di esprimere in modo sincero la singola opinione su ogni arrangiamento. Questo aspetto è stato molto importante per dare ad ogni pezzo quel qualcosa in più che temevamo mancasse alla fine delle registrazioni. Siamo molto soddisfatti.

Come nasce una vostra canzone e cosa ritenete che sia una canzone?
Molto spesso Jacopo costruisce quelli che ci piace chiamare “scheletri”; si tratta sostanzialmente di bozze di testo e linea vocale su una melodia di basso o pianoforte. Da lì cominciamo a costruire gli arrangiamenti e ne prepariamo diversi per ogni strumento, finché non troviamo la combinazione ottimale. Altre volte si parte da riff o giri di chitarra molto semplici che vengono man mano resi più articolati, sempre nel rispetto del registro stilistico del pezzo. Poi Jacopo fa un lavoro altrettanto meticoloso di completamento dei testi, accompagnato da discussioni che spesso facciamo tutti insieme sul loro significato . Siamo piuttosto pignoli sulla questione grammatica e pronuncia, è un aspetto a cui teniamo tantissimo, forse spesso sottovalutato da molte band nostrane. Una canzone è nient’altro che un’evasione dal concetto di tempo per noi. Viviamo le nostre giornate scandite in un certo modo e molti non sanno nemmeno bene perchè. Una canzone è quell’elemento che messo nell’equazione dello scorrere del tempo quotidiano la scombina, la sbilancia.

La vostra dimensione ottimale è quella “elettrica” ma non disdegnate serate live in acustico. In fondo è uno scendere a compromessi per poter avere più spazio possibile, no? A cosa sareste disposti a rinunciare e a cosa non rinuncereste mai per un pezzo di successo. Cosa sareste disposti a fare per diventare i nuovi Management Del Dolore Post Operatorio (perdonatemi la provocazione)?
Ma no, non si tratta di scendere a compromessi, anzi. Amiamo profondamente l’acustico, siamo cresciuti col mito di quegli unplugged straordinari che solo gli anni 90 hanno saputo darci ed è logico che ne siamo allo stesso tempo estasiati ed affascinati. Ci piace (ri)arrangiare i pezzi, trasformarli e dargli una nuova luce. È quello della musica che più amiamo. Gli acustici per noi non sono uno scendere a compromessi, ora come ora sono quasi un’esigenza. È bello ritrovarsi in intimità e far ascoltare i propri pezzi come sono nati: con un basso praticamente spento, la porta della camera socchiusa ed una chitarra acustica. Per quanto riguarda il discorso delle rinunce è una politica che non ci appartiene. Noi sappiamo fare musica solo in questo modo, non conosciamo altre strade. Speriamo di riuscire a piacere per quello che siamo, è l’unica cosa che possiamo augurarci. Un pezzo pop non sapremmo nemmeno farlo! Per quanto riguarda la domanda sui Management la risposta è molto semplice: nulla. Ma non è una risposta dettata da gusti personali. Oggettivamente non abbiamo proprio nessun elemento che possa essere di contatto con una realtà come quella del gruppo abruzzese che hai citato (a parte essere abruzzesi, è ovvio!), non vediamo dunque come possa essere possibile seguire un percorso artistico simile. Sicuramente le strade che dobbiamo battere sono altre, e sono quelle che vogliamo perchè ce le siamo scelte.

Siete i freschissimi vincitori del nostro concorso AltrocheSanRemo Volume4. Perché avete scelto di parteciparvi e cosa vi è rimasto di questa esperienza?
Ci sembrava un’ottima vetrina per poter far ascoltare il singolo prima che uscisse ufficialmente, per testarlo diciamo, ed è andata molto bene. È stata un’esperienza che ha consolidato in noi ancor di più la consapevolezza riguardo l’importanza che ha oggi il web nel proporre musica.

Vincere un concorso come questo non è solo questione di qualità ma anche di conoscenze. Quanto è importante per voi avere un pubblico di affezionatissimi, spesso amici, che vi supporta? Non pensate che avere sempre quel gruppo di supporter della porta accanto ai vostri concerti, possa trasformarsi negativamente in un’ancora che vi lascia agganciati ad una dimensione provinciale?
Beh per una band che esiste ufficialmente da qualche mese (dato che siamo stati per molto tempo in sala prove ad arrangiare la scaletta che oggi proponiamo dal vivo) è già tantissimo avere un gruppo di supporter della porta accanto. Basta rendersi conto di dove si vive, di che situazione musicale c’è e quali possibilità di suonare in giro. Non abbiamo paura di confrontarci con realtà estranee alla nostra, basti pensare che siamo stati selezionati per suonare al Voci Dal Sud music festival a Salerno dove apriremo , insieme ad altre band, il concerto di Meg, Ettore Giuradei e Valerio Jovine. Un risultato assolutamente stupefacente se si pensa che la nostra prima data insieme ufficiale è stata il 4 maggio scorso ( se escludiamo una breve apparizione “confusionaria” nei primi mesi di sala prove).

