Silvio Don Pizzica Author

Era così tanto un bravo ragazzo. Poi ha conosciuto la trap.

The Colla – Ad Ovest di Paperino

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Più che un disco quello che sto per farvi conoscere è un progetto dal valore innegabile e che merita la più alta e autorevole attenzione possibile. Partiamo da lontano. Dall’inizio degli anni 80, quando un trio denominato The Colla (Nicola Contini con D. Parisini e S. Head) se ne va in giro per l’Italia con un’altra triade, comica però, che risponde al nome de I Giancattivi. Loro sono Alessandro Benvenuti, Francesco Nuti e Athina Cenci, tre pezzi di storia del’umorismo e del cinema italiano che purtroppo proprio l’Italia ha un po’ abbandonato a se stessi negli ultimi decenni. È il 1982 quando il terzetto fa il suo esordio sul grande schermo con Ad Ovest di Paperino (in realtà non il protagonista disneyano ma…), pellicola un po’ strampalata già dal titolo che si estende attraverso una trama surreale e paradossale che racconta di tre giovani che aspetteranno domani, dentro una giornata di non-sense. Alla regia c’è Alessandro Benvenuti e il film diviene presto il manifesto di un nuovo modo di confezionare comicità e cinema, slegandosi dalle dinamiche delle rigide sceneggiature e dei copioni teatrali. Chi ci sarà a mettere in musica le follie di un film cult della New Wave fiorentina come Ad Ovest di Paperino se non i The Colla e Alessandro Benvenuti? E cosa può essere accaduto nel 2013 che abbia riportato alla mente il nome di The Colla e di quella sensazionale colonna sonora?

Avviene che un progetto del Centro Italiano di Fukuoka dedicato esclusivamente alla musica tricolore e alla riscoperta di alcune sue opere perdute nel tempo, chiamato On Records Japan (le sue realizzazioni sono distribuite in Italia da Audioglobe), dopo aver messo mani all’album dei Gronge, Cremone Gigante per Soli Adulti, veste anche quest’album e ne realizza un Cd rimasterizzato composto dalle undici tracce originali più il video inedito del brano “Marta”, opera del musicista, film maker, editore e artista Riccardo Cioni. Un album che musicalmente unisce le avanguardie zappiane, con le esperienze Film Score di Keith Jarrett, la World Music e la New Wave, senza dimenticare le contaminazioni elettroniche e il Pop in stile anni Ottanta.

Sono gli stessi autori a esprimere a parole meglio di chiunque altro quello che racchiude un album come questo. Dado Parisini: ”Rivedere e risentire dopo tanti anni Ad Ovest di Paperino è per me una forte emozione, sia per i mille ricordi di quel periodo sia per la fatica per ottenere con i mezzi dell’epoca un risultato a mio parere sorprendente. Trovo che siano delle idee musicali ancora molto attuali e divertenti che contengono molte delle tendenze degli ultimi anni. Incroci, contaminazioni ed emozioni scevre da preconcetti e dogmi musicali troppo prevedibili. Sono molto orgoglioso di aver fatto parte di questo gruppo di artisti sensibili e visionari che hanno sicuramente influenzato la mia carriera artistica”.

Head invece racconta che: “il disco fu registrato a casa mia con un 8 piste Tascam 8078 da mezzo pollice. Fu praticamente un miracolo. Poi lo mixammo Dado ed io sul primo esemplare del banco Solid State Logic dopo aver riversato tutte le 8 piste su un 24 piste Studer. Ma come rimasi male dopo l’ascolto del trasferimento su vinile; molte frequenze agli estremi furono tagliate senza pietà per via della forte dinamica di alcuni brani rendendo tutto molto piatto. Con la rimasterizzazione credo siamo riusciti a recuperare invece tutto quanto. Un motivo in più che ne giustifica una ristampa appetibile anche per chi aveva la versione originale in vinile.”

Una ristampa che è molto di più dunque che la somma della grandezza delle singole tracce, cosi avanguardistiche e folli, molto più di una voglia di riscoperta di un passato musico-cinematografico italiano. Una ristampa che è una delle migliori cose che siano uscite nell’anno in questione.

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White Mosquito – Il Potere e la sua Signora

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La seconda prova dei genovesi White Mosquito si apre (“Candido”) con esigue note spirituali, tenui, estatiche che lasciano presagire ambientazioni cosmiche e psichedeliche molto retrò, ma già con l’ingresso autoritario (“Solite Parole”) di sezione ritmica, voce e taglienti sferzate elettriche sono messi sul piatto ingredienti acidi e possenti anch’essi molto stagionati ma con uno spirito certo più battagliero di una semplice lisergia introspettiva. Sia nei testi, sia in timbrica e impostazione la voce di Sergio Antonazzo si mostra in tutta la sua aitante bellezza che permette di varcare confini dell’irriverenza beffarda, molto teatralmente Progressive, ma anche di sterzare insolentemente verso territori più aspri, indemoniati e rabbiosi. L’opening track, esclusa l’intro, è un sensazionale manifesto per la band, che racchiude in poco più di cinque minuti tutta una serie di prerogative e caratteristiche che poi contraddistingueranno tutta l’opera.

L’ascolto di questo Il Potere e la sua Signora è anche la chiave di lettura per comprendere pienamente il perché, dopo l’Ep d’esordio 20 Grammi, i White Mosquito abbiano potuto aprire una delle date live dei Deep Purple. Proprio la band di Ian Gillan pare uno dei punti di riferimento più evidenti ma non mancano certo paragoni sia con l’Hard Rock tendente al Folk/Blues con sottigliezze in stile Led Zeppelin (“Dimmi”) e sia con quello più robusto alla maniera degli australiani Ac/Dc (“Demone”). Eppure anche la tradizione italiana più datata di scuola Litfiba (“Forme”, “Non Smetto”) come la più attuale aperta dagli Afterhours (“Stato Confusionale”) è omaggiata in quanto a stile e forma espressiva e la stessa scelta di accompagnare con la lingua nostrana un sound tanto anglosassone è sintomo della necessità per i liguri di legarsi alla propria terra, in qualche modo cantandone le contaminazioni, la storia e il presente.

