Silvio Don Pizzica Author

Era così tanto un bravo ragazzo. Poi ha conosciuto la trap.

Nana Bang! – Space Is a Cake

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Non è passato molto da quando ho ascoltato quella compilation che si prefissava di mettere insieme il meglio della scena emergente della provincia bresciana e ricordo quanto mi fossi accanito (forse il termine è più duro della realtà) sulla poca originalità e voglia di sperimentare delle band in ascesa racchiuse in quel Brescia C’è ma che poi sono lo specchio di una quotidianità più vasta. Eppure, ora che rammento più adeguatamente, a Brescia c’è anche qualcuno che non è solo semplicemente bravo, ma ha il coraggio di andare oltre le barriere. Ad esempio, a Brescia ci sono i Nana Bang!, duo composto da Andrea Fusari (mente, voce e chitarra del gruppo) e Beppe Mondini (percussioni e synth) che già avevo avuto modo di incrociare in passato per il bell’omonimo dello scorso anno. Dismessi i panni da seguaci del verbo di Daniel Johnston, i due, sempre conservando inalterata l’idea di Paisley Underground, riducono al minimo le similitudini con Velvet Underground (“Millionaire”) ma anche The Dodos o Johnny Cash, scegliendo di dare un taglio “sciamanico” al loro sound e quindi gonfiandolo di una palesata psichedelia cosmica.

Restano gli ingredienti Folk (“Quarantined”) e le registrazioni, pressoché in presa diretta, rendono ancora con forza l’idea d’immediatezza e di voluta bassa fedeltà che li aveva personalizzati in precedenza ma ora, l’asse portante sembra spostarsi su lidi meno concreti. In quest’ottica, pare chiara la scelta di impiantare in copertina due sciamani Sami (religione politeista e basata sulle forze della natura) con tamburo magico, ripresi da un’incisione del 1767 con la sola variante di un’apertura spazio-temporale sulle pelli, al posto di simboli runici che sono ricalcati nel nome stesso della band. Sul Cd è invece stampata una solarizzazione psichedelica che altro non è che la figurazione della luna (archivio NASA), effigiante il suo lato oscuro, con i diversi colori a rappresentare le altezze. Dunque, al lato prettamente psichedelico è posto di fianco e ben saldo un concetto cosmico di sperimentazione, che richiama alla mente certe avanguardie anni 60 e 70. A tutto questo si unisce un uso della ritmica più tribale e ossessiva, in contrapposizione alla vocalità armoniosa, quasi a evocare una danza interstellare.

Ancora buonissime idee, dunque, per la formazione lombarda eppure convince in minor grado questo Ep rispetto all’antecedente album. I brani hanno meno carattere e suonano più confusi. Il sound è troppo scheletrico anche se solido e, nonostante la scelta apprezzabile di non seguire la canonica forma canzone, probabilmente qualcosa in più ce lo si poteva aspettare. Presumibilmente quel qualcosa in più andrà a costituire l’album in fase di realizzazione, composto dai restanti pezzi di quei sedici registrati nella session da cui nasce questo Space Is a Cake (non è un caso neanche la vicinanza con Space Is the Place di Sun Ra). Per ora i Nana Bang! fanno un passo indietro ma hanno tutto per far sì che quel passo diventi solo una rincorsa.

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Il Video della Settimana: Inguine di Daphne – I Danni Del Desiderio

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La scelta di questa settimana cade sul terzo videoclip ufficiale dal terzo album (I Danni del Desiderio) della band Inguine di Daphne, formazione nata nel 2004 e formata da Alessia De Capua, Alexandr Sheludckò, Dagon Lorai, Dario Alcontrario e Egon Viqve. La band, che unisce sapientemente musica e teatro è prodotta da First Floor Factory mentre la clip che trovate di seguito e in homepage per tutta la settimana, è diretta da Giuseppe Barbato.

Sito Ufficiale

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Aa. Vv. – Brescia C’è New Generation