Passiamo alle domande più “toste”, derivanti anche da alcune considerazioni scaturite dalla vostra partecipazione alle preselezione di Streetambula (p.s. complimenti, siete tra le 8 band finaliste che suoneranno il 31 agosto a Pratola Peligna (AQ)). La redazione di Rockambula ha evidenziato in voi alcuni limiti e alcuni punti di forza importanti. Ad esempio hanno criticato la poca originalità e l’eccessiva somiglianza con band come Placebo o con Melissa Auf Der Maur; qualcuno non ha apprezzato l’apparente necessità di scandire le parole da parte di Jacopo e la troppa povertà del suono delle chitarre. Particolarmente apprezzata invece la capacità di ricerca melodica, cosi come la tecnica vocale (evidente che Jacopo non si sia improvvisato cantante), e anche la pulizia sonora. Rispondete voi, come preferite, alle critiche e ai complimenti. P.s. uno solo dei redattori è stato particolarmente duro affermando che “non sono di nessun impatto e dovrebbero rivedere l’intera struttura sonora”.
Beh essendo una primissima uscita era ovvio che le critiche non potessero mancare. Sicuramente già ora, rispetto a quando abbiamo preparato i pezzi per l’ep ci sentiamo musicalmente molto cresciuti;di certo non credevamo di arrivare sulla top ten americana con un primo ep, registrato in 4 giorni. Ha ovviamente tutti i limiti che un primo lavoro , fatto molto in fretta, può avere. Ci sono delle cose da migliorare e da correggere, certo prima di esprimere giudizi di una certa rilevanza si dovrebbe tener conto delle tempistiche in studio che una band agli inizi può avere. Per quanto riguarda il sound delle chitarre è una scelta fortemente voluta. Non siamo i primi a farla e non saremo gli ultimi, è una questione di gusti di chi ascolta. Alla fin fine è solo il gusto personale che determina il successo o l’insuccesso di un brano, i tecnicismi servono a chi fa le recensioni, ma non sono quelle che fanno andare bene un singolo. Potrei dirti che il suono di Slash a me personalmente non piace, così come quello delle chitarre dei My Bloody Valentine (quasi vuote) mi faccia impazzire. A critiche e complimenti va dato il giusto peso. Siamo consapevoli di dover lavorare, le critiche ci aiutano a capire dove e come possiamo alzare la qualità.

Sul discorso dell’originalità, non siete certo gli unici che hanno guardato alle strade sicure e già battute del passato. È cosi pericoloso rischiare e provare a fare qualcosa di nuovo o semplicemente è impossibile essere considerati se si prova a sperimentare?
Questa è una domanda che leggiamo spesso nelle interviste di molte band. Molte webzine battono su questo discorso dell’originalità pensando che sia ancora una domanda “scomoda”. In realtà non lo è affatto. Seguendo questa linea di pensiero non avrebbero senso il 90% dei movimenti musicali che oggi esistono e vengono portati avanti. Dovremmo far chiudere baracca a tutto il Punk, a tutto il Post Punk, il Black Metal, il Post Grunge ed a tutti quei generi che vengono costantemente riproposti. Basti pensare che perfino i Sigur Ròs sono riusciti a diventare banali agli occhi della stampa musicale. Senza nulla togliere al grande lavoro che Rockambula fa per la musica emergente è una questione su cui c’è veramente poco da dibattere. Se c’è il talento emergi, qualunque sia il genere che proponi. Questo discorso poi in Italia vale doppio, proprio perchè rispetto agli altri paesi del mondo, a parità di genere, serve molto più talento.

Torniamo a cose più leggere. Abbiamo parlato di Placebo e Melissa Auf Der Maur. Ma quali  sono le band che più vi hanno influenzato e a cui più somigliate?
Beh due le avete già citate, le altre sono tantissime. Sarebbe impossibile farti un sunto. Diciamo che i punti fermi sono due: Smashing Pumpkins e A Perfect Circle. Non sappiamo quanto le ricordiamo, ma sicuramente ci hanno influenzato tantissimo.

