Un quartetto d’eccezione per raccontarci il prezioso disco Livro Dos Dias. Tati Valle in concerto al Porto Turistico di Pescara il prossimo 7 Agosto nella prestigiosa cornice di Estatica 2014. Brasiliana di Londrina, abruzzese di adozione, Tati Valle porterà in scena Livro Dos Dias il primo disco di inediti in studio uscito agli inizi del 2014 per Protosound Records / Cramps / Edel. “Livro Dos Dias” è un racconto sonoro, un paesaggio pieno di storie, esperienze, sensazione e amori vissuti in questo viaggio della vita in continua ricerca di se e delle proprie radici. L’anima che cambia forma e colore, come un camaleonte nell’incastro prezioso condotto per mano dalla direzione artistica di Ivan D’Antonio e mixato negli studi Protosound dal producer Domenico Pulsinelli.
Silvio Don Pizzica Author
Aemaet
Aemaet. Quattro ragazzi che hanno deciso di dire la loro nel fitto mondo del Rock Alternativo. Cosa avete da dire che non sia stato già detto?
CC: Si parla già molto, forse troppo. Quel che dobbiamo dire lo diciamo con la nostra musica.
La vostra è una formazione evidentemente giovane. Il primo Ep, Muse of Lust, risale a soli tre anni orsono mentre poco più di un anno è passato dall’esordio full length Human Quasar. Cosa è cambiato nel vostro stile e nel vostro approccio alla musica?
CS: Molte cose, a partire dalla formazione. Ora c’è la sola chitarra di Giovanni, e il sound si è aperto alla tastiera:è più complesso e stratificato.
GI: La nostra musica è in continua evoluzione, nei contenuti e nella forma.Il vero cambiamento sta nell’approccio alla scrittura. Io parto da un sentimento, un’emozione, per poi lasciare libero sfogo alle sensazioni che le frequenze smuovono dentro.
Da dove vengono gli Aemaet e dove vorrebbero arrivare se potessero sognare senza freni? Tornando con i piedi per terra, dove potrete realmente giungere, considerando il periodo non certo florido per la musica emergente e indipendente?
GI: veniamo da diverse esperienze musicali ed ognuno di noi ha i suoi gusti. Noi cerchiamo una “potenza musicale”, e mi piacerebbe che l’ascoltatore provasse le stesse sensazioni che avvertiamo durante la composizione. Tornando con i piedi per terra, lo scopriremo solo vivendo dove potremo arrivare: noi ci mettiamo l’anima in quello che facciamo.
La vostra musica miscela con eleganza Alt Rock, Grunge e Wave e pare quasi naturale che abbiate scelto di usare l’inglese per le vostre liriche. In tal senso, quanta importanza date ai testi e quanta alla musicalità dei termini?
CC: Entrambi gli aspetti sono importanti. Quel che conta è però la musica: i suoni offrono quindi un vincolo. Le parole, dal canto loro, sono molte, e troveremo loro sempre uno spazio di senso nella forma sonora.
CS: Concordo. Poi molto dipende dall’atmosfera del pezzo. La scelta della lingua inglese è ovvia, hai ragione: l’italiano c’entra poco con il nostro genere, a mio parere. La musicalità nel testo è di per sé imprescindibile, lo diceva Poe, ma anche i Bluvertigo: “il suono ha vinto sul significato”.
Siete consapevoli che cantando in inglese si riducono le possibilità di essere apprezzati dal pigro pubblico italiano? Siete sicuri che all’estero potrebbero apprezzare le vostre parole?
SDR: Sicuramente cantare in inglese rende più difficile l’essere apprezzati dal pubblico italiano, anche a causa della diffusa abitudine di andare alla ricerca dei testi; allo stesso tempo però permette di raggiungere un pubblico più vasto, che poi è quello che ci auguriamo.
So che recentemente avete suonato al Contest del Rock in Roma. Raccontateci di che si tratta e come è andata.
