Silvio Don Pizzica Author

Era così tanto un bravo ragazzo. Poi ha conosciuto la trap.

Stumbleine feat Violet Skies – Chasing Honeybees

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Il produttore britannico Peter Cooper, in arte Stumbleine, ben noto nell’ambiente Chillstep di ultimissima generazione, si affianca alla voce amabile, anche se troppo ordinaria per i miei gusti, di Violet Skies (da poco è uscito il suo primo lavoro solista), per un breve ma intenso prodotto che pur non elevandosi particolarmente per idee e stile, ha il grande merito di ostentare una delle plausibili strade Pop di pregio, del tipo valente per andare oltre i soliti luoghi comuni del genere. Il duo parte da ritmiche Dream Pop e Ambient, suscitando canzoni e strutture quasi vicine a certo Shoegaze, scommettendo tanto sulla vocalità, nel nostro caso, deliziosa e dall’animo Soul. Nonostante la fuggevolezza dell’opera è evidente il tentativo di racchiudere e far implodere in pochi minuti tutta la storia della popular music, o quantomeno quella parte di essa che affonda le radici negli anni 60, in Girl Group come Crystals e Ronettes, nel genio di Phil Spector (non a caso la traccia numero quattro, “And Then He Kissed Me” è un arrangiamento di un brano di Spector scritto per le Crystals) e che si dirama verso le atmosfere eighties di Cocteau Twins e My Bloody Valentine per giungere ai giorni nostri con spiccato senso di modernità.

Chasing Honeybees, questo il nome dell’Ep che apre le porte del full length in uscita ad aprile, ha due grandi pregi. Riesce a rileggere il passato senza suonare nostalgico e malinconico, arriva a cogliere i meriti di una musica comunque mai dimenticata, senza limitarsi a imitarne le intelaiature e, soprattutto, propone composizioni adatte a tipologie di pubblico molto diverse, come possono essere gli amanti delle scene indipendenti e chi alimenta le classifiche di vendita più scadenti. Stumbleine e Violet Skies ci rivelano, in pratica, come si possa braccare una via gradevole a un pubblico più ampio possibile e non sempre avvezzo a certi suoni, senza scendere a compromessi che indeboliscano l’integrità stilistica degli autori. Detto questo, non posso tuttavia negare che in queste cinque tracce manchi una vera vena innovativa; mi sento in dovere di far notare come non vi siano melodie che abbiano la forza di reggere il peso di parecchi ascolti. Il sound è dozzinale, si fonda tutto sugli arrangiamenti del produttore d’oltremanica che mette la sua elettronica come sfondo per la voce, come già detto gradevole ma comune, di Violet Skies. Arrangiamenti che, per quanto possano suonare ben impostati, sono anch’essi di una deludente insipidezza. Ognuno dei cinque brani sembra mostrare qualcosa che poteva essere ma non è ancora ed è qui che sta il suo valore ma anche il suo grosso limite. Chasing Honeybees mostra che si può, anche se ancora non sa bene come.

Nessuna grande canzone, nessuna clamorosa voce, niente arrangiamenti memorabili e un sound discreto e niente più ma anche tante idee su cui lavorare, almeno per unirsi al coro di chi cerca di far capire al resto del mondo che costruire Pop non significa farsi inchiappettare su un palco con la lingua penzoloni.

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Rich Bennett – DiBenedetto

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Ve lo dico senza mezzi termini e senza girarci troppo intorno. L’Ep DiBenedetto, che marchia il ritorno sulle scene dell’artista statunitense Rich Bennett, è quanto di più insoddisfacente mi sarei atteso di ascoltare, viste anche le intriganti premesse che narrano del suo viaggio in Sicilia alla scoperta delle sue origini (Di Benedetto sarebbe proprio il suo cognome primigenio) e quindi della posa in musica di tutto quanto questo trip introspettivo e corporeo nello stesso tempo ha provocato nella sua anima tormentata ma vitale, attraverso l’uso del primo amore, la chitarra. Rich Bennett è artista poliedrico e mai apatico, come dimostrano le sue tante esperienze e le sue diverse collaborazioni (si prenda ad esempio la presenza come tastierista nella band Dream Pop di Brooklyn dei Monocle) eppure, in quest’opera, poco sembra trasparire della natura caleidoscopica che l’ha visto cimentarsi con una varietà stilistica e di generi non indifferente.

Pur se suggestionato, per sua stessa ammissione, da geni del calibro di Bob Frisell, Robin Guthrie e David Sylvian, nell’Ep che potremmo definire omonimo in un certo senso, manca compiutamente la parte più sperimentale, audace, temeraria che esalta i lavori soprattutto degli ultimi due sopra citati e tutto si risolve in quattro brani, interamente strumentali, che provano a musicare un’ideale pellicola nostalgica, nello stile Easy Listening di Burt Bacharach e con un vano sforzo di attualizzare il tutto, attraverso un’elettronica a metà tra Stereolab e Delia Derbyshire. Quattro brani più uno, l’opening “Il Grande Silenzio”, arrangiamento del pezzo del maestro Ennio Morricone, non troppo celato e cardinale punto di riferimento di Rich Bennett, almeno per quest’occasione. Da non trascurare la presenza del musicista newyorkese Jesse Krakow, nel brano “Narcissus”.

Come potrete afferrare, ogni cosa lascerebbe supporre un grande Ep ma le attese sono quanto di più lontano dalla realtà possiate immaginare. Nessuno dei cinque brani, esclusa la cover, riesce a evocare la magia delle terre del mezzogiorno, neanche uno è capace di creare mondi lontani, dimenticati e neppure di eccitare semplicemente. Tutti i brani scivolano stancamente nella noia e in un oblio che si fa pressante, nell’impotenza di un sound spoglio, senza voler essere nudo. La semplicità è pregio e qualità essenziale per chi voglia raggiungere presto il cuore di chi ascolta ma quando diventa banalità, quello che resta davvero è solo il silenzio dopo l’ultima nota.

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Nebelung – Palingenesis

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Inutile contestare che ci siano forti legami, anche solo iconografici, tra l’ideologia nazifascista e la musica Neo Folk; cosa manifesta. anche se ricca di robuste contraddizioni nei capiscuola Death in June ma che si smaschera, secondo le più disparate fattezze, in ognuna delle tante formazioni che setacciano il genere. Non sempre si tratta di un’affinità di stampo politico e neanche è ineluttabilmente da connettere alle amenità razziste o violente e dittatoriali ma, nella gran parte dei casi, musica, stile ed estetica si uniscono a un’iconografia tipicamente nordeuropea, fatta di rune, religioni naturali, spiritualismo, decadenza e rinascita dell’Occidente, paganesimo, naturismo. Non a caso la musica ordinariamente detta Neo Folk o Dark Folk impiega ritmiche marziali e melodie che rievocano le atmosfere lugubri di città devastate dalla guerra. Composizioni che hanno il sapore di decenni mai vissuti da noi giovani eppure ben scolpiti nella memoria. Non a caso, evidentemente, i tedeschi Nebelung scelgono il vocabolo greco Palingenesis per dare titolo al loro nuovo full length. Palingenesi come rinnovamento, rinascita, rigenerazione ma non a caso è la stessa locuzione che Roger Griffin, nel suo libro The Nature of Fascism, utilizza per indicare un elemento centrale delle ideologie fasciste, descritto come “il nucleo mitico dell’ideologia fascista.

Nulla è per caso eppure non ci sogneremmo mai di accostare con fare denigratorio o accusatorio la musica dei Nebelung alla più devastante e mortalmente adescatrice dottrina mai concepita da essere umano. La proposta del duo teutonico è prettamente strumentale e quindi non vi è alcun testo e nessun proclama che inneggi in maniera palese a teorie di stampo nazifascista. Non ci sono ritmiche e suoni di chiara matrice marziale che possano in qualche modo ricondurre a temi di natura bellica. Si tratta solo di sei piccole gemme Neo Folk, tutte basate su una strumentazione orchestrale disparata ma essenziale, su melodie semplici, se volete anche ossessive e ripetitive ma dallo straordinario impatto emotivo. Mantra diluiti e dilatati che scavano nell’animo umano, attraverso suoni densi ma puri, realizzati grazie a chitarre, cello, accordion, arpa, percussioni, voci spettrali e tanto altro.

Folk Rock di stampo nordeuropeo che non disdegna momenti di pura ostentazione No Wave e Gothic (“Mittwinter”) e nello stesso tempo riesce a svilupparsi anche attraverso le strade del più lancinante Post Rock (“Wandlung”). Un disco che mira dritto alla parte ancestrale dell’animo umano, scava nella sua memoria, nel suo essere, attraverso l’evocazione di atmosfere eteree ma inquietanti, rilassanti eppure struggenti. Un piccolo gioiello Dark Folk che non raggiunge le vette stilistiche di Tenhi o Vàli, di Ulver o Forseti ma che può piazzarsi nella lista delle uscite più interessanti del genere, con la speranza che, magari, anche i non fanatici neofolker possano accorgersi di Palingenesis cosi come di tutti quei piccoli capolavori d’occidente. Non è un caso che Palingenesis sia un buonissimo disco.

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Biagio Accardi

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Abbiamo l’onore e il piacere di essere in compagnia di un grande artista, uno di quelli che sembrano sbucati da un passato remoto. Biagio Accardi, cantautore calabro, reduce dalla sua esibizione a Pratola Peligna (AQ) con il suo spettacolo Kairos, ultima tappa di gennaio del tour e abbiamo voluto con lui cercare di capire meglio la sua visione della musica e della vita.