Quella lisergia e quelle ritmiche ripetitive che paiono elevare un muro sonico nello stile dei Pink Floyd più istrionici si ripresentano con la traccia numero quattro (“Manifesto”) nella quale, oltretutto, la vocalità di Antonazzo può sbizzarrirsi scivolando di volta in volta in meandri poetici e colleriche sfuriate che si chiudono con un inquietante fischiettio che richiama un noto motivo che non vi svelo, anzi vi sfido a riconoscere. Un intermezzo giocoso (“Anche Qst è Rocchenroll”) dalla difficile interpretazione apre la parte finale del disco che talvolta (“In Faccia”) nasconde delle miscele tra un moderno Alt Rock e un più classico Progressive, racchiudendo delle infinite possibilità per un genere forse messo nel cassetto con troppa solerzia. Se “Le Solite Parole” suona come un programma che evidenzi le qualità di Il Potere e la sua Signora, al contrario “Nuvola” ne mostra i limiti. I White Mosquito azzardano un testo aggressivo che sfocia nell’inverosimile, propongono un’effettistica e cenni di sperimentazione che restano solo degli abbozzi di qualcosa che sarebbe potuto essere, ma non è. Caricano le materie di veleno ma non riescono a suonare con la stessa veemenza, forse troppo attenti a non oltrepassare i limiti.

Un album di pregevole fattura quanto ad esecuzione e pieno anche di buone idee. Un disco che, per quanto peschi a piene mani dal passato, riesce a non suonare vecchio lasciando intravedere alcuni spunti potenzialmente affascinanti. I White Mosquito scelgono la strada più difficile per non apparire obsoleti, la strada più difficile per suonare originali e per farsi apprezzare dai più giovani ma dimostrano anche di avere i mezzi per scavare nuove vie di fuga dagli anni andati. Magari iniziando dalla stupefacente, per versatilità, voce di Sergio Antonazzo. Per quanto di pregio palese non avremmo avuto bisogno di un album come Il Potere e la sua Signora ma potremmo avere bisogno di band come i White Mosquito.

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Blevin Blectum – Emblem Album

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È da tempo che ci ribadiscono che il futuro del Rock è nell’Elettronica e qualcuno ci aveva pure creduto. A distanza di tredici anni da Kid A già cominciano a fare dietrofront in tanti e il futuro del Rock diventa, di volta in volta, “il vintage”, “la riscoperta degli anni 80”, “il revival Rock’n Roll”, “la sperimentazione cinese”, “gli Arcade Fire”, “la Dubstep”, “il Pop”, “il Blues Rock classico”, “il Lo-Fi”, “il Minimalismo”. Sono passati quarantacinque anni dall’omonimo album dei Silver Apples e a quanto ho inteso l’Elettronica non è mai stato il futuro ma solo uno dei tanti mezzi con i quali il Rock si è confrontato e allo stesso tempo una realtà a sé stante, disgiunta dalle dinamiche di mercato e dalle tensioni emotive del Rock. L’Elettronica è un mondo a parte nel quale, di tanto in tanto, i protagonisti della scena Rock si inabissano per cercare nuove vie d’ispirazione (vedi Reflektor). Il futuro è la contaminazione e la distruzione delle classificazioni. Forse e forse lo sottoscrivo ma forse farò dietrofront anch’io, un giorno.

Tuttavia, c’è chi sembra calarsi perfettamente in questo ruolo dell’Electronic Music di secondo interlocutore e prosegue per la sua strada cercando non di scoprire come sostituire corde e pelli nelle nostre orecchie ma come spalancare nuovi varchi stilistici per un settore che ha ancora tanto da dire. Una di loro, di questi neo romantici dell’astrattismo musicale, si chiama Blevin Blectum (voce in A Chance to Cut Is a Chance to Cure e The Civil War, entrambi album degli straordinari Matmos) e da fine millennio cerca una formula ideale miscelando sostanze, spesso con scarsi o modesti risultati, ma che, nelle ultime cose, pareva aver trovato l’ingrediente segreto mancante.

Anche questa volta, giunta al quinto album solista, Blevin Blectum edifica tutto un mondo sonoro (con un utilizzo minimo delle parole) che regge su strutture artificiali ben delineate procedendo lungo la scia di Gular Flutter, album del 2008 nel quale l’artista sembrava essere riuscita a indovinare e rendere a pieno il senso della sua proposta. In apertura scoviamo le due parti di “Cromis” le quali, nella loro semplicità, figurano come l’inizio esemplare di una tanto attesa risposta a chi chiedesse all’Elettronica di cambiare il suo ruolo. Ritmiche e suoni scomposti ma ossessivi fanno da contraltare a una vocalità destrutturata ma puntuale. Manca una melodia precisa eppure le ritmiche poggiano su solide basi tanto da rendere il brano orecchiabile nella sua sventatezza. Ben presto però il sound si altera, perde consistenza, diventa un’accozzaglia neanche troppo articolata di suoni (“Nanofancier”) elettronici alternati in maniera metodica su uno sfondo di illusorio caos che richiama in maniera netta lo stile dei Matmos (“Deathrattlesnake”) ma non riesce a eguagliarne l’intelligenza e la complessità sostanziale. Poche cose, non troppo interessanti e mescolate maldestramente e una delusione evidente in chi, come me, si apprestava ad ascoltare un gioiello, dopo Gular Flutter e dopo l’ascolto dell’opening track. Mi attendevo una strada piena di ritmiche incalzanti, di voci straniate e stranianti, di suoni compositi, variegati e cangianti e per quasi cinquanta minuti subisco un attacco furioso da un quasi nulla sonico buono solo ad annoiarmi senza neanche riuscire a farmi addormentare.