CC: è andata come solo agli Aemaet può andare. Problemi tecnici al limite dell’inverosimile, non dipendenti da noi, che hanno in parte compromesso la performance. Ma nel breve tempo a nostra disposizione siamo riusciti a smuovere qualcosa. Vedi, a noi interessa poco il contest. Ci interessava solo suonare davanti ad un pubblico numeroso che crediamo affine al nostro. E la nostra intuizione è stata giusta: abbiamo ricevuto molti feedback positivi.
Avete mai realmente idolatrato qualcuno? Ha senso ancora fidarsi dei musicisti piuttosto che delle canzoni?
CS: L’idolatria è un refuso adolescenziale, quando si scoprivano icone come Morrison, Curtis o Smith. Col tempo l’idolatria cede il posto all’ammirazione. I musicisti, come tutti, possono deludere, con atteggiamenti o svolte musicali che non apprezziamo: per questo li sentiamo “inaffidabili”. Eppure un’ottima canzone resta sempre tale, anche col passare del tempo: se non ti puoi fidare dell’artista, puoi sempre fidarti della sua arte.
SDR: Personalmente sì, ho avuto degli idoli che in parte resistono ancora oggi. Si tratta per lo più di personaggi molto noti nell’ambito musicale. Resta comunque difficile rimanere legati ai propri “idoli”, soprattutto perché con il tempo cambiano i propri gusti e le produzioni musicali.
Ascoltando le canzoni contenute in Human Quasar si può notare una certa altalena di emozioni. Sareste più felici di smuovere le coscienze o commuovere profondamente?
CS: Ognuno di noi ha una sua personale visione della realtà. Ciò significa che quel che commuove una persona può lasciare indifferente un’altra, e viceversa. Io voglio suscitare un’emozione, indurre chi ascolta ad un’opinione; meglio se diverse tra loro. Questa è forse la prova che si è riusciti a creare un’opera valida.
GI: Io preferisco muovere le coscienze nel profondo.
Parlateci di Human Quasar. Come descrivereste il vostro esordio senza usare parole da critici e definizioni da ufficio stampa?
CC: La parola esordio spiega già molto: Human Quasar è una commistione di inesperienza e sprovvedutezza, non necessariamente qualità negative. Ma non è tutto. È un disco intriso di giochi letterari e rimandi interni, con una solida impalcatura di senso e un uso molto raffinato della retorica. Per me è un figliolo che muove i primi passi nel mondo, rendendomi orgoglioso.
CS: Un sentiero di luce e oscurità, calore e freddezza. Sì, Il nostro bipolare primogenito.
L’album è uscito per la label Red Cat Records. Ha veramente importanza oggi avere una etichetta alle spalle? Per una band emergente non è più utile avere Booking & Management?
CC: Sono entrambe componenti essenziali, sebbene oggi l’uso di internet crei l’illusione che tutto ciò sia surrogabile. Se una band merita la giusta attenzione non faticherà a trovare degli ottimi collaboratori. Esistono dei professionisti, e il loro lavoro va capito e rispettato. È quando lavori con loro che comprendi quanto tutto ciò sia di capitale importanza.
Oggi come quarant’anni fa è molto difficile emergere. Forse è solo più facile trovare spazio ma tenerselo è un’impresa. Come avete intenzione di muovervi per districarvi nell’ impervio mondo dell’underground e magari non affondare?
CC: Sono alieno da questi pensieri. Noi lavoriamo e cerchiamo di offrire al pubblico uno spettacolo degno della loro attenzione. Non credo ci siano altre strade: lavoro, lavoro, lavoro.
CS: Servono ambizione e determinazione. Senza di esse si può avere tutto il talento di questo mondo, ma a nessuno importerebbe, soprattutto in questa società virtuale. Io auspico un rituale di corteggiamento che faccia la differenza. Come nel regno animale. Garantirebbe una “prole” di seguaci.
Cosa ci dobbiamo aspettare ancora dagli Aemaet?
CC: Molte cose, spero: un secondo disco, ad esempio. Un live senza compromessi. E tanto affetto per chi ci segue: non finirò mai di stupirmi del potere aggregativo della musica.
SDR: sicuramente la ricerca di un’evoluzione musicale che credo si sia già manifestata nella nostra seppur breve esperienza.