Ciao Biagio, come stai?
Ti rispondo con una battuta di un grande cantastorie (Otello Profazio): “Tutti i grandi cantastorie sono morti; Rosa Balistrieri, Ignazio Buttitta, Orazio Strano, Cicco Busacca …ed io non mi sento tanto bene” …sono anni che fa questa battuta sul palco e pur avendo una certa età lo vedo in buona salute (dire questo gli serve come atto scaramantico ?!) … comunque anch’io non me la passo male … Anzi!

So che oltre ad esibirti a Pratola Peligna, sei stato anche nei bellissimi borghi abruzzesi di Anversa e Bugnara. Che ci faceva un calabrese ad Anversa?
Respiro aria buona (ride ndr)

Cerchiamo subito di capire meglio che tipo di musicista sei. Cantastorie, menestrello, folk singer, cantautore. Chi è, insomma, Biagio Accardi e che cos’è Kairos, il tuo spettacolo che, ricordiamolo, solo a gennaio ha toccato anche Cuneo, Reggio Emilia e Imperia?
Artista, suonatore, viaggiatore e autore di canzoni. Ricerco ed elaboro sonorità ispirate al panorama etnico-mediterraneo. Le composizioni sono un affresco poetico a tratti psichedelico e ipnotizzante e a tratti ammaliante per il suo forte e intenso potere nostalgico. Studio la società tradizionale e moderna dei luoghi in cui vivo, ho sempre cercato di promuovere eventi artistico-culturali votati a valorizzare il Sud. Anche se spesso faccio date al nord per l’appunto !!! KAIROS smaschera i nefasti sotterfugi legati al mondo del lavoro, gli ideali del falso benessere che hanno fatto perdere alla gente la semplice comprensione del bello e delle cose vere, togliendogli la possibilità di essere felici. Le politiche delle multinazionali, che ci controllano, ci annientano e letteralmente avvelenano la nostra vita, vengono spacciate come indispensabili per la crescita economica e per il nostro benessere. Invertire questo sistema è possibile, adottando uno stile di vita rispettoso dell’ambiente e iniziando ad allontanarsi dai vecchi e logori schemi politici, economici e sociali. Gli antichi greci utilizzavano due parole per definire il tempo: Kronos e Kairos. La prima parola si riferisce al tempo logico e sequenziale, mentre la seconda rappresenta un tempo di mezzo, un momento in cui qualcosa di speciale sta per accadere. “Kairos” rappresenta quindi il tempo propizio per agire, quel momento è ora!

Mi sono giunte all’orecchio alcune voci che raccontano di un Biagio Accardi che se ne va in tour per la Calabria girovagando per le piazze dei paesi sul dorso del suo asino. Mi dicono anche che viaggi solo ed esclusivamente in treno o comunque con i normali mezzi di trasporto pubblico. Il tuo è un rifiuto del progresso come lotta contro uno sviluppo incontrollato e devastante o piuttosto una scelta di vita personale, legata a fattori più intimi?
L’idea mi è nata leggendo un libro di Mauro Geraci dal titolo Le Ragioni dei Cantastorie e che parlava di Orazio Strano, uno dei più grandi cantastorie siciliani; partiva dalla sua terra con l’asino e il carretto per portare i suoi spettacoli perfino in Calabria e nelle Puglie. Questa immagine del cantastorie che girava di piazza in piazza mi ha spinto a volerla “restituire” nell’immaginario nella memoria collettiva. Subito mi è venuto in mente che avrei potuto farlo anch’io, così avrei potuto evitare di percorrere grandi tragitti che implicano l’uso di mezzi di locomozione. ..ma se proprio devo, preferisco il treno; ecologico, economico e comodo per leggere, scrivere e ascoltare musica.  “Per fare quello che a me piace non per forza mi devo spostare in poche ore da Palermo a Milano ..e neanche è detto che devo possedere un’auto per sentirmi realizzato …passo dopo passo, con la mia amica L’asina Cometina, calpestando terra e respirando polvere realizzo sogni, faccio ciò che mi piace e mi sento vivo…    già sono in viaggio!”

Spostiamo l’attenzione su cose meno impegnative. Parliamo della musica italiana attuale. Credi che un musicista come te possa trovare un suo spazio dentro la scena emergente e indipendente italiana (parlo di Tv, webzine, spazi web, web radio, locali di musica dal vivo) o sei, volente o nolente, relegato a un ruolo marginale come visibilità anche se non certo come espressione artistica? Qual è attualmente il tuo ruolo in questo senso?
La maggior parte del lavoro è svolto, in autonomia, dalla nostra associazione culturale Cattivoteatro. Poi ci sono delle realtà che ci supportano: Marasco Comunicazione, Video8 Calabria, Immaginerie, Suoneria Mediterranea, Rock Bottom Records e altri …ma la domanda “se c’è spazio per la mia arte nella scena emergente” dovremmo farla al pubblico e agli addetti al lavoro.

Come Biagio Accardi è diventato il cantastorie che stiamo imparando a conoscere? Ci sono stati momenti o eventi precisi che ti hanno spinto a prendere questa strada?
Sin da bimbo ho avuto un’attrazione per l’arte. Crescendo quello che mi ha attratto di più è stata la musica. Avendo avuto anche una formazione da operatore turistico ho cercato di mettere insieme le due cose, realizzandole in alcune strutture ricettive della mia zona. Mi occupandomi del lato ricreativo. Dopo c’è stato in me un conflitto interiore; non riuscivo a capire perché la gente andando in vacanza ricercava le stesse cose che aveva già quotidianamente … ho fatto una lunga pausa di riflessione, finché ho incontrato il Maestro Nino Racco con cui ho fatto vari laboratori e seminari. Racco ha messo insieme le tecniche cantastoriali con quelle teatrali della commedia dell’arte. Cosa che mi affascinò molto al punto di prendere spunto dal suo lavoro. Inoltre ho conosciuto di persona Otello Profazio che è il cantastorie che ha fatto più lavori discografici a riguardo.

A proposito, facci capire bene. Nella vita ti occupi di altro o sei musicista a tempo pieno? E comunque, pensi che nel 2014 si possa scegliere di essere musicisti professionisti (turnisti esclusi)?
Ho dedicato tutta la mia vita a questo mestiere e credo che continuerò a farlo fino alla fine dei miei giorni.

La tua musica è molto legata al teatro e alla teatralità. Non a caso Kairos è strettamente in contatto con l’associazione Cattivo Teatro. Di che si tratta?
L’ASSOCIAZIONE CULTURALE CATTIVOTEATRO è nata nel 2002 dalla commistione di svariate esperienze e competenze, il cui scopo sociale è la promozione e la realizzazione di spettacoli teatrali, convegni, manifestazioni artistiche, musicali, folkloristiche e letterarie, che abbiano carattere educativo. “Si propone in particolare la promozione di iniziative atte a sviluppare una maggiore coscienza socioculturale”. CATTIVOTEATRO è un’esperienza unica, che nasce dalla voglia di fare cultura fuori dagli schemi aberranti della cultura massificata e mercificata che nei tempi che corrono, ci opprime e ci aliena, essendo una non-cultura, una forma di ignoranza massificata. Laddove per ignoranza si intende appunto la mancata conoscenza. Mancata conoscenza di se stessi, mancata conoscenza del mondo che ci circonda. La cultura di massa che ci travolge è, infatti, mercato e basta.

Tra le tue tantissime avventure a spasso per l’Italia, ti sarà capitata una serie infinita di situazioni strane. Raccontaci l’episodio più divertente e grottesco che ricordi ma anche il più antipatico e brutto, quello che vorresti cancellare per sempre?
L’evento più grottesco è stato quando si avvicinò un signore dall’accento (ma anche di più dell’accento) partenopeo che mi contestava che non riuscì a capire bene lo spettacolo, colpevolizzando l’uso del dialetto in alcune parti. La cosa che mi stupiva è che il 70 % dello spettacolo è in Italiano; ho concluso, tra me e me, che forse non conoscesse che il suo dialetto …solo quello! Quelle più antipatiche e da cancellare per sempre sono state già rimosse!

La tua musica ha un forte valore culturale e sociale, soprattutto come strumento di preservazione e conservazione della memoria. La musica (e comunque l’arte in generale) deve sempre avere un ruolo sociale per essere scritta con la maiuscola?
Ne sono fermamente convinto ! …tutto il resto non è arte ma mero intrattenimento che si basa sul concetto di estetica e basta …ma non credo che sia questo il ruolo dell’arte e degli artisti.

La tua musica, oltre che influenzata dalla tradizione folkloristica italiana, sembra attingere anche al Folk più attuale e pare ispirarsi vagamente a band come gli Yo Yo Mundi o la Bandabardò. C’è questo nella tua formazione musicale? E cosa ti piace ascoltare abitualmente?
Abitualmente ascolto di tutto, ovvero tutto quello che ha un certo spessore poetico e culturale. Frank Zappa gira spesso in playlist!

Facci il nome di qualche band, magari emergente, che non dovremmo lasciarci scappare?
Magari, Adriano Bono e la Minima Orchestra oppure le fantastiche Honeybird o i giovanissimi Musicanti del Vento.