Emblem Album è un passo indietro per Blevin Blectum, greve e in parte inatteso ma è solo un insignificante passaggio a vuoto per il mondo dell’elettronica intelligente che forse non sarà il futuro del Rock, ma di certo ne ha uno tutto suo, pieno di accecanti colori al neon.

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KK Null, Israel Martinez, Lumen Lab – Incognita

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Vi avverto che non vi sarà sufficiente rintracciare qualche stralcio sul web, scaricarne versioni a risoluzioni indegne o leggere questa recensione per afferrare fino in fondo di cosa si tratti. Vedete di recuperare il Cd perché l’unico modo di goderne esaurientemente è ficcarlo nel vostro stereo, spegnere le luci, mettere su le cuffie e alzare a volumi tollerabili, una tacca prima che comincino a sanguinare le orecchie.

Kazuyuki Kishino e i fratelli Martinez sono gli artefici di tale gioiello Ambient Noise e che ci fosse lo zampino di qualche “fottuto giapponese” mi era parso se non inconfutabile quantomeno plausibile già dal primo ascolto. Il Giappone che incrocia il Messico (forse è ora che cominciate a prendere sul serio i messicani in quanto a Elettronica, se Murcof non vi era bastato) di stanza in Germania sembra garanzia di un prodotto eccezionale in chiave Avant Electro Noise e, con sommo dispiacere per gli amanti dei colpi di scena, le cose stanno esattamente cosi. Dalla capitale nipponica, KK Tull incontra Israel Martinez e insieme iniziano a condividere e adoperarsi su insoliti suoni elettronici e registrazioni, scrutando nuove strade di sperimentazione che li indurranno a miscelare sessioni improvvisate, incisioni ambientali e processi elettroacustici computerizzati.

A questo punto il messicano sceglie di chiedere l’apporto di suo fratello Diego, meglio conosciuto come Lumen Lab (a dire il vero anche Israel era parte del progetto fino al 2002). Il lavoro procederà per mesi a sei mani fino a Incognita, il disco in sei tracce che si scoprirà non solo come un miracolo di Ambient Noise, Experimental Rock, Avantgarde e quant’altro; non solo come il palesarsi delle possibilità umane quando il genio, le qualità, le capacità di diversi soggetti s’incontrano e non solo come un crocevia geosonico che lega Giappone, Germania e Messico, mescolandone le peculiarità sonore moderne.

Il Giappone ha una tradizione Noise ed Experimental che un paese come l’Italia non raggiungerà neanche nei prossimi cento anni di vita. Partendo da Yoko Ono, si finisce con disinvoltura a nomi eccelsi, come Boredoms, Kazumoto Endo, Keiji Haino e tanti altri. Il Messico, come abbiamo capito, è la nuova frontiera della musica Elettronica e il ruolo della Germania non ha bisogno di spiegazioni.

L’album è strepitoso per motivi molto elementari. Per prima cosa, l’ascolto di queste quattro tracce senza nome (i titoli sono semplicemente numeri progressivi da “1” a “4”) si è un’esperienza sensoriale sovrumana. Udendo in cuffia, vedrete una molteplicità di suoni levarsi, slanciarsi da un emisfero all’altro del cervello, disgregarsi, ricomporsi, ingrossarsi eppure, nonostante si tratti per gran parte di sonorità antitetiche a quelle del classico Pop e Rock e allo stesso modo lontane dall’elettronica più ballabile, mai i vostri neuroni accoglieranno le vibrazioni come cacofonico rumore (solo il brano “2”, e la seconda parte di “3” metteranno seriamente alla prova i meno abituati a certe note “altre”), ma tutto batterà come un fluire naturale, inquietante ma allo stesso modo distensivo, che talvolta evoca angoscianti paesaggi claustrofobici e spaziali al tempo stesso (come in “3” e “4” ma non solo), grande contraddizione dei viaggi interstellari, ma anche industriali (in “3” sembra di ascoltare una motosega ma non è l’unico momento di questo tipo) mentre in altri si rende al mondo naturale. Nel finire del brano “1”, un minaccioso drone in crescendo è stravolto da sciabordii acquatici d’indefinibile provenienza, che, grazie a un lavoro di mastering pazzesco, creano una sorta di vuoto nell’ascoltatore, quasi da far mancare il respiro, fino al manifestarsi di cinguettii iperrealisti in contrapposizione con suoni che evocano echi da spelonca. Altra grande peculiarità di Incognita è che, nonostante il ruolo centrale sia affidato ai droni e nonostante i brani siano di lunghezza superiore alla media, il suo ascolto scivola via con naturalezza, senza suonare mai ripetitivo, noioso, ridondante, eccessivo, tanto da richiederne una fruizione ripetuta, quasi come in una sorta di assuefazione.

Incognita (disponibile anche Terra Incognita, un’edizione limitata in vinile) è un album riflessivo ma non tedioso, oscuro ma non demoniaco, un album che non solo racchiude diverse esperienze musicali ma che racconta una storia d’amore a quattro tra le nature umana, terrestre, celestiale e un’intelligenza artificiale.

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Connect-icut – Crows & Kittiwakes & Come Again

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L’uomo che si annida dietro lo pseudonimo Connect-icut altri non è che un produttore di musica elettronica di Vancouver, non nuovo ai cultori del genere più attenti alle uscite del sottobosco underground e poco devoti alle facilonerie del mainstream. L’artista canadese è una new entry in casa Rev Laboratories ma non è in ogni caso un esordiente, avendo già pubblicato, per vie diverse, Moss del 2005, poi LA (An Apology), They Showed Me the Secret Beaches e Fourier’s Algorithm, quest’ultimo tre anni fa. Se, come abbozzato, non è certo il pubblico ad aver sancito il successo di Connect-icut, non sono mancate lodi da parte del mondo Alternative, su tutte quelle di Thurston Moore dei Sonic Youth.