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Prima di ascoltare un qualsiasi disco Punk (e derivati) italiano, soprattutto, bisognerebbe comprendere da che parte si sta. Non è cosa intelligente frazionare il mondo e ogni aspetto che lo contraddistingue, in categorie fatte di opposti eppure, in questo caso, dobbiamo captare se è e sarà nostra intenzione schierarci tra le fila dei nostalgici anni 70, convinti che il Punk sia morto ormai da anni e con esso le illusioni di ribellione e cambiamento oppure tra quelle di chi è convinto che in realtà il Punk, interpretato più come condizione mentale che come stile musicale, non sia mai morto e anzi sia impossibile da sopprimere, almeno finché ci saranno giovani ancora capaci di sognare e di opporsi. Una compilation come Brescia C’è New Generation può essere seguita senza pregiudizi solo da questi ultimi, cosa che non indica necessariamente dover essere ammaliati dalla musica che contiene. Del resto, il valore delle raccolte è circa lo stesso di quello che avevano tempo fa, quando erano allegate alle riviste, o ancor più in là negli anni, quando erano utili a mettere in mostra una marea di emergenti nel minor spazio fisico e uditivo possibile. Del resto, è più facile scoprire una qualsiasi nuova promessa attraverso queste trovate che non ascoltando intere discografie di band trovate a caso sul web, col problema anche di dover stanare, scrutare e sporcarsi le mani. Chi fa un lavoro come il nostro non ha complicazioni ma per un pubblico sempre più impigrito dalla “velocità” del web, scovare la next big thing rischia di diventare un’impresa inverosimile.

Ecco allora che Brescia C’è New Generation acquisisce un valore moderno per certi versi, anche se vecchio come la musica stessa nella realtà dei fatti. L’idea fondamentale è quella di mettere insieme ventidue band in ascesa o comunque non troppo note nel resto dello stivale, così da dare la possibilità a un pubblico più ampio possibile di farsi un’idea di quello che è lo stato di salute delle scene emergenti italiane, nel caso di uno specifico territorio e magari svestire qualche formazione degna di considerazione. A essere sinceri non c’è da aspettarsi molto a osservare l’estetica di artwork e libretto (comprensibilmente inesistente) ed anche la qualità non avvicina minimamente quella delle migliori uscite internazionali. Brescia C’è New Generation mette invece ancor più in evidenza un grattacapo che si fa sempre più critico e che ho avuto modo di rilevare anche durante diverse manifestazioni, contest, eventi nei quali ho potuto lavorare a stretto contatto con gli indipendenti e gli emergenti. Proprio il concetto d’indipendenza, tanto rivendicato a parole, mai si traduce concretamente in una proposta veramente originale, fuori dagli schemi, qualitativamente eccelsa e non solo sotto l’aspetto tecnico. Forse troppe sono le persone che decidono di provarci e il talento finisce per nascondersi. Non voglio con questo gettare fango sulle tante formazioni di tutto rispetto che compongono la compilation, su tutti i grandi punker Totale Apatia che in realtà poco avrebbero bisogno di farsi notare ancora ma non posso, per onesta intellettuale, negare che non siano molti i nomi veramente sopra la media, nel disco qui trattato. Non è il caso di scendere nei particolari perché la mole dell’opera e i tempi ristretti non coincidono, ma gli unici che forse sarebbe il caso di approfondire, oltre ai già citati Totale Apatia, paiono essere i Micro Touch Magics (Crossover), i French Wine Coca (Alternative Rock), i Coffee Explosion (Garage acerbo ma potenzialmente molto interessante, nella sua capacità di unire epoche lontane), La Cena dei Cannibali (assurdamente genialoidi e anche loro dal potenziale notevole), The Mugshots (evidentemente capaci anche, se il brano proposto non mi ha troppo entusiasmato). Non mancano inoltre band di tutto rispetto, come gli Under a Curse, gli Uprising o i DCP, che però seguono troppo i loro idoli e il loro stile, imitando senza scrupoli anche se non facilitati da generi difficili da rinnovare. Poi c’è chi si è proposto con registrazioni veramente improponibile e di scarsa qualità ma, in questo caso, il discorso sul “mettersi in mostra a tutti i costi” si farebbe troppo lungo e complesso. Meglio tornare ad ascoltare questi ventidue brani, alcuni bellissimi, altri grintosi, molti mediocri, pochi veramente difficili da digerire eppure certamente tutti onesti e fatti con cuore e anima, più di ogni altro brano che possiate aver ascoltato oggi sulla vostra Rds.