Che cosa distingue il Biagio Accardi uomo dal Biagio Accardi musicista e dove vedi entrambi tra vent’anni?
Li vedrei sicuramente, entrambi, negli stessi luoghi: tra la musica, sulle strade del mondo e fra la gente!

Ti faccio ancora i complimenti per l’esibizione che ho avuto il piacere di gustarmi. A proposito, si può portare anche musica come la tua fuori dai teatri e piuttosto nei luoghi di aggregazione giovanile come può esserlo il locale che ti ha ospitato?
Questa potrebbe essere una sfida stimolante!

Ciao Biagio con l’augurio di rivederci presto.

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Gustoforte – La Prima Volta (Ristampa 1985)

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Nei primi anni Ottanta, nella capitale poteva capitare di incappare, in qualche negozio di vinili o chissà dove, in uno strampalato lp con copertina di lamiera piegata in due parti, agganciata grazie a un bullone e con una scritta di vernice nera: GustoForte. Niente di più era risaputo di quello che significasse o racchiudesse ma la curiosità doveva essere tanta in chi incrociava quell’epigrafe. In verità non molti perché quel vinile fu pubblicato da un editore francese di musica anticonvenzionale (RatRace Records) in sole duecento esemplari.  A metà degli anni Ottanta, girovagando per Roma, nei suoi parchi, nei suoi spazi sociali, seduti a una panchina o entrando in una vecchia cabina telefonica poteva accadere di trovarsi tra le mani piccole opere d’arte che a prima vista non lo sembravano affatto e che parevano essere state abbandonate da persone sbadate o bramose di disfarsi dell’arma del delitto con la voglia di essere beccate.

Alcuni musicisti dai nomi anonimi per i più (Roberto Giannotti: vocals, drum machine, simmons drums, emulator, tapes; Francesco Verdinelli: electric guitar, casiotone, obx a, tapes; Stefano Galderisi: bass, farfisa, tapes) e provenienti da realtà molto distanti (chi dalle prime esperienze di field recordings, chi dal Punk e chi dalle soundtrack) decidono di capovolgere ogni schema precostituito e iniziano a registrare opere magmatiche, complesse e amorfe, nel più estremo stile Noise e Lo-Fi e lasciano queste incisioni, spesso insieme a opere figurative di diverso tipo, nei luoghi più svariati, aspettando di vedere “l’effetto che fa”. In realtà la cosa non fa alcun effetto apparente, Roma continua per la sua strada e quello che si trasforma è celato solo nelle piccole vite di quei pochi, miseri uomini che hanno avuto la fortuna di dissotterrare una di queste gemme (tra cui il loro secondo lavoro, Souvenir of Italy / La Merda che Fuma ri-stampato, proprio un paio di anni fa) o di partecipare a una delle uniche due performance live tenute in quegli anni dai GustoForte.

A distanza di tanti anni e con uno schieramento rinnovato, la band (autodefinita italian antipop group) si ritrova senza un movente inequivocabile se non quello di “rompere i cojoni” e per suggellare questa riacquistata verve creativa, l’Editore in Modo Moderno (Plastica Marella) recupera le tracce di quel full length denominato sobriamente La Prima Volta e crea una riedizione che non ha più il fascino della lamiera e della vernice nera, ma mantiene intatto il sex appeal di una musica che suonava sperimentale trent’anni fa, tanto quanto suona avanguardistica oggi. Il vinile trasparente 180 grammi che gira ora nel mio impianto si compone di sette tracce (ben definite a differenza del successivo Souvenir of Italy / La Merda che Fuma in cui i brani suonano deformi e liquefatti, adatti maggiormente a essere riprodotti in luoghi inusuali come teatri o gallerie d’arte che non a vibrare nelle casse di casa), quattro pezzi nel primo lato detto maschio, “S. Antony Chain”, “Steel Walk”, “Assembly Line” e “Evry Courcouronnes” e tre nel lato femmina “Factory Ab Absurdo”, “Ask Me a Dream” e “In Memory of Maurizio Bianchi”. Ospiti per l’occasione La Donna (vocals, tapes), Marie Journò (Apple 2E programming in “S. Antony Chain”) e “Alì Mahhmud El Quaharr” (vocals).

L’opera, registrata trent’anni fa presso gli studi di Roma Pink Music Studio e rimasterizzata da Filippo Bussi negli studi Tweedle Music, è un tripudio di sperimentazione oscura che vi sorprenderà per la sua capacità di anticipare la Dub Techno berlinese di Basic Channel, la Dark Ambient di Demdike Stare e l’Electronic Noise dei Black Dice; il Post Rock attraverso l’analisi della New Wave, dell’Industrial figlia dei Throbbing Gristle, tutto condito con reminiscenze del Krautrock di Faust e Neu! oltre che con inflessioni elettroniche di kraftwerkiana memoria, psichedelia cosmica e tutta una serie di “provocazioni” rumoristiche che, all’epoca dovevano stupire per sfrontatezza ma che oggi hanno la capacità di suonare avanguardistiche e vintage al tempo stesso, senza dare alcuna minima idea di vecchio. Ascoltare sul finire del 2013 l’opera prima dei GustoForte lascia un sapore impossibile da trovare in opere attuali e conserva nelle orecchie lo stesso stupore che potreste immaginarvi balenare nella mente alla vista della più grande opera d’arte di un qualsiasi grande artista del passato, scoperta tra le cianfrusaglie della vostra cantina. E per questa sensazione c’è da dire grazie a Plastica Marella, una delle non tantissime etichette coraggiose che resistono in questa penisola dalla memoria corta.

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Voglia di X-Factor? Fattela passare. Rock the Monkey!

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Rockthemonkey

Rock the Monkey! Manuale di sopravvivenza per non perdersi nel mondo della Musica.

Oggi più che mai, causa l’avvento e l’affermazione dei più disparati reality di carattere musicale, sempre più paiono i giovani cantanti decisi a intraprendere la “carriera” del musicista ma, allo stesso modo, tantissimi, forse la maggior parte, finiscono per perdersi nelle delusioni, nelle illusorie speranze, nella fama che dura un attimo, nella scarsa preparazione. Pochissimi sono i veri talenti tirati fuori da questi pseudo talent show e probabilmente saranno più i veri talenti che per colpa di questi talent show hanno rinunciato per sempre a scavare nel proprio Io alla ricerca del meglio di se e a intraprendere le strade migliori per far sì che questo talento potesse realmente venire fuori. Per cercare di indirizzare i ragazzi più capaci verso la via ripida e faticosa che rende veri artisti, David A. R. Spezia e Massimo Luca hanno realizzato un manuale che consigliamo vivamente a tutti questi ragazzi, pieni d’idee e con la passione che poi è la stessa che muove anche noi. Per capire meglio di cosa si tratti, abbiamo intervistato i due autori di questo Rock the Monkey!.

Ognuno di noi ha sognato, almeno una volta, di diventare una rockstar. Ma la musica non è solo un sogno, per tanti è una “scimmia” in grado di creare dipendenza e di trasformare chiunque in un perenne cercatore d’oro. Quanti hanno messo in piedi una band con gli amici e hanno iniziato a muoversi nell’universo musicale italiano: i pezzi scritti in saletta, la ricerca di locali dove suonare e di un’etichetta discografica, con l’obiettivo di far conoscere il proprio talento e diventare famosi.

Ciao David A. R. Spezia (scrittore) e Massimo Luca (musicista al fianco, tra gli altri, di Battisti, De André, Mina, Bennato, Dalla, Vecchioni, oltre che compositore e produttore di talenti come Grignani e Antonacci). Come state? Andiamo subito al dunque. Rock The Monkey, un manuale per diventare una Rockstar. A chi è venuta questa idea e perché soprattutto?
David: la scintilla l’ho avuta una mattina. Erano vent’anni che non sentivo Massimo. Ho recuperato il suo numero di telefono da un amico comune e l’ho chiamato. Lui si è ricordato subito.  Io sono stato molto diretto, devo dire, col senno di poi. Gli ho chiesto: “Massimo. Vuoi scrivere un libro?”. Dopo aver spiegato a grandi linee il progetto, ha subito accettato. Qualche giorno dopo ci siamo visti e abbiamo cominciato. Il libro ha preso immediatamente la sua impronta e l’idea è stata sviluppata e portata avanti grazie alla sua grande esperienza nella musica. Come scriviamo nel capitolo intitolato ”Intro”, siamo diventati una chimera. La fusione di due entità: lo scrittore e il musicista. Da qui è nato il nostro libro.

Massimo: Sì, oggi tutti vogliono apparire e lasciare una traccia di se stessi sulla Terra. Questa è una vera e propria sindrome! La causa va attribuita ad una televisione populistica che lancia in modo più o meno evidente messaggi che esasperano troppo il senso dell’edonismo! Il libro/manuale cerca di riportare il lettore in una dimensione normale raccontando quello che sino a qualche anno fa è stato il mestiere più bello del mondo. Il messaggio è evitare di fare i fenomeni da baraccone e migliorare la propria personalità artistica attraverso lo studio e la conoscenza fino al raggiungimento di uno stato di eccellenza. La scimmia? È la passione che non ci fa sentire la fatica. È una donna che ami senza essere riamato!