Cosa c’entra un produttore/compositore di musica elettronica con le guide spirituali del Noise Rock è presto detto. Se il punto di partenza e lo scheletro che poi sostengono tutto l’impianto sonico di Crows & Kittiwakes & Come Again è il Glitch, a metà tra Fennesz, Murcof e soprattutto Oval (“Imperial Alabaster”, “Port Shale”), queste deformità tecniche del suono sono talvolta esasperate in chiave rumoristica, quasi Noise appunto, ma con una naturalezza irreale, del tipo che, nel corso degli anni, abbiamo apprezzato ad esempio nello Shoegaze, specie strumentale, dei My Bloody Valentine (“Fading Twice”). Una mistura di brividi elettrici, rumore, vibrazioni, martellamenti, esplosioni soffuse che invece di plasmare suggestioni industriali e apocalittiche concepiscono un flusso naturale, suonando con la stessa genuinità dell’esistenza. Rumore ed elettricità che divengono sinonimo di paradisiache atmosfere eteree.

Certamente non scarseggiano passaggi di Minimal Synth e Ambient (“Carrion Pecking”) densi di tenebre, foschi, inquietanti, che tuttavia non fanno altro che dare ancor più vitalità all’opera, come fossero il fianco oscuro dell’esistenza, orribile ma inevitabile, e, allo stesso modo, Connect-icut utilizza gli strumenti della Drone Music (“Pratice Rot”) per squarciare l’impianto emozionale tirato su dall’ascolto della prima parte del disco. Tutti gli ingredienti sottolineati non devono tuttavia essere intesi come spaccature nette tra i brani, in quanto ogni materia che da forma alle canzoni è presente in ognuna di esse anche se in modo diverso, con difforme intensità. Ciascuno dei sei brani, compreso il conclusivo minimale “Again Now (For Matt)”, esalta l’impianto Glitch, le atmosfere Ambient e le pulsioni Noise, evocando apparati scenici irreali ed estatici su orizzonti neri e da incubo. Non c’è mai, in nessun momento di Crows & Kittiwakes & Come Again una precisa linea di demarcazione tra quello che è il bene, evocato dalle note più solerti, e quello che è il male ma tutto si confonde, si miscela, ora smascherandosi ora celandosi in una sonora ed estatica trasposizione occidentale dello yin e yang.

Un album inappuntabile per chi volesse immergersi totalmente nel fluire della propria coscienza, per chi cerca strumenti leciti e sani per valicare le barriere dei sensi. Un album ineguagliabile per chi volesse cimentarsi a dovere con un’elettronica da ascolto di spessore, ma non è mai riuscito ad andare in fondo ad un lavoro del precettore Oval o si annoia dopo cinque minuti di droni ronzanti nella testa. Un disco perfetto per iniziare ad ascoltare musica elettronica di qualità senza il timore di dover abbandonare per manifesta incapacità di ascolto.

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Midas Fall – Fluorescent Lights

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Non sono proprio tra i più accaniti ammiratori dell’arte canora pura. Certo, non resto impassibile all’ascolto di esecutori capaci e incantevoli e ammetto che taluni timbri mi hanno fanno innamorare in un passato remoto ma anche, con meno enfasi, negli ultimi mesi. Il mio approccio alla musica non eleva la voce rispetto agli altri interpreti o meglio valuta in base al peso che la stessa ha all’interno delle canzoni e mi rende capace di apprezzare non solo e necessariamente tecnica e timbrica ma anche intensità emotiva, assonanza con il brano, rispetto degli obiettivi sostanziali ed emozionali. È questo modo di ascoltare che mi permette di seguire voci tanto distanti con la stessa gioia, con lo stesso entusiasmo, consapevole delle differenze di peso che le qualità canore dei diversi artisti possono avere nelle opere.

È per questo che riesco a sognare ascoltando Tim Buckley e piangere sotto le note sbilenche di Daniel Johnston; ed è per questo che non resto affascinato dai tre pezzi che compongono l’Ep Fluorescent Lights dei Midas Fall, che segue il secondo album Wilderness. Un lavoro che si presenta come Alt Post Progressive ma, nella realtà, si riduce a un esercizio di stile per i Midas Fall tutti e per la vocalist Elizabeth Heaton soprattutto. La musica non mostra alcuna variante rispetto alla proposta passata della band britannica, con qualche chitarra velatamente sferzante che si staglia su una sezione ritmica martellante e cenni di piano enfatici e il tutto si mette al servizio della voce della Heaton la quale certo non mancherà di trovare l’apprezzamento degli appassionati ma non entusiasma me per l’eccessiva banalità timbrica e una linearità e un’omologazione che non nobilitano le sue strofe rispetto a una qualsiasi interprete Pop, anche di casa nostra. Un Ep Rock come potrebbe esserlo quello di una cantante Pop italiana come Elisa, che si gioca il suo all in puntando quasi esclusivamente sulla voce ma torna a casa con le tasche vuote e qualche gadget di consolazione.

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Giuseppe Zaccardi e i De Rapage alle prese con il primo premio di Streetambula.

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Se ancora qualcuno non lo avesse capito, Streetambula altro non è che una costola di Rockambula nata come Contest/Festival lo scorso anno ma che si sta rinnovando in un Progetto teso a progettare gratuitamente eventi in tutto il centro Italia, per le band che ne richiedano l’iscrizione sempre senza pagare alcuna somma. Streetambula inoltre è Contest programmati in diversi momenti dell’anno (il prossimo poco prima di Natale in collaborazione con gli studi della QB Music) ma il suo cuore, quello per cui tutto lo staff, non solo di Rockambula, si adopera durante i dodici mesi, è il grande evento di Agosto.