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Peter Piek – Cut Out the Dying Stuff

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Il poliedrico artista teutonico, polistrumentista, cantautore e pittore oltre che fondatore della comunità artistica del PPZK, nato Peter Piechaczyk a Karl Marx Stadt, oggi Chemnitz, trentatré anni orsono, ricompare con un nuovo prodotto disegnato sapientemente per elevare la sua sfavillante voce oltre la banale beatitudine. Una voce fantasticamente imperfetta, almeno al primo ascolto e solo nella timbrica un po’ aspra ma che non impiega troppo a palesarsi in tutta la sua bellezza data anche da un’ampiezza vocale non comune. La sua veste di artista a tutto tondo prende forma in fase compositiva e anche durante le esibizioni live miscela musica e arte, facendo vedere foto scattate ascoltando brani e fornendo cuffie per udire i brani che hanno suggestionato i suoi quadri. Musica e pittura e arte in generale che si compenetrano, vicendevolmente e senza soluzione di continuità, lasciando emergere l’unica differenza tra le diverse espressioni artistiche rappresentata dal tempo. Questa sua triplice (non disdegna neanche il ruolo di scrittore) veste lo porta spesso a girovagare per la Germania e il mondo intero, dagli Stati Uniti alla Cina e proprio la promozione di Cut Out the Dying Stuff lo ha condotto anche a toccare i lidi della nostra penisola.

L’album è il terzo capitolo della saga personale di Peter Piechaczyk, dopo Say Hello to Peter Piek del 2006 e I Paint It on a Wall di circa quattro anni fa e rispecchia alla perfezione quell’aura d’internazionalità acquisita con le circa cinquecento esibizioni internazionali. La stessa opening altri non è che un’innamorata dedica alla città spagnola (“Girona”) ma non mancano intromissioni in terra inglese, cinese addirittura e ovviamente tedesca. Nonostante l’astrattismo possa essere definito come uno dei punti cardine per orientarsi nell’oceano pittorico di Piek non si può dire lo stesso della marea di note che danzano dentro i dodici brani di Cut Out the Dying Stuff. Al contrario, le liriche presentano strutture Pop melodiose e orecchiabili e raramente fuori dal comune e una forma canzone tutto sommato canonica e anche troppo lineare, con una miscela tra strumentazione sostanziale e arrangiamenti e voce che ricalca le più consone strade del Pop moderno che si affaccia presso i lidi del Contemporary R&B, del Pop Soul, del Cantautorato alternativo e dell’Indie.

Le canzoni di Piek nascono dentro dialoghi spirituali tra la parte più intima del sé e quella che è l’esteriorizzazione artistica della propria anima, sulle orme dei grandi artisti del passato, da Neil Young a Dylan, da Nick Drake a Van Morrison, sempre però con una carica tipica piuttosto di un certo Britpop in stile Oasis o Blur. L’opera di Peter Piek non è, dunque, destinata a cambiare le sorti del mondo, neanche di quel piccolo universo chiamato Musica eppure trasuda amore e libertà, indipendenza che solo certi artisti possono veramente sventolare come un drappo di vittoria al cielo, autonomia da etichette, mercato, autogestione espressiva totale e che non necessariamente deve collimare con concetti legati all’estremizzazione di avanguardie e sperimentazione. Un disco per chi ama, fatto da un innamorato.

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The Tablets – The Tablets

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Si può combinare il Pop statunitense anni 60 di Merrilee Rush & The Turnabouts o The Ronettes con sonorità marcatamente moderne, quasi figlie di certi anni 90, compatte e ossessionanti? A questo ci pensa la messicana Liz Godoy, che prendendo il via appunto dal Pop Garage dei sixties, scorre attraverso le atmosfere Darkwave e Gothic degli 80, tra Cure, Cocteau Twins, Nick Cave, The Go Go’s e Siouxie fino a sfociare nelle grintose chitarre Shoegaze di fine Ottanta e inizio Novanta di The Jesus and Mary Chain per intenderci e nel Pop Alternativo, rumoroso, elettronico, psichedelico e sperimentale di Stereolab o Tv on the Radio. Tutto questo fatto con una cura maniacale del dettaglio che non si trasforma mai in eccesso stilistico ma che anzi, talvolta, suona come una ricerca voluta della nota imperfetta. L’album omonimo targato The Tablets è uno spettacolare esempio di Dream Pop sintetico, basato su liriche profondamente appassionate e melodie morbidissime, tutto sullo sfondo di ritmiche meccaniche e personali. Liz Godoy prende a prestito la lezione che una certa Nico ha lasciato al mondo e cerca la strada per rinnovarne i fasti e il risultato non è molto lontano da quanto probabilmente sperato.

The Tablets è un disco bellissimo, che poteva essere eccelso se solo la voce di Liz Godoy avesse avuto un regalo più grande da madre natura e se la vena artistica della stessa si fosse trovata in un particolare stato di grazia. Un album seducente perché mette insieme con naturalezza mondi apparentemente lontani anni luce e che recupera, almeno con questa sua capacità di rinnovare, i grandissimi limiti della composizione pura, delle melodie, degli arrangiamenti non sempre troppo interessanti e spesso quasi grossolani. Difficile giudicare un disco come questo perché mostrare al mondo dell’arte musicale una possibile strada per il futuro è già di per sé meritevole di apprezzamento ma non solo ciò siamo tenuti a stimare e quindi c’è un’orrenda ma necessaria strada della sufficienza da tracciare, per inquadrare con onestà un disco che non dovrebbe comunque essere ignorato.