Ho letto il libro e, vista la presenza di David A. R. Spezia, mi aspettavo una narrazione meno schematica, quasi più un racconto dentro il quale s’inserissero le vostre idee. Invece si tratta proprio di un manuale, nel senso più classico del termine. Come mai questa scelta narrativa?
David: io direi che la scelta della prima persona nella narrazione, abbia portato il libro a essere meno “saggio” e più “manuale esperienziale”. È vero che si trovano pagine dedicate ai trucchi del mestiere, magari con elenchi di cose da fare e da non fare, però in tutto questo si inseriscono aneddoti della vita di Massimo: le sue esperienze dirette con Lucio Battisti per esempio, o di come abbia portato Gianluca Grignani al successo del primo album. Il libro vuole dare consigli, senza essere però pretenzioso. È come se qualcuno mi raccontasse la sua vita: ciò che una volta accadeva nelle botteghe degli artigiani nei confronti del garzone. Oggi questo non esiste più: ognuno fa musica e pretende di farla senza aver voglia di imparare l’arte e il mestiere.

Personalmente non sono mai stato un grande amante dei “manuali”, quei libri che pretendono di dare risposte, preferendo i testi che favoriscono il dubbio. Tuttavia in Rock The Monkey c’è qualcosa di diverso. Cosa lo distingue sostanzialmente da un manuale per smettere di fumare, uno per perdere peso, e cosi via?
Massimo: in effetti, non è un vero e proprio manuale; il titolo è ammiccante, quasi umoristico! In realtà, a parte alcuni consigli dovuti dall’esperienza, è un passaggio di testimone tra due generazioni che sono abbastanza distanti! Qui nessuno insegna niente a nessuno! Ho voluto “restituire” il dono che ho ricevuto quando ero poco più che un ragazzo. Il “dono” è tutti gli insegnamenti che i “vecchi” mi avevano regalato e che hanno contribuito non poco a far divenire la mia carriera quasi leggendaria. Dopo cinquant’anni ho voluto restituire ai più giovani questo “dono”.

Nella scrittura ho notato alcune cose caratteristiche. Esempio, frasi brevissime, tanta punteggiatura e “a capo”. Una fluidità anche eccessiva talvolta. Inoltre, molte note talvolta elementari e ripetizione dei concetti (cosa che nei manuali si nota spesso). A cosa è dovuta questa scelta espressiva?
David: il motivo è che quando si chiede a qualcuno di insegnarci qualcosa, questa persona deve cercare di esprimersi in maniera diretta e semplice. Ogni concetto deve essere fissato con pochi e facili termini. Ripetuto più volte per essere metabolizzato. Visto che la narrazione è sempre in prima persona, bisogna immaginare che è come se ci fosse Massimo a parlarmi in quel momento. Quando c’è dialogo, difficilmente si hanno frasi lunghe, tortuose, “teatralmente compite”. Non sarei alla scuola di un artigiano, al contrario, sarei alla lezione di un professore che non farebbe altro che conciliare il sonno. Per quanto riguarda le note, invece, il motivo deriva dal fatto che il libro è davvero pensato per tutti, anche per chi non sa niente della musica. Cose che per i quarantenni sono normali, per i ventenni non lo sono per niente.Chiedi a un ragazzo chi era De Andrè.

A chi si rivolge il volume? Avete pensato a qualcuno in particolare o a una categoria precisa quando avete deciso di scriverlo?
David: Rock The Monkey! è per tutti. È per i musicisti che vivono di musica. Per chi ha tentato la strada della musica e oggi fa altro. Per chi vuole iniziare questo percorso e non ha la minima idea di quello che lo aspetta. Soprattutto, è un manuale di vita che raccoglie aneddoti e pensieri di anni di palco e retropalco in un periodo in cui la musica era spumeggiante, viva, prepotentemente alla ricerca di se stessa. Mi ha fatto piacere leggere il commento di una lettrice, non musicista, che ha scritto che il libro è una “scusa che ti fa capire come affrontare la vita”.

Nel libro si afferma giustamente l’idea che, chi ama la musica, non dovrebbe inseguire il successo. Ma in fondo chi ama fare musica desidera anche condividere le sue emozioni e il successo è l’estremo della condivisione. Dunque, sono veramente cosi antitetici la passione vera per la musica e la voglia di inseguire il successo, inteso non in termini economici ma di pubblico?
Massimo: dico sempre che il successo è “dentro” di noi. Ricordo che negli anni 60 il successo lo decretava il pubblico quando ascoltava un complesso o un cantante. La balera “piena” di gente era il successo. Significava continuità, e la continuità significava sopravvivenza! Nessuno di noi ambiva a fare dischi! Noi volevamo solo “lavorare”, cioè suonare sopra un palco sapendo che domani ci sarebbe stato un altro palco e così via. Il disco era la fase terminale del progetto artistico. Quando centinaia di migliaia di persone conoscevano quel tal cantante o gruppo, mettere un disco sul mercato voleva dire averlo già quasi venduto! Oggi la televisione parte da quella fase terminale, e cioè al contrario. Si parte dal “successo” per finire a casa propria senza che nessuno noti che siamo scomparsi. E questo perché il “gioco” prevede un nuovo vincitore. Se questa è una carriera!

Altra cosa, parlate giustamente di live e indicate questa come una delle strade migliori per fare la necessaria gavetta. Eppure (anche noi con Streetambula organizziamo eventi) non tutti riescono a trovare spazi e date, vuoi per la concorrenza spietata di Tribute Band e Dj improvvisati, vuoi perché al pubblico della musica interessa meno che mai, vuoi perché pochi sono i locali attrezzati, vuoi perché pochi sono i gestori appassionati (molti i localari, come li chiamate nel manuale). Come si può indicare un problema, come la soluzione?
Massimo: localari a parte (c’erano anche cinquant’anni fa!) il problema vero, a mio parere, è la qualità del repertorio! Oggi quasi nessuno è più in grado di scrivere una canzone di quelle che si canteranno tra trenta o quarant’anni. E quindi si capisce il successo della “Tribute Band” che replica a papera un successo già conclamato dall’originale! La gente ha bisogno di cantare le canzoni e quelle di oggi sono solo note che si inseguono spesso senza nessun talento o logica artistica. Un giorno qualcuno disse che TUTTI potevano scrivere una canzone e il risultato è purtroppo visibile! E visto che sognare non costa nulla,immaginiamo un ragazzo in una balera qualunque di periferia che canta una nuova canzone tipo “La canzone di Marinella” o “Fiori rosa, Fiori di pesco”. La gente sgranerebbe gli occhi dalla sorpresa, esattamente come avevo fatto io quando ho sentito i Beatles dal vivo nel 65.

Personalmente ho notato un certo addolcimento del Rock moderno, meno propenso a esprimersi con aggressività, sia musicale sia testuale, specie in provincia. Quanto questa tendenza può essere data dal fatto che è più difficile suonare per chi sceglie strade di questo tipo? Stesso discorso per la sperimentazione. Chi osa e cerca veramente di essere originale ha meno chance e porte cui bussare?
Massimo: il Rock moderno non esiste! Non c’è più Rock, tantomeno in Italia! Dico sempre che il Rock non è una chitarra “distorta”. Il Rock è una filosofia di vita. Il Rock, quello vero, aveva testi dissacranti, quasi pornografici. Simulavano l’orgasmo! Quello di oggi è vile Pop mascherato con chitarre “power” che simulano il SUONO del Rock ma che Rock non è. La responsabilità dei nuovi “mostri” sacri attuali è grave! Loro (forse) sanno la verità ma se ne guardano bene dal divulgarla. C’era molto Rock nelle canzoni di Bob Dylan, anche se non c’era “rumore”. Oggi c’è molto rumore per nulla! A mio parere Vasco è più rock di quello che scrive.

Nel testo, a un certo punto, fate una lunga carrellata di artisti italiani, da Vasco a Grignani. Mancano però nomi nuovi. Chi sono gli artisti che, seguendo la strada indicata nel manuale, oggi possono dirsi delle Rockstar? Intendo artisti giovanissimi.
David: dipende sempre dal concetto di “Rockstar”. Se con questo termine intendi il successo e il conto in banca, direi che ce ne sono parecchi di esempi, oggi. Come diciamo nel libro però, il successo non si misura in una stagione. Bisogna ragionare in anni. Abbiamo inserito una lunga carrellata di vincitori dei due talent televisivi più seguiti: è curioso leggere i nomi delle prime edizioni e vedere, in chi ti sta di fronte, l’espressione tipica del “non l’ho mai sentito”. C’è poi qualche altro vincitore che è finito a fare spot per operatori di telefonia mobile. Nomi nuovi non sono citati nel manuale semplicemente perché riteniamo sbagliato prendere ad esempio una carriera magari di due, tre o quattro anni. Se ragioniamo in questi termini, la vera sfida sarebbe decidere chi lasciare fuori. Il concetto di “Artista” è molto più ampio: “è uno stato genetico immodificabile” che prescinde dal look e dal successo.