La scorsa (prima) edizione è stata un successo di pubblico ma anche di partecipazione, grazie al coinvolgimento di tantissime realtà locali e non, dagli studi Acme, fino alle etichette V4V Records e Protosound, da una music selector targata Rockit, fino a redattori di Stordisco, Ondarock, Musicalnews. Quelle citate però sono state solo una minima parte di quello che è stato Streetambula che prima di tutto era ed è una gara tra band emergenti, una competizione dalla quale nessuno esce sconfitto ma pur sempre una sfida, con se stessi più che con gli altri. Dopo un pari merito con A’ L’Aube Fluorescente, a spuntarla saranno i De Rapage, i quali sceglieranno come premio un servizio fotografico offerto da Giuseppe Zaccardi, fin da subito entusiasta della nostra idea di Contest/Festival e che poi ha ribadito il suo apprezzamento: “L’esperienza Streetambula l’ho trovata molto positiva, apprezzo molto il fatto che si tratti di una manifestazione dedicata a chi fa musica propria a differenza di chi sceglie la facile strada della cover/tribute band che tanto va di moda adesso! Proprio in quest’ottica ho deciso di mettere in palio il set fotografico”.

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Qualche settimana fa, la band di Rock Scostumato teatina ha avuto la possibilità di godere del premio vinto sul campo e noi di Rockambula siamo andati a vedere cosa avrebbero combinato. Tra balzi impossibili in cave ascoste in mezzo ai boschi del Parco, spazi angusti tra salsicce e padelle unte e liquori improponibili in salotti lynchiani, Giuseppe Zaccardi è riuscito a tirare fuori l’anima da una delle più belle realtà del panorama Rock nazionale di quello che non si prende troppo sul serio ed ecco a voi il risultato: ” Farlo con i De Rapage (il set, che credete ndr) poi è stato particolarissimo, loro non fanno i matti, sono matti proprio! Scherzi a parte, belle persone, abbiamo passato una bella giornata insieme e il risultato è stato molto positivo, provare per credere! Un ringraziamento allo staff di Streetambula, a Silvio in particolare, ai De Rapage e a tutti i gruppi che hanno partecipato alla manifestazione”.

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Non è solo Giuseppe ad aver apprezzato perché anche la stessa Band ha scoperto di avere un cuore, anche se sporco, a modo loro: ”L’esperienza del set fotografico ha reso Giuseppe Zac uno di noi, del gruppo. Alla fine della sessione aveva imparato più parolacce di Ficurilli (voce del gruppo ndr) e aveva iniziato a parlare con le macchine fotografiche: SKEEEERZO!!! Oppure era Schillaci (il chitarrista più anziano ndr) che era troppo brillo per ricordarsi alcunché e si sta inventando tutto”.

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Effettivamente eravamo in montagna e non potevano scarseggiare né gli arrosticini tipici di ogni buona scampagnata abruzzese né il vino rosso, di quello fatto in casa. E se alla fine qualche foto sembra uscita come si deve, il merito è tutto di Giuseppe che intuisce la necessità di lavorare strenuamente, senza pause, prima che l’alcol faccia il suo effetto. “Dalle foto è evidente che eravamo tutti in relax completo, abbiamo discusso di ogni singola esposizione/diaframma/vi piace?/fa paura che ci si presentava”.

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Un’esperienza bellissima anche per noi, oltre che per i De Rapage, per la prima volta alle prese con un professionale lavoro di fotografia. “Essendo la prima sessione di foto del gruppo la cosa che ci è venuta spontanea è stata l’unica che sappiamo fare: rompere il culo a tutti, anziché con le chitarre con le immagini, però. Zac è stato grande.”

E se l’unico che sembrava sapere esattamente cosa stesse facendo era il solo Giuseppe, nessuno potrà rimproverarci lo scarso impegno, nostro e dei De Rapage, diligenti ed euforici come ragazzini al primo giorno di scuola. “Per la sessione non abbiamo esitato ad affettare cipolle sulle chitarre, svegliarci presto, bere liquori strani risalenti al ‘700 e fare davvero gli stupidi, sotto lo sguardo divertito di Zac, e più tardi, di Silvio Don Pi e consorte che sono venuti a trovarci. Bello, bello, bello.

Non posso che aggiungerne anch’io, e per farmi perdonare qualche minuto di ritardo, arrivo a quattro; bello, bello, bello, bello! Sotto a chi tocca.

Qui tutte le foto.

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Trupa Trupa – ++

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Devo ammettere di non essere mai stato troppo attento alla scena underground polacca eppure, proprio quest’anno, finisco per imbattermi in un paio di perle veramente niente male, considerando che, vado a memoria, prima di loro per me la musica polacca era, al massimo, le colonne sonore di Franz Waxman o le composizioni di Chopin. Poi, quasi per caso, mi capita di ascoltare prima il gioiello Drone degli Stara Rzeka, Cień Chmury Nad Ukrytym Polem, tra le migliori cose ascoltate nei mesi andati e poi questo più confacente e ordinario ++ dei Trupa Trupa. La prima cosa che ho notato è una sorta di bassa fedeltà volontaria per il corpo del sound e involontaria in alcuni passaggi, evidente nell’opera degli Stara Rzeka ma che si presenterà lampante anche nella chiusura della prima traccia di questo ++ quando il pezzo è troncato bruscamente e in malo modo. Certo, due indizi non fanno una prova ma mi viene il dubbio che nell’ex Polska Rzeczpospolita Ludowa l’attenzione alla forma sia meno maniacale che in altri lidi. Eppure non è certo questo quello che resta quando l’ascolto diventa reiterato, ossessivo, maniacale. Quello che emerge è una capacità di suonare moderni, attuali, quasi innovativi, senza scomodare troppo l’estro.