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Frank Sinutre – Musique pour le Poissons

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Isi Pavanelli e Michele K. Menghinez sono i due mantovani che hanno dato vita a questo strampalato progetto dal nome in stile Rock Band demenziale. Sono loro i Frank Sinutre e sono loro a costruire l’Elettronica che ne consegue, a partire dalla materia prima, perché tanti degli apparecchi utilizzati per produrre suoni, altro non sono che strumenti idealizzati o messi insieme dallo stesso Isi Pavanelli. Pensiamo al reactabox (un controller midi che funziona con dei cubetti, ispirato a reactable) o al drummabox (una drum machine acustica basata su arduino). La loro arte, dunque, si mischia con la tecnica e si amalgama anche con le altre arti, perché se è vero che già in passato i due si erano confusi col teatro (La Colpa della Leonessa), questa volta sono andati oltre e, insieme a Musique pour le Poissons, potrete pescare un libro di narrazioni inedite scritte dallo stesso Michele K. Menghinez, dal titolo Racconti per Pesci dal Mare d’Aria, che non è congiunto a filo serrato con le undici canzoni, ma è un ottimo complemento, non certo il massimo per i più pedanti letterofili, ma sicuramente apprezzabile da chi ama scivolare nelle parole e farsi trasportare in una certa malinconia esistenziale.

L’Elettronica dei Frank Sinutre è una miscela beffarda di Dub, Ambient, Lounge e Reading Elettronici con voci in base e un esempio chiaro di cosa descrivano e vogliano essere è dato dalla rivisitazione di “Oye Como Va” la quale salta a piedi pari dall’omaggio al rinnovamento passando per una certa impalpabile ironia capitale che sembra sempre presente, anche quando non si sente. Musique pour le Poissons ha una sobrietà talvolta esasperata, tanto che alcune sezioni ritmiche e linee di basso paiono insuperabili per condurre Giovanni Muciaccia in uno dei suoi attacchi d’arte (“Clock Never Stops”) ma al tempo stesso è capace di infiammare e accompagnare l’ascolto con ritmiche avvincenti (“Someone’s Dub”, “Passa”) ora con vigore (“Life Is Just Waiting for a Big Party”), ora con restaurata voglia di scrutare l’intimità umana (“Musique pour les Poissons”, “Two Sea Minutes”, “Please Visit Sermide”), magari sperimentando nuove strade sonore (“I Am Going to Do Nothing”) e sfruttando tutte le carte messe sul tavolo dalla strumentazione classicamente Rock unita alle innovazioni elettroniche. Sgradevolmente Indieggiante “Iolanda Pini”, con il testo parlato e non cantato su una base Elettronica in perfetta tendenza Offlaga Disco Pax ma con una timbrica certo meno intrigante e più mediocre e, similmente la conclusiva “Una Possibile Storia su Dio”, che concede qualche cosa in più al Post-Rock, regalando uno Spoken Word che più che a Max Collini, deve a Emidio Clementi (Massimo Volume).

La formula dello Spoken Word è sempre più una prassi nell’Indie Rock ma allo stesso tempo si sta trasformando in un’arma a doppio taglio e in questo caso rischia di essere lo stesso coltello che darà il colpo di grazia a una band che avrebbe tanto altro da dire. Non che questo linguaggio canoro, se cosi si può definire, sia l’unico problema del disco. Ci sono anche composizioni non eccessivamente convincenti come “Life Is Just Waiting For a Big Party”, qualche lacuna compositiva, non tanto tecnica quanto estetica e idee troppo confuse. C’è però anche tanta voglia di mettersi in gioco, di provare a superare i propri limiti, di non aver paura di esprimersi, nel modo che si ritiene più opportuno e tutta questa genuinità artistica trasuda negli oltre sessanta minuti di Musique pour les Poissons. Prima di scegliere il voto penso a questo e penso che il giudizio serve veramente a niente perché dentro la nostra musica c’è qualcosa, a volte, che non si può spiegare a parole, figuriamoci a numeri. E poi mi ricordo che però devo metterlo un voto ma voi non siete certo costretti a leggerlo, ascoltate l’album piuttosto.