Massimo: ho letto qualche giorno fa su un quotidiano che presto uscirà un film sulla vita e il successo di Marco Mengoni! Come Jim Morrison dei Doors! (ride ndr)

Perché la musica di qualità, che si tratti di Rock, Musica Leggera o Avanguardia, fa cosi fatica a emergere e attecchire?  Di chi è la colpa della mancanza d’interesse del pubblico per la qualità ma anche per la novità, sia nella musica sia nei nomi?
David: dipende dal grado di attenzione. Oggi solo una minoranza silenziosa ha l’interesse di approfondire un concetto per arricchirsi. La maggioranza è tracotante, rumorosa. Viaggia in terza corsia con gli abbaglianti accesi e suonando il clacson per sorpassare.Siamo tutti costantemente disorientati da mille stimoli. In un contesto di questo tipo, chiunque voglia affermarsi deve urlare più degli altri e utilizzare l’unico mezzo che consente di farsi notare in poco tempo: la televisione. E siccome l’interesse è poco, l’approfondimento nullo, l’affezione inesistente, il pubblico non potrà far altro che spostarsi sulla prossima novità.

Massimo: David ha espresso bene il concetto. Aggiungo solo che ogni anno nel nostro paese ci sono quindici milioni di download di suonerie stupide e banali. È la cultura, il massimo comun denominatore della qualità della vita di un popolo. È un problema anche politico.Vivere senza cultura è come affrontare il polo nord con le infradito!

Supponiamo che 1000 cantanti leggano il vostro libro. Quanti di questi pensate onestamente che possano seguirne i dettami? E quanti riusciranno veramente a suonare senza dover fare altro nella vita?
David: su mille che lo leggeranno, mille lo faranno proprio. Di questo sono convinto.Non è facile avere il tempo di leggere oggi. E quindi, chi si prende l’onore di acquistare un libro, significa che è già mentalmente predisposto a investire del tempo su se stesso. Basta solo un concetto, uno solo, che sia rimasto e per me sarà già un enorme successo.

Massimo: David è molto ottimista e voglio esserlo anch’io! Però resta il fatto che statisticamente i giovani non leggono giornali né libri tranne quelli di Fabio Volo! Speriamo almeno nei musicisti e nei cantanti “contaminati” dalla “Scimmia”!

Nell’ultima parte del libro, parlate della figura dell’artista, in musica, ma sembrate tenere fuori tutta una serie di tipologie come gli sperimentatori (quest’anno non posso che citare i Nichelodeon, i Deadburger, gli InSonar as esempio) che, raramente riempiono stadi o scrivono “canzoni”. Ci vorrebbe un altro manuale per chi vede la musica sperimentale come la propria strada?
David: il libro va proprio in questa direzione. Non esiste un prototipo di artista o musicista. Nel libro citiamo l’”olimpo degli dei”, volutamente scritto in minuscolo, per indicare quel luogo cui tutti aspirano. L’olimpo non è un QUANDO – quando sarò famoso -, ma un DOVE, proprio per indicare che il successo nasce da noi stessi e non da fattori esterni, come la riconoscenza del pubblico. Grazie all’esperienza di Massimo, abbiamo descritto situazioni di vita vissuta. Di com’era la musica quando esisteva ancora un percorso artistico. Di com’è diventata oggi. Chiunque faccia “ricerca”, sia essa sperimentale o tradizionale, sposa la filosofia di “Rock The Monkey!”, perché è alla Scimmia della Musica che noi guardiamo, non al linguaggio utilizzato. Per questa ragione, stiamo organizzando seminari nelle scuole (non solo di musica): a febbraio saremo in due eventi in una delle più importanti scuole milanesi, davanti a ragazzi di medie e liceo. E in futuro vedo benissimo una collaborazione con chiunque sperimenti percorsi alternativi di musica, anche in queste occasioni di “testimonianza” per i giovani.

Massimo: concordo con David e ribadisco che il successo è dentro di noi. Cioè tutte le volte che riusciamo a “catturare” nel buio cosmico un gruppetto di note che insieme formano una grande melodia. Anche Battisti era uno sperimentatore, ma è stato anche un artista molto popolare. Sperimentare non vuol dire “ora faccio qualcosa che capiamo in pochi”. Questo è bieco provincialismo!

Grazie mille della disponibilità.
Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto. Poi, se volete, rispondetemi.
David: cito due frasi di Rock The Monkey! a me particolarmente care: “Se sarai tu a cullare la scimmia, avremo vinto” e “tutto il resto è da raccolta differenziata”.

Massimo: ma chi è ‘sto Massimo Luca?

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Acquaintances – Acquaintances

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Non confondete questi cinque gentiluomini che di gentile non hanno proprio nulla con una sconosciuta band svedese anni Settanta dal nome in sostanza identico, se non fosse per quella “s” finale. Nel loro album d’esordio omonimo non c’è niente che richiami i seventies e non c’è niente di delicato nella loro musica. I cinque Acquaintances sono Jared Gummere (chitarra e voce), Patrick Morris (basso), Stephen Schmidt (chitarra e voce), Justin Sinkovich (chitarra, organo e voce) e Chris Wilson (batteria), nomi tutt’altro che ignoti della scena statunitense alternativa che avranno fatto saltare dalla sedia i più devoti fan di Don Caballero, The Ponys, Bare Mutants, Chino Horde, The Poison Arrows, Thumbnail, Avenue Boulevard, Atombombpocketknife, Ted Leo and the Pharmacist e Shake Ray Turbine, le cui vite coincidono, collimano, si mescolano e danzano attorno a quelle dei cinque Acquaintances. Acquaintances è il nuovo album dell’ennesima band nata dal combinarsi di cinque teste, musicisti di band diverse eppure, chi più chi meno, perpetuamente in contatto diretto tra loro. Undici tracce di un Rock nudo e pungente, che mette a frutto le traversie soniche degli specifici esecutori per esplodere in un panegirico di note, forse non eccezionalmente giovane ma evidentemente d’interesse considerevole, vista la prestanza e la gagliardia di cui si fregia e che spesso, troppo frequentemente fa difetto alle band di ultimissima generazione, in eccedenti circostanze incapaci di seguire strade poderose, energiche e vitali senza scadere nel qualunquismo e nel pressappochismo imitativo.

La fortuna dei cinque Acquaintances sta tutta nella possibilità di fondere le esperienze disuguali, di strutturare e di costruire uno scheletro sonoro su ritmiche che alternano precisioni e crescendo strumentali di stampo Math e Post Rock a dinamiche più immediate proprie del Power Pop, tutto in chiave moderna e Indie, se cosi si può definir quel certo modo di percuotere basso e batteria, di talune band di nuovo millennio.  Su queste armonie e sul miscuglio stilistico si dilatano ossature che danno poi corpo a tutta la proposta targata Acquaintances e che si personalizza in primo luogo nel modo atipico di dirigere la vocalità nei brani, che non è ricondotta a un unico “leader”, ma è consegnata di volta in volta ai tre Gummere, Schmidt e Sinkovich. Questo crea delle eufoniche alternanze tra periodi più risoluti, ostinati, ricchi di distorsioni e ripetizioni ritmiche di stampo Post Hardcore (“Paramounts”) ma anche Noise e Neo Gaze (“Skin”, “Got it Covered”) e altri più attenti invece alle melodie, alla musicalità e alla solerzia dei giri di chitarra o dei ritornelli (“Ghosts”, “Lower your Expetations, Increase your Odds”), in chiave se non proprio Pop, comunque neanche eccessivamente noisy, quasi a rammentare un certo Alt Rock stile Yo La Tengo (“This Night Is a Trick”). Questa spaccatura retorica non si fa tuttavia mai intemperante, e, anzi, le tracce si intercalano confondendosi l’una nell’altra specie quando i cinque arrivano a mettere insieme i diversi assetti e le dissimili impostazioni per attuare un sound di forte matrice anni Novanta, quasi a ricordare certi Nirvana (“Learn to Let It Go”), eppure grandiosamente moderno, nel suo essere esempio di associazione fra tradizione Garage e giovane grazia (“She Never Sleep”, “Bachelor’s Groove”, “Say All The Right Things”, “Thinking We Are Done Here”).

Progresso dunque che incontra la tradizione del Rock alternativo statunitense, melodia che danza con il rumore e le distorsioni e undici tracce sorprendenti che hanno il malinconico sapore dell’occasione persa perché sospetti che potevano essere parte di un vero capolavoro; alla fine, nonostante tutto quello che di positivo è nascosto dentro Acquaintances, deponi le cuffie convinto che manchi comunque qualcosa, anche se non sai di preciso cosa. Ti chiedi perché tre voci ma nessuna capace di trascinarti davvero, ti domandi come mai certi feedback soffocati e contenuti quando avrebbero dovuto sfondarti i timpani. Un disco che per quanto eccezionale ti abbandona con quella frase un po’ sempliciotta nella testa: “Ah, se solo avessi potuto parlare con loro”.

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Caligo – Fragili Ossessioni

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Ammirati dal vivo appena qualche settimana fa, non ho certo potuto esimermi dall’ascoltare il lavoro dei liguri Caligo anche su disco, quantomeno per controllare la resa del loro Pop cosi regolare, in un contesto meno triviale e casinista come può esserlo un live contest in un piccolo locale a cinquecento chilometri da casa. Innegabile che il mio desiderio di sviscerare abbia dato parecchie risposte convincenti ai miei dubbi. Se live l’ottima timbrica e lo stile di Marco Ferroggiaro erano spesso in contrasto con qualche imperfezione di troppo sia alla chitarra di Marco Maccianti, specie negli assoli, sia di Matteo Moggia alla batteria e se lo stesso Marco non era in grado di rendere complici gli altri musicisti, come Danilo Solari al basso, in quel fervore ineluttabile per suscitare empatia col pubblico, su disco, tutti questi limiti sono colmati e quello che resta in superficie sono le qualità di una band che ha ancora tantissima strada da fare ma che si dimostra prontissima a mangiare polvere e sudore e a macinare miglia. Il disco è autoprodotto e, com’è comprensibile che sia, il livello qualitativo della cover e del package non sono certamente il massimo. Allo stesso modo non convince troppo la registrazione, che, in alcuni brani ad esempio, sembra tenere troppo bassa la voce rispetto al resto (“L’Abitudine”) e non è l’unico difetto in cui ci si imbatterà.