Thot – The City that Disappears
No, non sono totalmente impazzito e neanche vivo di una presunzione tale da spingermi a inventare una definizione, per un genere musicale, tanto strampalata e azzardata. È lo stesso Grégoire Fray, il cui moniker è proprio Thot, che indica la propria musica con le parole Vegetal Noise Music e, sinceramente, tolte le suggestioni create dai termini, faccio una certa fatica a comprendere questa scelta. Del resto, come lui stesso spiega, tanta follia cela la voglia di prendere un po’ in giro questa necessità di apporre sempre un’etichetta a ogni nuovo prodotto e la cosa mi rompe un po’ il cazzo giacché ormai gli artisti che “non si ritrovano in nessun genere” o “non amano i generi” sono più noiosi di noi stessi giornalisti, opinionisti, critici, cialtroni che usiamo le definizioni per questioni pratiche, ma, talvolta, affondiamo dentro sabbie mobili linguistiche create proprio da noi. Mettiamo da parte queste digressioni sugli aspetti formali della critica e parliamo di Thot e quindi di Grégoire Fray, nome importante dentro la scena Industrial, noto anche per alcuni remix di Nine Inch Nails, Carina Round, Justice, Depeche Mode, Amenra e, per i seguaci incalliti, per due album solisti (The Huffed Hue del 2005 e Obscured by the Wind del 2011) e due Ep (Ortie del 2009 e The Fall of the Water Towers del 2012). Lo stile di questo The City that Disappears è profondamente intriso di Industrial ma molto presenti sono anche gli aspetti Synth Pop e Rock tanto che l’album è da considerarsi il più variegato della sua discografia. Eppure non tutto è oro quello che è musica. Gran parte dei brani manca di mordente, suonano potenti nella forma quanto morbidi nella sostanza, con una vocalità a tratti imbarazzante nel suo cantato e soprattutto nella timbrica, suoni ai limiti della decenza, melodie banali, arrangiamenti che sfiorano il cacofonico involontario e un’originalità stilistica difficile da trovare anche a spulciare ogni singola nota. Dico tutto questo con profondo dispiacere perché pare (non ho mai avuto la fortuna) che dal vivo i suoi spettacoli siano eccezionali e poderose miscele di performance musicali e visive, grazie all’apporto di diversi collaboratori tra cui Arielle Moens alle proiezioni e grazie anche all’interazione col suo pubblico (The Vegetal Noise Lovers) chiamato a partecipare attivamente con progetti quali video e remix. Che cosa posso farci io, però, se del disco dobbiamo parlare e il disco è tutto tranne che qualcosa che vi consiglierei di ascoltare, salvo che non siate psicopatici da Synth Pop a tutti i costi?
L’unica cosa che posso fare è dirvi che i tempi di Depeche Mode e NIN sono finiti ma se proprio volete fare un tuffo in questo mondo sintetico e volete farlo con un disco freschissimo, lasciate stare The City that Disappears e le contaminazioni industriali e provate con cose tipo Singles dei Future Islands.
LPR8 – Piece of Kiss
Proprio quando sei divorato dal dubbio che le tue capacità di giudizio critico si stiano ammorbidendo a livelli preoccupanti, col timore che potresti metterti tranquillamente a sdoganare un Cristiano Malgioglio, ti capita di ascoltare qualcosa che a velocità supersonica ti rifionda nella dura realtà. Un Ep sbagliato in tutto e non parlo solo di brutture musicali, gusti soggettivi (e come sennò?), apertura mentale, stato d’animo del momento. Tanto per capirci, quell’apparente acronimo LPR8, nome scelto dal produttore Marco Connelli per il suo progetto, non ha quel fascino elettronico che potreste aspettarvi da una fredda sigla. Basta leggere il sottotitolo, Il Leprotto. Proprio cosi, è questo il vero nome dell’artista (perdonatemi l’uso di tale sostantivo in questa circostanza) autore di Piece of Kiss. Non finisce qui, tuttavia. L’orrido prosegue con la visione delle grafiche e dei font di copertina, tanto brutti che quasi m’impediscono di rilevare la pessima scelta anche di titoli di Ep e brani. Prima di passare a descrivervi/non descrivervi la musica/non musica non posso che soffermarmi un secondo sul discorso featuring. Dio santissimo, ma è veramente necessario infilare feat ovunque per provare a rubare fan in mondi altrimenti inaccessibili? Veramente è una cosa utile? Tre pezzi, tre collaborazioni (Boom Girl, voce dei Sick Tamburo in “Kiss”, Don Turbolento in “Run or Die” e Pink Holy Days in “I Wanna Be the Best”) che faccio fatica a comprendere veramente, anche se lo scopo di inserire quelle voci dovrebbe essere di aumentare la portata melodica dei brani e la sua accessibilità.