Il suono dei Trupa Trupa è tutt’altro che polacco, anzi pesca a piene mani dalla tradizione britannica più o meno datata, eppure mantiene intatta un’atmosfera cupa, cruda, che odora di Post-Punk post bellico, carico di rabbia e nero come una ribellione solo formalmente soffocata. Suona come la collera e la speranza di una Berlino divisa da un muro d’odio la traccia iniziale (“I Hate”) con le sue vibrazioni stile Joy Division, le sferzate elettriche, fredde come il vento nordico che soffia il nove novembre e invaso da schizofrenici passaggi irrealmente allegri. Concedendo all’album qualche attenzione in più di quanto siete abituati a fare potrete notare anche testi tutt’altro che banali, anche se spesso incentrati sul classico e (stra)abusato tema della morte mentre musicalmente, oltre che dagli anni 80, la band pesca a piene mani dalla psichedelia britannica, dal progressive, da Canterbury passando per il Krautrock teutonico, il Garage sixties e un’infinità di altre contaminazioni occidentali (“Felicy”, “Over”, “Sunny Day”, “Dei”, “Exist”) sfruttando le ritmiche ossessive per proporle in chiave danzereccia e travolgente (“Miracle”, “See You Again” che Arctic Monkeys e Babyshambles avrebbero volentieri preso in prestito per dare carica ai loro nuovi album).

Bellissimi anche i passaggi più eterei, Pop, armonici che talvolta somigliano a vere e proprie filastrocche e che mettono in mostra un lato apparentemente più nascosto dei quattro ragazzi, quello che si rivolge con più attenzione alla melodia e al sogno (“Here and Then”, “Home”). Qualche parola a parte merita “Influence”, traccia numero dieci e penultima della tracklist, talmente straordinaria da meritare nessuna parola e un silenzio ossequioso. Le voci (nell’album sono di Kwiatkowski, Juchniewicz e Wojczal mentre Pawluczuk si limita alle sole percussioni) diventano protagoniste di una lugubre poesia malinconica, e gli strumenti, compreso il sax di Witkowski che suonerà anche in “Dei”, disegnano solo un sottile paesaggio sullo sfondo, creando un’atmosfera inquietante ma allo stesso tempo pregna di sogno.

Un disco che meriterebbe più attenzione di quella poca che probabilmente avrà in un occidente incapace di scoprire, stupirsi, innamorarsi. Un album che spero possa non passare inosservato almeno a chi mi sta leggendo proprio ora perché se è vero che il popolo d’internet ha più strumenti a disposizione dei morti viventi seduti davanti alla tv per scegliere la propria musica, è anche vero che non sempre è capace di cogliere il meglio da una proposta tanto ampia.

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Deadburger Factory – La Fisica delle Nuvole

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Non c’è modo di parafrasare esaurientemente tutto il mondo che c’è dietro al progetto Deadburger.
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Nemesi – La Sottile Linea Grossa

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Che cosa rende valido qualcosa di modesto? Cosa rende speciale qualcosa apparentemente normale? E al contrario cosa trasforma il buono in mediocre?
Evitiamo di affrontare inutili approfondimenti su ciò che può legare la proposta della band con il nome scelto Nemesi, che può essere visto sotto diversi punti di vista, letterario, mitologico, cinematografico, pittorico e via discorrendo anche perché il termine, che altri non è che il nome della dea atta a distribuire la giustizia nel mondo, è diventato nel corso del tempo oggetto di “speculazioni” e interpretazioni diverse, diventando sinonimo di vendetta, ma anche titolo di un libro di Philip Roth e potrei continuare con un elenco interminabile di utilizzazioni non sempre lusinghiere. Molto più semplice è parlare dell’album numero due della formazione di Como (e Lecco) composta da Alessio Gentile, Alberto Riva, Moris Colombo, Fausto Tripaldi e Daniele Ferrara ma che in line up non manca di mantenere vivo il nome di Gilberto Valsecchi, voce nel primo album, “L’Alba dei Morti Viventi”, scomparso ad agosto di tre anni fa.

Il sound che caratterizza La Sottile Linea Grossa è un po’ il sunto di quello che è lo spirito e lo stile da sempre connaturato alla band e le diverse esperienze fatte in chiave live al fianco di band come Il Teatro degli Orrori, Linea 77, Sick Tamburo e Punkreas. Un Nu Metal estremamente classico (anche se non molti sono gli esempi noti da utilizzare per aiutare i non addetti ai lavori) con cantato in italiano che spazia da temi intimi che spesso si ricollegano alla scomparsa di Gilberto (“Fenice”, Evasione”) ad altri apparentemente più sarcastici (“Io Porto Sfiga”) o di denuncia non necessariamente sociale e impegnata ma anche più spicciola come quella rivolta all’attuale panorama musicale italiano. Crossover fatto con energia e attitudine Punk ma che non disdegna le ruvidezze, la tempra e la determinazione del Post Hardcore a stelle e strisce riuscendo comunque a esprimersi con una puntualità esecutiva non indifferente. Ovviamente il cuore pulsante dell’opera resta quello stile Metal alternativo all’italiana (quindi con testi e liriche ben in risalto) che ha fatto la fortuna (per modo di dire) dei Linea77 ma l’opera nella sua interezza presenta rimandi diversi anche a generi in parte lontani che talvolta si fanno manifesti (vedi introduzione Ambient e Post Rock), altre volte si celano dietro la potenza sonica.

Cantando in italiano, i Nemesi dedicano tanta attenzione al significato della parte testuale e anche se in Italia troppo spesso si fa l’errore di stare molto attenti a cosa si dice e a far si che il messaggio verbale giunga all’orecchio dell’ascoltatore che ci si dimentica che la poesia è qualcosa di diverso dalla musica e si mette in secondo piano la parte strumentale quando invece dovrebbe essere il principale strumento che un musicista ha per lanciare messaggi. Oltretutto, spesso puntare i riflettori sui testi rivela non tanto i nuovi Umberto Piersanti o Gianni D’Elia ma piuttosto parolieri ingenui, banali, qualunquisti e non troppo brillanti. Nel caso specifico siamo perfettamente nel mezzo e le canzoni passano velocemente tra meandri di frasi sarcastiche, pungenti e azzeccate anche come resa sonora e altri passaggi non troppo interessanti. A dirla tutta, quando i Nemesi cercano di fare i seri e si lanciano in accuse strampalate e pseudo rabbiose al “sistema”, rischiano più volte di perdere credibilità ma è innegabile che i già citati più famosi Linea77 pagherebbero oro tanti dei testi scritti dai Nemesi.