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Gletscher – Devout

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Metà Indie, metà Progressive e metà Metal e poco importa se c’è una metà di troppo in questo trio svizzero perché modo più diretto di farvi capire di che si tratta, senza costringervi ad ascoltare, non ce n’è. Da Zurigo giungono i due Marc Ysenschmid (basso) e Raphael Peter (batteria) mentre Joileah Concepcion (chitarra e voce) ex di Sleeping People (misconosciuta band di San Diego che merita più di un paio di ascolti) e Temporary Residence, pare arrivi addirittura dalla lontana Brooklyn e sembra anche abbia promesso un debutto solista a nome Victoria Concepcion. Se, come suggeritovi, vi siete messi già alla ricerca dell’omonimo del 2005 o del due anni più giovane Growing, o di qualunque altra cosa targata Sleeping People, potrete notare con le vostre orecchie quanto sia rilucente il legame tra l’attuale proposta della band svizzera e la band californiana, specie nella sua commistione tra elementi modernamente Indie Rock e testardaggine di stampo Math Core. La cosa che più traspare, visto anche l’uso ridotto all’osso della voce, è tuttavia una similitudine fortissima con l’Alternative Rock degli A Perfect Circle e (al disopra di tutto questo sarà il vero fattore negativo della valutazione) con la titanica creatura di Maynard James Keenan chiamata Tool.

Devout è gonfio di ritmiche poderose e chitarre taglienti e non pochi sono i momenti in cui l’ossessività e la ripetitività del sound creano una sensazione di potenza impressionante, eppure ciò in cui non riescono non è solo reggere il paragone con i succitati colleghi, quanto anche dare un’impronta omogenea alla loro musica, troppo spoglia per seguire la strada incominciata del Prog Metal e poco solerte e dinamica nei limitati ingredienti messi sul piatto. Alla fine, tolti un paio di brani come la first track introduttiva (“Eulenmann”) che quasi pareva preparare il terreno a un album Avant Folk (qualche elemento è ripreso anche in seguito, vedi “December”) e altri nei quali tutto l’impianto sonico messo in piedi dai tre regge bene l’impatto con l’ascolto, il resto è un continuo ripetersi di poche e non troppo brillanti idee. Ben compiute ma pur sempre smisuratamente esigue e esiguamente promettenti.

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Ve lo diamo noi l’8 Marzo!

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La Festa della Donna si avvicina e con essa, inevitabilmente, dobbiamo aspettarci da un lato orde di donne in preda a raptus ormonali e dall’altro femministe incallite che ci ricordano tristemente che quello che festeggiamo è un lutto. Da un lato uomini a caccia dell’ultima mimosa chi per non far incazzare la mogliettina chi per provare a conquistare la tipa sull’autobus, dall’altro maschilisti senza speranza che delle donne se ne fregano tutto l’anno, vuoi mettere il gusto di ignorarle l’8 Marzo?! E poi ci siamo noi e voi che non sappiamo dove stare.

Noi crediamo solo che un po’ di ipocrisia, ignoranza e superficialità dietro questo giorno ci sia stato e sempre ci sarà ma non vogliamo perdere l’occasione per regalarci qualche minuto di goduria per le nostre orecchie. L’8 Marzo è un piacevole pretesto per proporvi alcune delle migliori singer/songwriter della storia del Rock. Manca la vostra preferita? Nessun problema, fatecelo sapere ma ricordate, non è una classifica e neanche una Top Ten, sono solo dieci splendide donne, a modo loro.

10. Fiona Apple

9. Linda Perhacs

8. Cat Power

7. Tori Amos

6. Carole King

5. Kate Bush

4. PJ Harvey

3. Joanna Newsom

2. Patti Smith

1. Joni Mitchell

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Secret Colours – Peach

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Cover semplicissima a sfondo bianco, con un bel frutto sopra (peach, pesca), iperrealistico, niente di sfumato o stilizzato e al centro una scritta, secret colours, dai colori caldi e dallo stile liquido e deforme. Tutto questo non può che stimolare un accostamento con la gigantesca band di Liverpool più famosa di Gesù Cristo che chiamano Beatles. Ovvio che la prima cosa che ci si immagina, una volta pigiato quel maledetto tasto play, sia un vortice di beat e psichedelia poppettara la cui illusione però presto sarà risucchiata da ritmiche devastanti e un sound molto più sporco e sessuale del previsto. Con i Fab Four faremo i conti solo alla fine.