I tre brani che compongono l’Ep sono un mix ripetitivo, apparentemente potente (ma in realtà soprattutto noioso e snervante) di suoni elettronici di stampo Tech-House e Break Beat, sulle quali le voci dei vari ospiti si appoggiano in maniera credibile ma non efficace. La strada battuta dai Prodigy è molto lontana da quella intrapresa da LPR8, piena di cliché, insulsaggini e totalmente priva di appeal, quantomeno se ad ascoltare è qualcuno che riesca ad andare oltre le capacità di coinvolgimento di suoni bassi e poderosi tipici del genere. Non ha senso spingersi oltre, non vi ho detto molto, scusatemi ma ho veramente altre cose da far girare nello stereo. Magari tornerò su questa roba quando, questa estate, mi ritroverò a ballare come un idiota in qualche pessima discoteca del litorale. Anche se sono troppo vecchio per iniziare a ballare.
Deison & Mingle – Everything Collapse[d]
I, I’ve been lonely
And I, I’ve been blind
And I,. I’ve learned nothing
(M. Gira)
Sono due o forse tre o più settimane che non riesco a sfilare dallo stereo questo disco del duo Cristiano Deison (electroning e processing), Andrea Gastaldello (piano, electronics) e non è precisamente perché di una qualità oltre la norma. Il dubbio è che faccio una fatica pazzesca a capire quanto mi piaccia davvero Everything Collapse[d] e quanto, invece, non lo faccia correre via nelle mie giornate con apatia, quasi senza forze, consapevole che potrà accompagnarmi fino alle ore del sonno senza tediare troppo la mia vita. La prima notizia positiva, però, è che, a dispetto di uno stile non proprio tradizionale tra i nostri confini, Deison & Mingle è prodotto tutto italiano e lo avrete capito dai nomi di battesimo delle due anime che stanno dietro al progetto nato nel nord-est solo nella scorsa estate. Da un lato un navigato del settore sperimentale, Ambient ed Electronic Minimal, Deison, che già si è ritrovato negli anni a collaborare con mostri quali Lasse Marhaug, KK Null, Teho Teardo, Thurston Moore, Scanner. Dall’altro Mingle, alias Andrea Gastaldello, eccelso compositore minimale già al lavoro su svariati documentari. Non passa molto dalla collisione tra queste due inclinazioni e la nascita di Everything Collapse[d], album che trova la sua energia, il suo asse portante, la sua ragion d’essere nell’analisi psicotica dell’inquietudine e della disperazione umana, senza per questo non palesare momenti di speranza (“Optokinetic Reflex (Glassy Eyes)”) difficile da comprendere quanto illusoria e quanto reale.
Otto tracce che si plasmano e collassano, si amalgamano e si mettono in mostra attraverso droni disturbanti, field recordings, processed loops, ritmiche amorfe, armonie eclissate, soffuse e dilanianti, tutto appesantito da note di piano tormentose. Quarta opera di una collana che vede collaborare l’etichetta Aagoo Records con i Rev Laboratoires e che, in precedenza ha visto l’uscita delle sperimentazioni di Marcus Fjellstrom, Murcof & Philippe Petit e Connec_icut, già trattate sulle nostre pagine dal qui presente. L’opera è inquietante ma non troppo greve, multiforme ma con momenti di sana distensione e a lungo, come accennato all’inizio, mi sono dibattuto inseguendo una chiave di lettura più pertinente, che andasse oltre i concetti palesi e i suggerimenti di un titolo, Everything Collapse[d], tanto esplicito e categorico. Sul finire dell’album, troviamo “Static Inertia”, che, in un’ottica di speranza nella disgrazia si ricollega all’opening track, ma quest’ultimo pezzo non si chiude etereo ed estatico al minuto cinque e venti secondi. Fino a questo momento non c’è stato spazio per la voce, tutto era elettronica fredda. A stringere realmente il cerchio c’è una ghost track cantata da Daniele Santagiuliana (ottima la sua interpretazione). Si tratta di “Failure”, brano degli immensi Swans. Scelta scaltra, vista la nuova rinascita della band capitanata dal gigante Michael Gira ma anche perfetta per incasinare idee e sensazioni, alla fine dell’ascolto. “Some people live in hell, many bastards succeed. But I. I’ve learned nothing. I can’t even elegantly bleed out the poison blood of failure”.