Ma cosa rende ottimo qualcosa di modesto? Molto semplice. Il dettaglio. E tra il caos pazzesco delle tracklist che non corrispondono nel Cd e nella cover, titoli e testi sbagliati nel libretto con conseguente adesivo messo sul cellophane con commento atto a sdrammatizzare, Cd che (per quanto apprezzabile l’autoproduzione tramite Musicraiser) si blocca fastidiosamente al minuto uno e trentadue e una registrazione non proprio impeccabile direi che l’attenzione al dettaglio non pare qui una peculiarità. La cosa conta e tanto anche se quello che più conta è la musica.

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Massimo Volume 09/11/2013

Written by Live Report

Non ricordo neanche più quanti anni sono passati dall’ultima volta che ho visto Clementi con i Massimo Volume dal vivo in un palco d’Abruzzo. Non troppi in realtà. Doveva essere un festival estivo in zona Roseto e con loro c’erano altre band tra cui i mitologici Wave Pictures e i Glasvegas, band allora in ascesa, ora persa in un vuoto neanche troppo inatteso. Adesso che ricordo meglio era il Soundlabs, era proprio Roseto ed era il 2009 e il giorno dopo, su quello stesso palcoscenico, sarebbero saliti José Gonzales, Uzeda, Zu, Wildbirds & Peacedrums e Dente. Quel venerdì però macinammo centinaia di chilometri e birra e gin solo per loro, quella leggendaria band bolognese che ha marchiato a fuoco gli anni 90 di noi giovani, ragazzini disillusi che qualcuno diceva essere il futuro della nazione e che si ritrovano in troppi a sputare sangue dalle orecchie in Call Center moralmente devastanti. Nessun nuovo disco da presentare in quell’occasione ma solo la voglia di rimarcare il mito sul palco del Soundlabs.

Quattro anni dopo sono cambiate tante cose e un ventinovenne con la testa di un ragazzino attaccato ai suoi diciotto anni è diventato un uomo più vecchio, non solo tra le pieghe del volto. Vittoria Burattini (drums), Emidio Clementi (voce, basso), Egle Sommacal (chitarra) e Stefano Pilia (chitarra) oggi hanno sulle spalle un paio di gioielli in più da mostrare. Cattive Abitudini usciva solo l’anno seguente mentre di qualche settimana fa è Aspettando i Barbari. Due album destinati a entrare nell’Olimpo del Rock alternativo italiano, nonostante l’età non solo anagrafica, dei suoi compositori e due album che sul palco del Pin Up mi si sono rivelati in tutta la loro enfatica magnificenza. In fondo mi aspettavo proprio questo. Il concerto non poteva essere un lento scorrere degli anni migliori della band emiliana ma avrebbe avuto l’esigenza di esporre le nuove forme. I due dischi sono stati sviscerati smascherando tutta la loro eccellenza in chiave live e accentuando anche delle differenze strutturali con il capolavoro del 1995, Lungo i Bordi, impareggiabile in quanto a tensione emotiva ma assolutamente affiancabile alle nuove cose come forza, brutalità, prepotenza.

Proprio l’energia è stata la protagonista assoluta del palco, toccando l’apice in un brano che su disco aveva lasciato non poco scetticismo, “Vic Chesnutt”. Questa vitalità toglierà un po’ di spazio agli atteggiamenti più intimi, quasi sacrali e meditativi che contraddistinguono le canzoni del periodo post Demo e quando Clementi e Sommacal provano ad affogarci in una marea di note che rischia di trascinarci in una dimensione psichica parallela, il momento è demolito da una tizia ubriaca che grida “du palle”. Clementi, col suo sguardo spiritato, la cerca ma non la trova, nonostante fosse a venti centimetri da lei e non so se in fondo sia stato meglio cosi. La tipa non riesce a fare altro che bere, urlare quando tutti stanno zitti, chiamare Sommacal per nome molestandolo palesemente e blaterare con due signore un po’ in là con gli anni che non hanno fatto altro che ballare come fossero a un live di Vasco (avete presente quel movimento destra/sinistra di corpo e testa, generalmente accompagnato da un accendino? A loro mancava solo quest’ultimo ma in compenso avevano dei cellulari sempre pronti per scattare foto. Che cavolo dovranno farci con una quantità simile di foto in pessima risoluzione è un mistero).

Regalano due bis e riesco a godermene uno un po’ in disparte dalla folla, malauguratamente mai uguale a come la vorresti tu, in queste occasioni. I Massimo Volume passano con disarmante disinvoltura (poche sbavature degne di nota) dai brani del nuovo album a quelli di Cattive Abitudini (splendide “Coney Island”, “Le Nostre Ore Contate”, “Litio” e “Fausto”), fino a scivolare nel passato di Club Privé (“Altri Nomi”) e Da Qui (“Senza un Posto Dove Dormire” e “Sotto il Cielo”) per esaltarsi e farci godere con i pezzi di Lungo i Bordi (“Fuoco Fatuo” e “Il Primo Dio” da pelle d’oca). Un concerto lunghissimo, che ha davvero accontentato tutti, dai fan dell’ultima ora fino ai vecchi affezionati, con una sola imperfezione evidente in uno stacco splendidamente ripreso da Clementi in veste di direttore d’orchestra. Chi si aspettava un concerto nel quale ritrovarsi assorti sarà rimasto deluso perché sembrano finiti i tempi delle illusioni e del sogno, lasciando spazio alla veemenza chiusa tutta negli occhi spiritati di un Clementi in forma smagliante, nel sudore di Burattini, nelle dita di Sommacal e nelle pulsioni viscerali di Pilia. I Massimo Volume non invecchiano mai, al massimo diventano più grandi.