Consigliatemi due band esordienti, una italiana e una straniera e quello che ritenete sia il miglior disco del 2013, italiano e straniero.
Beh in Italia gli About Wayne sono riusciti ad avere un grande seguito, nonostante le critiche nei loro confronti fossero sempre le solite, riguardo l’originalità e la questione delle strade conosciute. Per quanto riguarda l’estero i Bwani Juction sono una realtà scozzese molto interessante (restando sempre nell’ambito di gruppi strettamente esordienti). Sul discorso del miglior disco la domanda si fa molto personale. Diciamo che possiamo consigliare quelli che secondo noi sono due buoni dischi: l’omonimo Giuradei dei fratelli Giuradei e The Raven That Refused To Sing (and other stories) del mitico Steven Wilson.

Non vi chiedo certo perché cantate in inglese ma invece sono curioso di sapere di cosa parlano i vostri testi. Pensate che a chi vi ascolta interessino veramente le parole? Sono cosi importanti i testi nella musica Rock soprattutto?
Non sono semplicemente importanti, sono importantissimi. Veicolare un messaggio è il primo obiettivo che qualunque artista dovrebbe porsi e non essendo un gruppo strumentale il testo assume un’ importanza primaria. I nostri testi riconducono esperienze spesso personali ad una dimensione più ampia, generalizzata, attraverso un forte processo di trasformazione che a livello del tutto teorico dovrebbe portare l’ascoltatore a poter dare il significato che vuol vedere all’interno di quel pezzo. Tutto questo ovviamente tenendo costante il messaggio di fondo che deve essere percepito in maniera inconscia. Diciamo che è un grande metodo per mandare un messaggio senza imporlo. Crediamo molto nella forza delle idee non imposte, ma condivise.

Perché un ascoltatore, un nostro lettore, dovrebbe dare fiducia e il suo tempo a voi, prima che agli altri, non potendo darli a tutti?
Ci piacerebbe che chi sceglie di seguirci e supportarci possa avere il tempo per fare la stessa cosa con tutti i gruppi emergenti che ritiene meritevoli. È proprio il fenomeno delle “tifoserie” che ha contribuito ad uccidere la qualità della musica in Italia. Che trovi il tempo allora per tutti quelli che vuole supportare; la musica restituisce sempre molto più di quello che chiede.

Dove pensate di poter arrivare, in concreto? Quale è invece il vostro sogno e il vostro incubo di musicisti?
Per ora, molto in concreto, vogliamo solo arrivare alla realizzazione del nostro primo full length Non facciamo piani decennali. Il nostro sogno è quello di fare un buon disco ed entrare nella casa di qualche sconosciuto che decide di accendere lo stereo ed ascoltarci. Niente di più. Di incubi al momento non ne abbiamo, solo tanta voglia di fare e di fare bene.

Per un attimo non parliamo di voi. Come sempre, provo a farmi dare un nome. Quale è la band o l’artista Indie italiano più sopravvalutato in circolazione?
Dai, diciamo che tu ci hai provato e il tuo dovere l’hai fatto! Noi manteniamo il silenzio stampa per adesso, è troppo presto per giocarsi qualche nome. Metti che poi ci tocca suonarci, che si fa?!

Come detto, il 31 agosto parteciperete alle finali di Streetambula, music contest organizzato dalla nostra testata in collaborazione con Nuove Frontiere. Tanti premi importanti in palio, presenza garantita di etichette come la Indelirium Records, la V4V, la To Lose La Track (e tante altre) e rappresentanti di webzine importanti come Rockit, Ondarock, Mola Mola, Stordisco, ecc… Voi perché avete scelto di partecipare? E avete avuto modo di conoscere le altre band in gara? C’è qualcuno che vi ha colpito?
Beh che domanda! Abbiamo voluto partecipare proprio perchè avete fatto un lavoro straordinario di organizzazione e di coesione. Un’occasione che un gruppo emergente come il nostro non poteva farsi sfuggire. Abbiamo avuto modo di conoscere la musica dei Too Late To Wake in maniera approfondita e sono davvero una grande band. Sarà un piacere conoscerli e condividere il palco con loro (così come con tutti gli altri). Nei prossimi giorni ascolteremo per bene anche tutti gli artisti in gara. Non sentiamo la competizione, solo una grande voglia di confrontarci e imparare magari qualcosa dagli altri. È sempre bello passare delle giornate con dei musicisti.