Il primo passo, quello che darà il ritmo e il tempo a tutte le canzoni, sarà disegnato sì dall’aspetto psichedelico (“Blackbird (the Only One)”, “Legends of Love”), grazie primariamente all’uso peculiare della sezione ritmica e a una vocalità galleggiante di effettistica, eppure questi elementi s’insinueranno in tutta l’opera senza dare mai precisa immagine di sé, riconoscibile e manifesta, come la copertina appunto poteva lasciar vagheggiare, cavalcando l’onda generata nei 90 da band come gli Spaceman 3 (i riferimenti principali del disco) anch’essi capaci di mescolare Blues e Psichedelia in chiave moderna. La psichedelia dei Secret Colours guarda agli anni Sessanta senza volerne depredare le esaltazioni chitarristiche, sposando invece piuttosto alcune eteree linee di chitarra in perfetto linguaggio Raveonettes, quasi Dream Pop se vogliamo.

La vera potenza di Peach, però, sta nella prestanza del suono e nella sua purezza che riesce a sfruttare con totale meticolosità le convenzionalità del Blues (“Euphoric Collisions”, “World Through my Window”, “My Home Is in your Soul”), adattate ora a minimi aspetti Neo Gaze, ora soprattutto al Brit Pop nineties (“Peach”) oscillando tra Blur e Gorillaz del tipo non rappeggiante (“Me”).  Dunque chitarre Blues (oltre a Evans, c’è Dave Stach) e ritmiche morbose e lisergiche dettate da Justin Frederick (batteria) ed Eric Hehr (basso), unite alla voce fluida e fusa di Tommy Evans, tutto offerto su di un’altalena che oscilla tra intimità e potenza, facendo risaltare i vertici compositivi  proprio ad alcuni dei suoi estremi, nelle sfuriate Garage Revival (“Faust”, ”Lust”) e soprattutto nel ricordo labile di certi Primal Scream, memoria che quando si fa più impetuosa regala un brano che da solo vale l’intero ascolto del disco (“Blackhole”) e che potrebbe fare la fortuna di tanti Dj Rock della penisola proprio per la sua capacità di sfruttare i beat ballabili con le note del Rock.

Poi c’è da fare i conti con i Fab Four, non mi sono dimenticato di loro e allora arriva a sprangare Peach la struggente “Love Like a Fool” e il cerchio si chiude, con sessanta minuti di musica che forse sono troppi solo perché fuor di misura sono le tredici canzoni che li compongono. Almeno quattro sono i brani inutili che danno come risultato solo un seccante senso di indigeribilità. Qualche brano in meno e avremmo avuto tra le mani uno dei migliori dischi dell’anno, considerando che l’album è uscito in Europa solo il 10 Febbraio, mentre cosi ci tocca, dopo averlo ascoltato una decina di volte e avere ancora la voglia di farlo, premere skip più del dovuto/voluto e di cambiare quel bel voto messo di pancia sulle note di “Blackhole”, in un modesto sette messo di testa.

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Euphorica – La Rivelazione

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Indubbiamente è quasi impossibile comprendere e percepire la distanza tra il mondo reale, quello dei megastore, dei dischi venduti, dei passaggi televisivi, dei video su Mtv e volendo anche Rock Tv o altri canali radiotelevisivi pseudo alternativi come quello XXX (mi autocensuro perché non abbiamo necessità di un’altra denuncia) di Virgin Radio e ciò che è il mondo di noi rincoglioniti che incurvati sul pc divoriamo recensioni su sfigate webzine, inseguendo una next big thing che in realtà non avrà mai un futuro, ascoltiamo migliaia di dischi e brani sconosciuti, provando a scorgere estro e genio, con la sottesa idea che magari saremo i primi a penetrare la grandezza dei futuri nuovi Joy Division. Se i nostri Have a Nice Life sono dei mostri d’inarrivabile talento, dobbiamo ammettere con disincanto che quelli cui frega sono veramente pochi. A questo punto, se proprio dobbiamo rotolarci nel fango del (quasi) anonimato, ci sia concesso quantomeno di godere di una qualità e un talento che mai proverà il pubblico dei suddetti canali radiotelevisivi pseudo alternativi di cui sopra. Se proprio voglio essere tra quelle duecento persone che ascolteranno il disco di una oscura band di una depressa provincia italiana, che mi sia concesso di origliare l’ostentazione dell’alternativo e non le brutte copie, o anche solo copie, di una delle band promosse da uno di quei canali radiotelevisivi pseudo alternativi di cui ho parlato prima. Come dire, se vuoi farmi provare del caviale da diecimila euro il chilo, fa che quella merda di uova abbiano un gusto fantastico perché di pagare solo il fatto che siano rare non mi frega molto.