Una cosa, però, sanno fare bene i Caligo; hanno ben chiaro come scrivere canzoni, riescono a scribacchiare quei pezzi di Musica Leggera che hanno fatto la fortuna di tanti colleghi in Italia. Brani come “Espiazione” o “Voce15” sono hit potenziali dal garantito successo se solo qualcuno le includesse nello spazio che meritano e che più si confà loro, ma anche i brani meno ordinari (“Eccomi”), più potenti musicalmente o anche solo fuori dagli schemi canonici del Pop tricolore, hanno degli scheletri melodici da far invidia ai più grandi. Quello che difetta ai Caligo per fare breccia è qualcosa che idealmente possiamo dividere in due parti distinte, poiché ho avuto la fortuna di osservarli anche in chiave live. Sul palco dovrebbero mostrarsi con maggiore trasporto e, soprattutto i chitarristi e non tanto il cantante e il batterista, dovrebbero assecondare Marco Ferroggiaro nella sua incisiva teatralità passionale. Troppo ancorati e l’idea di chi guarda è quella di una band occasionale messa al servizio del singolo artista, come fosse fatta da spogli turnisti. Inoltre i troppi strafalcioni trasmettono una difficoltà nell’esecuzione di certi brani, per cui sarebbe forse il caso di adattarli e arrangiarli in maniera più consona alle proprie attitudini.

Su disco questi grattacapi sono buttati alle spalle, anche se emergono altri limiti sostanziali. Escludendo il discorso su artwork e registrazione (siamo costantemente in contatto con le autoproduzioni e quindi non ci sentiremmo mai di condannare per qualche imperfezione di questo genere, se non troppo marcata) c’è da dire che i Caligo non possiedono certo una tecnica fuori dal comune, non sono provvisti di una voce che possa reggere da sola tutta la proposta artistica, non hanno un prodotto alternativo al resto da farci ascoltare. Sanno scrivere canzoni, questo sì, ed è su questo che possono e devono lavorare. Elaborano belle composizioni, con buonissime melodie, ma se questo vuole essere il loro punto di forza, si deve adoperarsi il doppio, con una ancor più meticolosa ricerca melodica e magari, creando una struttura dolce che possa fare da impalcatura alla musicalità più curata e che vada oltre l’esecuzione strumentale didattica di oggi.

In aggiunta, anche ai brani più buoni scarseggiano dei ganci utili a rapire immediatamente l’ascolto ed è su questo che devono lavorare, sul sound, su hook subito avvincenti che rapiscano l’orecchio di chi magari ascolta distrattamente per poi aprire la strada alle armonie vocali di Ferroggiaro, oltretutto avvantaggiato dalla lingua italiana usata con dedizione, visto che parliamo di ambienti popular. Una volta fatto ciò, le canzoni potranno suonare in mille modi diversi, più naturali come le hit già citate o più cariche come “Pioggia sulle Ossa” (che contiene una pseudo citazione di Bob Marley), non importa. Perché una volta che un brano ha un gancio, una melodia d’impatto, una buona voce, un discreto arrangiamento e una degna registrazione, tutto quello che serve è solo un posto dove far girare il disco, il resto viene da solo. Il Pop non è Musica Leggera ma molto di più.

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Analisi di un disatro annunciato! La classifica dei dischi più venduti nel 2013.

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Censored

Quello che trovate subito sotto è il risultato di una piccola analisi che ho voluto fare dopo aver letto le classifiche di vendita degli album in Italia nel 2013. Andiamo per ordine e cerchiamo di capire di che cosa si tratta. Qualche giorno fa sono stati resi pubblici i dati concernenti la vendita dei dischi nell’anno solare appena passato sul territorio italiano e in testa troviamo Ligabue con Mondovisione seguito da Modà e Jovanotti. A fine articolo trovate la lista delle prime cinquanta posizioni. Senza troppi giri di parole, la domanda è una sola: dove sta la nostra bella musica indipendente? Dove si sono ficcati quei nomi “giganteschi”, almeno per noi e probabilmente per chi ci legge, come Arcade Fire, Placebo, Low e via dicendo? Scorrendo la classifica, il primo nominativo sul quale vale la pena soffermarci è quello dei Daft Punk al diciassettesimo posto, tallonati dai Depeche Mode; poi abbiamo i Pearl Jam al trentesimo e più staccati David Bowie e i Muse. Andando oltre la posizione numero cinquanta, scopriamo il primo e unico nome tutto italiano del panorama Indie (passatemi il termine che mi permette di sintetizzare) e cioè quello dei Baustelle. La cosa che pare chiara, dunque, è che c’è una spaccatura netta tra il pubblico musicalmente “colto” o meglio quello che si pone con più attenzione alle uscite underground (in linea di massima le stesse proposte da webzine come Rockambula ma anche dai giganti Ondarock, SentireAscoltare o Rockit o le riviste cartacee come Rumore, Il Mucchio e via dicendo) e chi effettivamente i dischi li compra.

O quantomeno, il pubblico che ascolta e apprezza le band che questi magazine o webzine come la nostra promuovono, non è evidentemente abbastanza numeroso da far sì che i loro artisti preferiti possano entrare nelle classifiche riguardanti gli album più venduti, al fianco dei sopracitati re (con la minuscola) del pop/rock (con la minuscola) tricolore. In quest’ottica poco stupisce che gli Arcade Fire vendano circa seimila copie e i Marlene Kuntz appena settemila e comunque mille in più dei canadesi, che invece, nei nostri discorsi da musicofili, collezionisti di vinili, talent scout dell’Indie Rock, insomma, nelle chiacchierate tra noi Indie Snob che al concerto degli U2 se ne vanno dopo aver ascoltato il gruppo spalla, sembrano il non plus ultra del panorama mondiale. Partendo da questo presupposto e visto che il mio ruolo mi permette di affermare la scarsissima qualità delle classifiche di vendita nostrane, una domanda sorge spontanea ed è una questione che in molti hanno sollevato in questi giorni. Quando esattamente ci siamo ridotti cosi e cosa ci ha portato a questo? L’avvento dei reality show, l’affermarsi della Tv come principale strumento d’informazione, l’arrivo degli mp3, il download illegale, il generale impoverimento culturale? In quale anno, in quale preciso istante l’Italia è caduta nel baratro? Per cercare di dare una risposta a queste domande ho deciso di realizzare questo piccolo studio da cui scaturisce il grafico che trovate di seguito.

Grafico

Semplicemente ho considerato tutte le classifiche di vendita degli album, anno per anno, dal 2009 al 1964 (dati www.hitparadeitalia.it) e ho analizzato i dischi che si trovano nelle prime posizioni. Poi ho esaminato il gradimento di quei dischi, attraverso un portale che avesse un pubblico quanto più variegato possibile (www.rateyourmusic.com), usandolo come strumento quanto più oggettivo possibile per valutare la qualità (o meglio la percezione qualitativa di un dato pubblico) degli album analizzati. Ovviamente, parlando di giudizi su album, ci sarà una miriade di variabili da considerare (dal tipo di pubblico del sito, alla preparazione dei votanti e cosi via) tanto che una qualsiasi valutazione oggettiva è pressoché impossibile, ma ho cercato di usare gli strumenti più adatti allo scopo, tentando di non influenzare il risultato. Quello che ho cercato di capire è quanto la qualità media dei dischi più venduti è variata nel tempo e se c’è un momento storico in cui la spaccatura si è fatta più evidente.

Nel grafico dunque trovate tutti gli anni sull’asse orizzontale mentre in verticale è presente la valutazione qualitativa che, attraverso il mio sistema, va da un minimo di zero a un massimo di quindici. Tanto per capirci, i tre album con il voto più alto presenti nel sito arrivano a 12,84. Quello che emerge chiaramente è che (sempre considerando la presenza d’infinite variabili che rendono l’analisi interessante più come curiosità) pare esserci effettivamente un peggioramento nel pregio dei dischi che si trovano nella parte alta della classifica, ma, nello stesso tempo, non c’è apparentemente un momento preciso cui sembra corrispondere questo calo. La cosa lascerebbe supporre che nessun motivo unico scatenante debba riscontrarsi in questa spregevole inclinazione ma che anzi, inevitabilmente, una serie di concause, ci stia portando ad allargare il divario tra album di qualità e album più venduti. Allo stesso modo, sembra anche esserci una sorta d’inversione di tendenza dagli anni 2000/2001 ma si tratta di un periodo troppo breve perché si parli di vera ripresa in tal senso, anche perché, spostando tali considerazioni oltre il 2006 e analizzando proprio i dati 2013, potremo notare come l’anno appena passato, si piazzerebbe nel grafico sugli stessi bassissimi livelli d’inizio millennio.