P.s. in apertura ai Massimo Volume, il pubblico del Pin Up, locale che anno dopo anno si conferma come il migliore del centro Italia per le esibizioni dal vivo (ora anche con una più adeguata resa sonora) ha potuto godere l’esibizione dei marchigiani Dadamatto di Senigallia, formazione giovanissima ma con, all’attivo, già tre album. La loro è una proposta variegata e che suscita diverse contrastanti emozioni e diversi giudizi di gusto. Certo è che i tre ci sanno fare sul palco, per niente intimoriti dal pubblico solitamente poco elegante e generoso con i gruppi spalla, né dal peso della fama di chi li avrebbe seguiti. Forse qualche eccesso teatrale di troppo ma niente da dire in quanto a presenza scenica. Quello che non è piaciuto molto è il cantato, che talvolta ha rasentato dei picchi d’imperfezione (non di quella volutamente lo-fi, sia chiaro) preoccupanti e la composizione dei brani, che arrancavano ora in un cantautorato in stile Brunori Sas, ora in un Noise Rock che ricordava i fasti di un Godano nineties, ora in passaggi strumentali di difficile comprensione, altri in un Post Rock quasi imitante i bolognesi con i quali avrebbero a breve condiviso il palco.

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Jules not Jude – The Miracle Foundation

Written by Recensioni

Tra la cover confusamente psichedelica con qualche simbolo inconfondibile e l’opening track (“Perfect Pop Song”) ordinaria, tutto lasciava avvertire l’immersione imminente nell’ennesimo ascolto di una band figlia dei Beatles con poca voglia di andare oltre. Proprio Lennon e Mc Cartney sono palesemente omaggiati in quella perfetta canzone Pop, almeno nel titolo, che ci apre la porta di The Miracle Foundation (tributo ribadito nel nome stesso della band e in altre circostanze) ma quello che troviamo dentro la stanza è meno polveroso di quanto mi aspettassi. Ammetto di non essere stato tempestivo nella scoperta dell’esordio di tre anni fa, All Apples Are Red, Except for Those Which Are Not Red, e l’occasione buona arriva proprio con questo secondo album. Ovviamente i tanti cambi di line up si fanno sentire, talvolta nel bene e altre nel male, ma quello che è certo è che i quasi trentasei mesi in giro per l’Italia e l’Europa a fare concerti hanno dato la possibilità ai bresciani di detergere il loro approccio con la materia Pop-Rock e, seppure il risultato sia ancora lontano anche solo da un’apparente perfezione, certo Simone Ferrari (voce, chitarre, piano, organo, tastiere), Andrea Buffoli (chitarre, sintetizzatore, effetti), Mauro Parolini (basso, percussioni) e Daniel Pasotti (batterie e percussioni) hanno fatto quel balzo in avanti per togliersi almeno dal gruppone, più numeroso di quello che si possa pensare, dei senza talento e senza idee che arrancano nella salita verso il successo, che non sempre è lo stadio di San Siro colmo di spettatori ma anche un sold out al Circolo degli Artisti.

Come la band di Liverpool, anche qui tanti sono i simboli in parte nascosti, a partire dal nome dell’album che si rifà a quello di un’associazione americana che si occupa degli orfani in India, usati dalla band, per poi sviluppare una forma espressiva che trova nell’abbandono il suo filo conduttore, pur non trattandosi specificatamente di un concept album. Con i Beatles nel cuore, i Jules not Jude riescono, però, a non suonare come l’ennesimo gruppo non accortosi che il 1970 è finito da un pezzo e rincorrono altre strade che li spingono verso una certa psichedelia a stelle e strisce con vaghe sfumature Folk e qualche frizzante passaggio Alt Rock più giovane. Dove però si riesce a limare un difetto palese delle prime cose targate Jules not Jude ecco che altre imperfezioni sembrano iniziare a galleggiare sul mare di note. Lasciamo da parte il discorso sull’originalità della proposta che ormai è merce rara quanto Yesterday and Today con la butcher cover in un mercatino dell’usato. Gli otto brani che compongono la tracklist sono diversi tra loro, ma solo all’apparenza, perché in realtà viaggiano tutti su un’onda di convenzionalismo pericoloso. Ogni cosa è suonata in maniera puntuale ma non c’è nulla che regali alla musica quel qualcosa in più che serve veramente per non passare inosservati. Tutto è buono ma niente è stupefacente e neanche le melodie sono totalmente trascinanti tant’è che faticano ad attecchire nella memoria anche dopo diversi ascolti.

A questo punto vi chiederete perché abbia affermato in precedenza che i Jules not Jude non sono senza talento e senza idee, visto che nell’ultima frase non ne sottolineo certo la riuscita dell’ultima opera. Il motivo è semplice. Come accadde per un’altra band prodotta dalla Urtovox, gli A Toys Orchestra (i quali prestano la voce di Enzo Moretto in “Raise the Hood”) anche se secondo dinamiche diverse, i primi due album, (nel nostro caso, The Miracle Foundation in particolare) hanno messo in luce in maniera più netta del solito le potenzialità inespresse che pareggiano i difetti. Poca sperimentazione, strutture troppo sbrigative, melodie non troppo ricercate e un po’ di confusione in fase di proposta sembrano irregolarità che il tempo, il lavoro e uno spirito autocritico possano risolvere in qualche modo, almeno in parte. Ovviamente le potenzialità potranno poi incanalarsi per una strada a me più gradita oppure seguire il solco già tracciato di chi quantomeno è riuscito a uscire dall’oscurità ma quello che è certo è che se non dovessimo più sentir parlare di loro, sarebbe davvero un peccato. Il Pop Rock dei Jules not Jude non è del tipo che adoro, come non lo è quello dei ben più celebrati A Toys Orchestra eppure come non faccio fatica a comprendere (attenti, non condividere) i consensi di pubblico e critica per la band campana, non sarei stupito se dovessi vedere lo stesso pubblico e la stessa critica acclamare, tra qualche anno, i bresciani Jules not Jude.

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