Mi spiace che gli Euphorica e l’ascolto del loro secondo Lp La Rivelazione arrivi puntualmente dopo quello del nuovo lavoro di Kozelek, Current 93 e Have a Nice Life perché non posso negare che la cosa abbia fatto germogliare in me una discreta irritazione verso la musica italiana e la sua incapacità sia di azzardare e sia di promuoversi al di là dei canali di nicchia e ostentarsi a un pubblico che non sia solo appassionato di un certo specifico genere.  Mi infastidisce perché La Rivelazione, dopo diversi ascolti, si rivela un album di buona fattura, soprattutto se paragonato a quel tipo di Pop Rock nostrano i cui principali artefici preferirei non nominare. Piacciono molto le intromissioni del Folk (“L’Equilibrista”, “La Terra”) anche se ogni cosa, dalla sezione ritmica alle chitarre acustiche fino alle linee melodiche hanno lo scopo principale di intraprendere una strada Pop che vuole essere impegnata senza esserlo veramente. I testi, rigorosamente in madrelingua, raccontano secondo le più disparate sfaccettature, d’identità e maschere, di essere e apparire. Parlano di vita sfruttando riferimenti colti (“Demone”) ed episodi reali (“Il Predicatore”), raccontano la paura (“Shangri –La”) affrontando immancabilmente il sinonimo più poetico di vita stessa e cioè amore (“L’Ultima Danza”, “Tu”).

Il disco degli Euphorica spazia dall’Indie Pop accurato negli arrangiamenti (“Visione”) e dai riferimenti al Pop da classifica che però non si affanna dietro la ricerca ossessiva e ansimante di una melodia banale ma di successo, un po’ come il Niccolò Fabi meno noto (“Giuda”), fino al Rock attento a testi e armonie dei Tre Allegri Ragazzi Morti (“La Rivelazione”), con le quali le affinità vanno anche oltre le ovvietà delle linee vocali, che nel qual caso fatico ad apprezzare anche ben oltre gli aspetti puramente tecnici. Anzi, arriva a infastidirmi particolarmente quando insiste sulle vocali finali tanto che il pezzo che più riesce a emozionarmi non ha testo, né titolo e tuttavia non brilla neanche per originalità. La Rivelazione è un disco che ti fa arrabbiare quando poco prima hai ascoltato il mondo innaturale di una band del Connecticut ma che riesce anche a farsi perdonare, man mano che la musica si scioglie come neve nelle orecchie, magari lasciandoti nel cuore anche quel brivido di una goccia gelida che scorre sul collo. Non mi piace troppo quello che fate, non mi piace per niente anzi ma se proprio dovete farlo, per favore fatelo cosi.

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20,000 Days on Earth, il film su Nick Cave

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20,000 giorni sulla terra, ovvero 56 anni..di chi? Del “King Ink” chiaramente, Nick Cave. È questo il titolo del docu-film per la regia di Iain Forsyth e Jane Pollard presentato a gennaio al Sundance Film Festival che si è portato a casa due bei premi, uno per la miglior regia rivolta ai documentari ed uno per il miglior montaggio. 20,00 Days on Earth ci porta per 24 ore all’interno della vita del musicista, scrittore, sceneggiatore, attore, marito, padre… what else? Inoltre segue tutta la fase di creazione dell’ultimo lavoro dei suoi Bad Seeds, Push the Sky Away. Il film ha debuttato in Europa alla Berlinale una decina di giorni fa ma a noi comuni mortali toccherà aspettare, citando il sito ufficiale del film in questione later, this year; intanto la clip ufficiale di soli 51 secondi. Nell’attesa accontentiamoci!

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Il Babau & i Maledetti Cretini – La Maschera della Morte Rossa

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Campanacci e muggiti e poi cupe note che ricordano le più angoscianti soundtrack dei Goblin miscelate all’asprezza di Tubular Bells, il tutto in chiave ancor più tenebrosa, tetra e languida. C’è questo a introdurci nella nuova, sorprendente opera de Il Babau & i Maledetti Cretini. Rincorrono note elettroniche che paiono razziate alle avanguardie italiane d’inizio settanta e la “Danza Macabra” si compie in un sanguinolento volteggiare di note Prog, tutto risolutamente in chiave strumentale in attesa del fonodramma vero e proprio che ci narra la storia che fa da soggetto all’intero album. Il Babau & i Maledetti Cretini è un progetto artistico che mette insieme musica, teatro e letteratura e che vede la compartecipazione di Damiano Casanova (chitarre, synth, tastiere, composizione e direzione musicale), Franz Casanova (voce narrante, synth, tastiere, carabattole varie) e Andrea Dicò (batteria, percussioni, rumorismi). La formazione sorgeva a Milano a inizio millennio e inizialmente si autodefiniva quartetto di Rock regressivo e musica da cameretta il cui nome è francamente rubato a un quadro a fumetti di Dino Buzzati. Dopo le prime fasi, Il Babau diviene un duo composto dai soli fratelli Casanova. La trasformazione trasforma radicalmente anche lo stile che abbandona la canzone e si spinge verso la riscoperta del fonodramma. Da quel momento la compagine sviluppa un personale percorso artistico che la porterà all’attuale stabilità e a questo La Maschera della Morte Rossa.