Che cosa dire dunque. Noi continuiamo per la nostra strada, proseguiamo a promuovere e ascoltare quella musica che riteniamo essere veramente di qualità con la consapevolezza che sarà solo una minoranza a seguirci, quella stessa minoranza che però ci piace incontrare ai concerti dei Massimo Volume o, tra qualche mese, dei Neutral Milk Hotel. Probabilmente non ha senso cercare un solo e unico colpevole e probabilmente, quest’analisi andrebbe raffrontata con altre che rivelino la situazione culturale generale del paese e la sua involuzione. Allo stesso modo non possiamo che ridere di chi ancora è riuscito a stupirsi di questi dati, che trovate di seguito. Cosa vi aspettavate di vedere? I These New Puritans in vetta?

 

 Pos. Att. TITOLO ARTISTA
1 MONDOVISIONE LIGABUE
2 GIOIA … NON E’ MAI ABBASTANZA! MODÀ
3 BACKUP 1987-2012 IL BEST JOVANOTTI
4 STECCA MORENO
5 SCHIENA VS SCHIENA EMMA
6 SIG. BRAINWASH – L’ARTE DI ACCONTENTARE FEDEZ
7 #PRONTOACORREREILVIAGGIO MARCO MENGONI
8 MIDNIGHT MEMORIES ONE DIRECTION
9 20 THE GREATEST HITS LAURA PAUSINI
10 MAX 20 MAX PEZZALI
11 AMO RENATO ZERO
12 NOI DUE EROS RAMAZZOTTI
13 SONG BOOK VOL.1 MIKA
14 MARIO CHRISTMAS MARIO BIONDI
15 L’ANIMA VOLA ELISA
16 AMORE PURO ALESSANDRA AMOROSO
17 RANDOM ACCESS MEMORIES DAFT PUNK
18 DELTA MACHINE DEPECHE MODE
19 LA SESION CUBANA ZUCCHERO
20 INNO GIANNA NANNINI
21 UNA STORIA SEMPLICE NEGRAMARO
22 SENZA PAURA GIORGIA
23 BRAVO RAGAZZO GUE PEQUENO
24 GUERRA E PACE FABRI FIBRA
25 SUN MARIO BIONDI
26 CONVOI CLAUDIO BAGLIONI
27 TAKE ME HOME ONE DIRECTION
28 MERCURIO EMIS KILLA
29 AMO – CAPITOLO II RENATO ZERO
30 LIGHTNING BOLT PEARL JAM
31 PASSIONE ANDREA BOCELLI
32 CHRISTMAS SONG BOOK MINA
33 L’AMORE È UNA COSA SEMPLICE TIZIANO FERRO
34 A TE FIORELLA MANNOIA
35 THE TRUTH ABOUT LOVE PINK
36 MIDNITE SALMO
37 TO BE LOVED MICHAEL BUBLE’
38 THE NEXT DAY DAVID BOWIE
39 BELIEVE JUSTIN BIEBER
40 UN POSTO NEL MONDO CHIARA
41 LORENZO NEGLI STADI – BACKUP TOUR 2013 JOVANOTTI
42 LIVE KOM 011: THE COMPLETE EDITION VASCO ROSSI
43 SOTTO CASA MAX GAZZÉ
44 ORA GIGI D’ALESSIO
45 SWINGS BOTH WAYS ROBBIE WILLIAMS
46 THE 2ND LAW MUSE
47 LA TEORIA DEI COLORI CESARE CREMONINI
48 IN A TIME LAPSE EINAUDI
49 UNORTHODOX JUKEBOX BRUNO MARS
50 ARTPOP LADY GAGA

NON HO TROVATO UNA CANZONE PIU’ ADATTA!!!

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Bologna Violenta – Uno Bianca

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Con l’uscita, nel 2012, di Utopie e Piccole Soddisfazioni, Nicola Manzan, in arte Bologna Violenta, ha fissato per sempre i paletti della sua espressione stilistica, permettendoci di distinguerlo al primo ascolto, anche in assenza quasi totale della voce, sua o di chi altri. Con quel terzo disco, il polistrumentista già collaboratore di Teatro Degli Orrori, Non Voglio Che Clara, Baustelle, sembrava gridare all’Italia la sua ingombrante presenza, divenendo poi uno dei punti fermi (grazie anche alla sua etichetta, Dischi Bervisti) di tutta la scena (ultra) alternativa che non si nasconde ma si offre in pasto a ogni sorta di ascoltatore, dai più incalliti cantautorofili, fino agli inguaribili metallari. Nicola Manzan non colloca alcuna transenna tra la sua arte e i possibili beneficiari e allo stesso modo non pone freno alla sua creatività, fosse anche spinto dal solo gusto per il gioco e l’esperimento divertente magari senza pensare troppo al valore per la cultura musicale propriamente detta. Arriva perfino a costruire una specie di storia della musica, riletta attraverso quaranta brani che sono rispettivamente somma di tutti i pezzi composti da quaranta differenti musicisti. Dagli Abba ad Alice in Chains passando per Art of Noise, Barry White, Bathory, Bee Gees, Black Flag, Black Sabbath, Bob Marley, Boston, Carcass, Charles Bronson, Dead Kennedys, Death, Donna Summer, Eagles, Faith No More, Genesis, Jefferson Airplane, Kansas, Kyuss, Led Zeppelin, Michael Jackson, Negazione, Nirvana, Os Mutantes, Pantera, Pink Floyd, Queen, Ramones, Siouxsie and the Banshees, T. Rex, The Beatles, The Clash, The Doors, The Police, The Velvet Underground, The Who, Thin Lizzy e Whitney Houston. Ogni traccia è il suono di tutti i frammenti che compongono la cronaca musicale di quell’artista. Poco più di una divertente sperimentazione che però racconta bene il soggetto che c’è dietro.

Dopo questo esperimento sonico per Bologna Violenta è giunta finalmente l’ora di far capire a tutti che non è il caso di scherzare troppo con la sua musica e quindi ecco edito per Woodworm, Wallace Records e Dischi Bervisti ovviamente, il suo quarto lavoro, Uno Bianca.  Se già nelle prime cose, Manzan ci aveva aperto le porte della esclusiva visione cinematografica delle sue note caricando l’opera di storicità, grazie a liriche minimali, ambientazioni e grafiche ad hoc, con quest’album si palesa ancora più la valenza fortemente storico/evocativa della sua musica, in contrapposizione ai cliché del genere Grind che lo vedono stile violento e aggressivo anche se concretamente legato a temi pertinenti politica e società. La grandezza di Uno Bianca sta proprio nella sua attitudine a evocare un periodo storico e le vicende drammatiche che l’hanno caratterizzato, attraverso uno stile che non appartiene realmente all’Italia “televisiva” di fine Ottanta e inizio Novanta. Il quarto album di Manzan è proprio un concept sulle vicende della famigerata banda emiliana guidata dai fratelli Roberto e Fabio Savi in attività tra 1987 e 1994, che ha lasciato in eredità ventiquattro morti, centinaia di feriti e strascichi polemici sul possibile coinvolgimento dei servizi segreti nelle operazioni criminali. Un concept che vuole commemorare e omaggiare la città di Bologna attraverso il racconto di una delle sue pagine più oscure, inquietante sia perché i membri erano appartenenti alla polizia e sia perché proferisce di una ferocia inaudita. Il disco ha una struttura categorica che non lascia spazio a possibili errori interpretativi e suggerisce la lettura già con i titoli dei brani i quali riportano fedelmente data e luogo dei vari accadimenti. Per tale motivo, il modo migliore di centellinare questo lavoro è non solo di rivivere con la memoria quei giorni ma di sviscerare a fondo le sue straordinarie sfaccettature, magari ripassando con cura le pagine dei quotidiani nei giorni prossimi a quelli individuati dalla tracklist, perché ogni momento del disco aumenterà o diminuirà d’intensità e avrà un’enigmaticità più o meno marcata secondo il lasso di tempo narrato o altrimenti attraverso la guida all’ascolto contenuta nel libretto.

Sotto l’aspetto musicale, Manzan non concede nessuna voluminosa novità, salvo mollare definitivamente ogni legame con la forma canzone che nel precedente lavoro era ancora udibile in minima parte ad esempio nella cover dei Cccp; i brani sono ridotti all’osso e vanno dai ventuno secondi fino al minuto e trentuno, con soli due casi in cui si toccano gli oltre quattro minuti. Il primo è “4 gennaio 1991 – Bologna: attacco pattuglia Carabinieri” che racconta l’episodio più feroce e drammatico di tutta la storia dell’ organizzazione criminale; la vicenda delle vittime, tre carabinieri, del quartiere Pilastro. La banda era diretta a San Lazzaro di Savena per rubare un’auto. In via Casini, la loro macchina fu sorpassata dalla pattuglia e i banditi pensarono che stessero prendendo il loro numero di targa. Li affiancarono e aprirono il fuoco. Alla fine tutti e tre i carabinieri furono trucidati e finiti con un colpo alla nuca. L’assassinio fu rivendicato dal gruppo terroristico “Falange Armata” e nonostante l’attestata inattendibilità della cosa, per circa quattro anni non ci furono responsabili. Il secondo brano che supera i quattro minuti è “29 marzo 1998 – Rimini: suicidio Giuliano Savi”, certamente il più profondo, il più tragico, il più emotivamente violento, nel quale è abbandonata la musica Grind per una Neoclassica più adatta a rendere l’idea di una fine disperata, remissiva e da brividi. L’episodio che chiude l’opera è, infatti, il suicidio del padre dei fratelli Savi, avvenuto dentro una Uno Bianca, grazie a forti dosi di tranquillanti e lasciando numerose righe confuse e struggenti.