Cosa avete in programma per l’immediato futuro? Album, live, video, qualunque cosa!
Intanto è imminente l’uscita del videoclip di “Brand New Stupid Words”. Sarà un videoclip animato realizzato da Tonino Bosco. Non vi diciamo di più per adesso. Poi gireremo a breve un altro video per promuovere un secondo singolo, dobbiamo ancora definire diversi dettagli. Sotto il punto di vista live avremo un agosto stra-pieno e ne siamo ben felici. Gireremo davvero parecchio e appena possibile pubblicheremo un calendario ufficiale. Poi sicuramente ci rimetteremo per bene a lavoro su tutti i pezzi che faranno parte del nostro primo album. Per ora non ci siamo dati una scadenza, vediamo come va la promozione dell’ep e poi decideremo il da farsi. Insomma, tanto lavoro e tanta strada da fare, ma tanta voglia di farla!

Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto? Poi, se volete, rispondetemi.
Diciamo che essendo la nostra prima intervista non siamo abituatissimi a parlare, e per ora, ci sembra di aver parlato fin troppo! Speriamo che le canzoni possano essere per tutti una spiegazione più che sufficiente in merito a tutto quello che ci riguarda!

Ciao Rockambula e grazie di tutto! Stay alternative!

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Tre Tigri Contro/Amelie Tritesse – Tre Tigri Contro Amelie Tritesse 7” split

Written by Recensioni

Partiamo dall’occasione. Record Store Day. Nato nel 2007 dalla mente di Chris Brown è molto semplicemente una giornata (terzo sabato di aprile) celebrativa per tutti i negozi musicali indipendenti, durante il quale le band realizzano ristampe, dischi ad hoc, remix e tutte le possibili prelibatezze e rarità che ogni buon collezionista sognerebbe di possedere. L’occasione di questo split è proprio il Record Store Day, sesta edizione. Un 7”, 200 copie in vinile nero e busta di cartone pressato, 100 copie in vinile colorato in scatole di cartone ondulato con copertine dipinte a mano. Già immagino i collezionisti folli con la bava alla bocca. Oltre al feticismo c’è però la musica e ci sono due formazioni di punta della scena alternativa abruzzese, due band che hanno diviso palchi, sudore e gioia. Da un lato Amelie Tritesse (Teramo) con “L’Agnello di Dio” e il loro classico Read’n Rocking, una miscela di parole e suoni, musica e testo, di Spoken Word e Alt Rock che si piazza a metà strada tra Massimo Volume e Art Brut. “L’Agnello di Dio” non aggiunge nulla a quello che gli Amelie Tritesse ci hanno spiegato essere già due anni fa con l’uscita di Cazzo ne Sapete Voi Del Rock’n Roll. Una storia, raccontata più che cantata, ironica e surreale per certi versi, con una timbrica, un’impostazione vocale (Manuel Graziani, l’artefice), un accento e una sonorità che sarà snervante, quasi insopportabile per alcuni, ma che, al tempo stesso, ha reso gli Amelie una creatura dalla firma distintiva. Il secondo brano dello split è invece una sorpresa. Loro sono i Tre Tigri Contro (Giulianova), power trio emergente che, nel brano “I Lunedì al Sole (Io Non Voglio Lavorare Più)”,  unisce l’ironia di un certo cantautorato italico, tra Rino Gaetano e il Claudio Baglioni di “Portaportese”, all’energia, l’irriverenza e la follia dei più attuali Zen Circus. Del circo Zen sembrano ricalcare anche lo stile dei testi, che, per quanto possano far storcere il naso agli ascoltatori più intellettuosnob, è innegabile riescano a strappare più di un sorriso (“Io non voglio lavorare più! / Davanti al televisore ventidue ore al giorno / e le altre due le vivrei solamente di porno”). I due brani di Tre Tigri Contro Amelie Tritesse, sono molto diversi uno dall’altro ma stanno benissimo insieme, come i due risvolti della stessa medaglia, come due modi diversi di affrontare la vita, diversi e eppure simili perché legati da un sottile filo di disillusione. E alla fine aver avuto tra le mani una delle trecento copie dello split sarà un piacere anche per le orecchie, oltre che per il nostro spirito di feticisti incalliti.

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