La Maschera della Morte Rossa è un racconto di Edgar Allan Poe che narra di una terrificante pestilenza, la Morte Rossa appunto e delle vicende del principe Prospero, il quale insieme con amici e cortigiani, si rifugia in un palazzo per evitare il contagio. Trascorsi cinque mesi festosi e tranquilli il principe decide di indire un ballo in maschera in sette stanze allestite ciascuna di un colore diverso. Nell’ultima stanza, di tinta nera, compare però un invitato che veste un sudario macchiato di sangue e una maschera che raffigura il volto di un cadavere. La figura attraversa tutte e sette le stanze tra lo sconcerto dei presenti che si fanno da parte per evitare di toccarla. Quando ha finito la sua passeggiata, Prospero, ripresosi e oltraggiato da quello che crede un orribile scherzo, corre incontro al nuovo venuto con l’intenzione di ucciderlo ma prima di raggiungerlo cade a terra senza vita. Solo allora gli astanti riescono a togliere il costume al misterioso ospite, ma si accorgono che sotto di esso non c’è niente: è la Morte Rossa, riuscita a entrare nel palazzo. Gli occupanti cadono morti uno dopo l’altro e la Morte Rossa stabilisce il suo regno sull’edificio ormai buio e desolato.

Questa storia, ancor oggi inquietante, è messa nero su bianco nel libretto che adorna l’album, in quarantotto pagine a colori, con testo originale e tradotto, più alcune bellissime illustrazioni di Siro Garrone. Soprattutto, però, questa storia è narrata da Il Babau & i Maledetti Cretini attraverso le sei tracce che compongono l’album non a guisa di semplice reading letterario o, ancor peggio, banale e indigente audiolibro ma come se la musica che adorna e circonda la narrazione facesse da colonna sonora alla vicenda, tanto da sottolinearne i momenti più intensi e valorizzando i crescendo emotivi di cui si forgia il racconto stesso. Se dunque la traccia iniziale tutta strumentale, di cui abbiamo accennato all’inizio, ci introduce perfettamente nell’atmosfera pestilenziale di una contrada medievale, il motivo portante del brano diventa il sottofondo, quasi come una colonna dorsale, delle restanti tracce. Sostrato che miscela il Progressive al Folk, l’avanguardia alla psichedelia, arricchendo tutto con una serie di campionamenti e inserti sonori atti a ricreare l’atmosfera ideale. La grandezza del lavoro de Il Babau & i Maledetti Cretini, che oltretutto è solo il primo atto di una trilogia dedicata i Racconti del Mistero e del Terrore del genio britannico, sta non soltanto nella capacità di sviluppare la strada dello Spoken Word senza ridurre la musica a un ruolo marginale, non unicamente nel riuscire perfettamente a dare l’idea di momenti festosi o tragici secondo il minuto trattato ma soprattutto nell’attitudine a usare un’armonia guida come il tronco di un albero dal quale si dipanano le diverse ramificazioni soniche; riesce a tenere ferma l’attenzione su di sé, tanto che anche dopo diversi ascolti, il trasporto indotto proprio dalla musica, tenderà a distrarci da quello che è il significato letterale del racconto di Poe. La cosa fornisce ancor più valore all’opera perché non solo invoglia ad ascoltare più volte, ma fornisce anche diverse chiavi di lettura, difformi punti di vista dai quali ascoltare e fare proprio l’album.

La Maschera della Morte Rossa è dunque un’opera di pregevole fattura che forse poco ha da dire sotto l’aspetto prettamente stilistico e musicale, ma rappresenta anche un modo alternativo e particolarmente apprezzabile di proporre cultura, ancor più se se ne potesse godere dal vivo e se è vero che la musica è la più nobile delle arti, anche perché quella che mette più in moto il cervello nelle sue diverse parti, pensate cosa deve essere quando legata alle parole immortali di un maestro come Poe.

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