Come ormai abitudine di Manzan, alla parte musicale Grind si aggiunge quella orchestrale e a questa diversi inserti sonori (a metà di “18 agosto 1991 – San Mauro a Mare (Fc): agguato auto senegalesi” sembra di ascoltare l’inizio di “You’ve Got the Love” di Frankie Knuckles ma io non sono l’uomo gatto) che possono essere campane funebri, esplosioni, stralci radiotelevisivi, rumori di sottofondo, e quant’altro. Tutto serve a Bologna Violenta per ricreare artificialmente quel clima di tensione che si respirava nell’aria, quella paura di una inafferrabile violenza. Ora che ho più volte ascoltato i trentuno minuti di Uno Bianca, ora che ho riletto alcune pagine rosso sangue di quei giorni, comincio anche a ricordare meglio. Avevo circa dieci anni quando cominciai ad avere percezione della banda della Uno bianca e ricordo nitidamente nascere in me una paura che mai avevo avuto fino a quel momento. Il terrore che potesse succedere proprio a me, anche a me, inquietudine di non essere immortale, ansia di poter incontrare qualcuno che, invece di difendermi giacché poliziotto, senza pensarci troppo, avrebbe potuto uccidere me e la mia famiglia non perché folle ma perché uccidermi sarebbe servito loro a raggiungere lo scopo con più efficacia e minor tempo. Ricordo che in quei tempi, anche solo andare in autostrada per raggiungere il mare era un’esperienza terrificante, perché l’autostrada è dove tutto cominciò. “19 giugno 1987 – Pesaro: rapina casello A-14”, qui tutto ha inizio; una delle storie più scioccanti d’Italia e uno degli album più lancinanti che ascolteremo quest’anno.

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Kyle – Space Animals

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Secondo album, dopo This Is Water di due anni più vecchio, per Michele Alessi, l’unico membro che si dissimula dietro il nome di Kyle, già chitarra baritono dei Captain Quentin oltre che membro di Maisie e Distape. Ai più attenti basteranno questi nomi per capire che improbabilmente la proposta dell’artista potrà incanalarsi nel più classico Pop nostrano, o ancor peggio, nella consuetudine della musica leggera che, ripudiati i fasti di un tempo, arranca oggi in un vortice di banalità. Anche questa volta Michele Alessi riesce a meravigliare, non solo giacché mette da parte l’attenzione maniacale per le chitarre acustiche ma anche perché amplia il progetto Kyle, che trasfigura per l’occasione da one man band a gruppo vero e proprio e non unicamente per i live. Scelta quanto mai azzeccata perché mettere insieme chitarre, sax, ukulele, flauti, mandolino, vibrafono, farfisa, banjo, wurlitzer, toypiano, rhodes, contrabbasso, batteria e voce è cosa più agevole tanto quante più sono le teste al servizio della musica. Ed è cosi che anche Yandro Estrada, Aldo D’Orrico, Ignazio Nisticò e Federico Mari entrano in studio con Alessi per arrangiare le dieci tracce di Space Animals e far si che Kyle diventi, in modo più palese, il nome di una band, o almeno di un progetto eterogeneo, invece che il semplice pseudonimo d’un singolo artista, che comunque resta il centro nevralgico, sia in fase compositiva sia espressiva.

Lo strambo titolo non lasci interpretare alcun richiamo sovrabbondante alla psichedelia cosmica britannica (i riferimenti beatlesiani sono piuttosto in chiave melodica) o teutonica anni settanta perché in Space Animals lo spazio che viene evocato è inteso in senso più ampio, come vuoto sì aereo, ma soprattutto psichico e interiore e come l’insieme di una molteplicità di mondi vitali che plasmano la vita stessa e l’esistenza umana, anche nelle sue fasi più materialistiche e animali. Un album che canta le vastità interstellari, ma anche le piccolezze atomiche attraverso il racconto dell’umana normalità e lo fa attraverso le vie del Pop più dinamico, immediato nelle melodie ma non certo banale o semplicistico, attento all’orecchiabilità ma che non si vende alle stupidità dei ritornelli da classifica. Attraverso una strumentazione multicolore, ukulele (oggi tornato tanto in voga) su tutti, i Kyle prendono la lezione Beat Pop dei Fab Four e ne fanno musica nuova, percorrendo inflessioni che spaziano in modo giocoso e festaiolo, dentro la World Music, la musica da strada dei quartieri parigini, il Jazz Pop, lo Swing Revival ma anche più meramente nel moderno Indie Pop/Rock, nel Folk e nel Country di lingua inglese, con arrangiamenti spettacolari dalla forma espressiva incredibile, specie se paragonata alle solite insulsaggini del Pop italiano, cui siamo abitualmente esposti.

Dieci canzoni dal sapore fumoso del tempo ma anche freschissime, grazie all’uso puntuale di tutto l’armamentario a disposizione, brani che non hanno bisogno di essere presentati uno a uno ma che v’invito a scoprire uno dietro l’altro, per coglierne le sottili differenze e lasciarvi trasportare in un magico mondo stracolmo di note. Un album bellissimo che pecca solo per l’assenza di brani veramente memorabili, di quelli che hai voglia di riascoltare anche dieci volte di seguito. In fondo sono le canzoni, quando si tratta di album densi, che fanno la differenza tra un bel disco e uno eccezionale. E poi ci sarebbe anche un sound che per quanto suoni articolato e gradevole al tempo stesso, non pare certo fissare le peculiarità distintive di una band ma lascia dei buchi un po’ ovunque, rendendo difficile una qualsivoglia interpretazione del marchio di fabbrica distintivo dei Kyle. Non è tutto oro, dunque, ma questa è un’altra storia, torniamo semplicemente a godere.

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The Wows – War on Wall Street

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Non è facile capire quanto sia da considerarsi pregio o difetto il possedere o proporre un sound per nulla figlio della propria terra, della società che ci ha cullati e cresciuti, della musica che s’incarna nella parola “italia”. Forse ad alcuni parrà una specie di negazione delle proprie radici, un modo per prendere le distanze, forse per convenienza e opportunismo, da qualcosa che fa parte di tutti, ma non da tutti è accettato di buon grado. Tuttavia le nostre fondamenta, specie quando si parla di musica, i principi che stanno alla base della formazione di ogni ragazzo che si cimenta con pelli e corde e microfoni non sempre sono gli stessi che tengono saldo il paese a una tradizione cantautorale che oltretutto rischia di generare un’eterna ripetizione degli stessi cliché. Ognuno di noi ha le sue origini in ciò che ha amato, in ciò che l’ha fatto diventare quello che è e l’ha spinto ad amare quello che ama e in un’epoca in cui, tra internet e tv, le barriere di spazio e tempo sembrano solo illusioni, le radici possono anche essere lontane tanto quanto dista Sheffield da Verona.

Proprio cosi, nella musica degli italianissimi The Wows non c’è davvero nulla della tradizione cantautorale italiana e pochissimo anche della scena alternativa anni 90 tricolore se si esclude la voce di Paolo Bertaiola che ogni tanto tradisce una pronuncia che, se non imperfetta (questo può dirlo solo un madrelingua o un docente di lingua inglese), quantomeno suona strampalata, dissomigliante da quello che solitamente si ascolta dalle corde vocali dei singer d’oltremanica. Impossibile non richiamare alla mente le dinamiche più garage degli Arctic Monkeys (“Bad Habit”, “You Are the Target Market”) ascoltando questo War on Wall Street cosi com’è difficile non ritrovare nelle ritmiche danzereccie e Rock al tempo stesso lo stile Franz Ferdinand (“Model Soldier”). Qualche richiamo all’Atmospheric Sludge dei Neuroris e allo Stoner più introspettivo (“Harlot’s House”, “Thinking of Business”, “A Fool’s Parade”) si ha negli intermezzi meno spinti e l’America è anche omaggiata in alcune note inserite qua e là e nei passaggi più aggressivi (“Nice Day”) e Folk (“Walls”) ma si tratta di vaghi cenni di qualcosa di meno ostentato di quello che vorrebbero far sembrare perché il nucleo, l’anima è innegabilmente nella Gran Bretagna di fine e nuovo millennio dei già citati (e non), spesso ai limiti del plagio (“Mr. Maginot”). Oltre che tanto Garage Rock Revival, The Wows non si fanno mancare armonie più datate, vicine al Post Punk ma anche alla New Wave (“Thinking of Business”) che non fanno che confermare la loro anima internazionale.

Paolo Bertaiola (voce), Marco Bressanelli (chitarra), Matteo Baldi (chitarra), Fabio Orlandi (batteria) e Pierluca Esposito (basso) vengono da Verona ma la loro musica giunge da molto più lontano, nel tempo e nello spazio e se non vi riuscirà di trovare niente di troppo originale, se nelle loro canzoni non vi parrà di scorgere nulla che non avreste potuto trovare fatto in maniera migliore da qualcuno dei più illustri colleghi britannici e statunitensi, se le chitarre sembreranno scimmiottare senza troppa efficacia e le ritmiche ripetersi con poca scaltrezza, ascoltate comunque il loro War on Wall Street perché un paio di brani quantomeno vi faranno muovere il culo a tempo di Rock e di questi tempi non è niente male.

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