E intanto continua a girare il disco nel lettore e non ho alcuna voglia di toglierlo e forse inizio a comprendere che Deison & Mingle hanno colto perfettamente nel segno, pungolando la parte più oscura e disturbata della mia anima. Mi hanno fregato, con furbizia e malizia ma ora non ho le forze per reagire, ho solo voglia di farmi fottere ancora.
Allan Glass – Magikarp
Per il duo piemontese Marco Matti e Jacopo Viale, dopo la buonissima prova dell’ep Guzznag, è giunto il tempo dell’album che li dovrebbe introdurre definitivamente nell’oscuro mondo dell’underground italiano. I due ragazzi pescano tantissimo da un passato che ha il sapore di un Garage sporchissimo (“Betulle”), figlio dei decenni Sessanta e Settanta, tra Iggy Pop e The Sonics ma questo lavoro di riscoperta della lordura che fu è messo in atto con uno spettro di modernità e rinnovamento senza eguali. Un’inclinazione fresca che rinvigorisce lo spirito, anche quando le chitarre Funky danzano selvaggiamente con una sezione ritmica tribale che non lascia scampo neanche ai più rigidi pezzi di legno (“La Tua”) oppure quando si resta schiacciati contro il muro da uno tsunami Impro Folk Rock che suona come un putiferio incontrollato e caotico, almeno all’apparenza. Quello degli Allan Glass non è solamente un Alternative Rock sparato a mille chilometri l’ora, con un tripudio Noise a calpestare, soffocare, stuprare le linee melodiche vocali (“Palloncini e Pavoni”, “L’Estate Non Conta Parte I”). È tantissime altre cose, in parte sulla scia dei giganti della Psichedelia sperimentale, gli Oneida e in parte oltre ogni paragone di sorta.
Il loro fosco e poderoso ma comunque ritmato Lo Fi, sfoggia le vesti più eleganti di un certo Post Rock psicotico, senza saliscendi o variazioni sostanziali (“L’Estate Non Conta Parte II”), che quasi sarebbe base perfetta per un pezzo Experimental Hip Hop stile Dälek, ma sa anche svestire quei panni per mostrarsi in tutta la sua bellezza Art Punk, ritmica e amorfa (“Plastic Bubble in the Mystic Place”) oppure mutare forma in maniera sostanziale e inaspettata, trasformandosi in una sperimentale miscela di Acid House, Industrial e Psichedelia Elettronica neanche si trattasse di figli illegittimi di un parto selvaggio e innaturale di Genesis P-Orridge e famiglia (Psychic Tv). Con Magikarp (per gli appassionati del genere dovrebbe trattarsi di un Pokemon di scarsa potenza) gli Allan Glass mettono finalmente in mostra tutto l’arsenale a disposizione, forse con un po’ di confusione, qualche pausa d’intensità di troppo e pochi minuti (circa ventiquattro) sui quali sfogarsi, ma quelle armi paiono avere tutte le carte in regola per fare molto male. Gonfiare ancor più l’album non tanto con nuove idee ma soprattutto con la materializzazione di quelle già presenti avrebbe certo aiutato ad apprezzare ma chi ha buon orecchio per ammirare anche questo sensazionale rumore, non faticherà a riconoscere indubbie doti creative.
Casa – Una Fine Continua
Quando, nel lontano 1998, Filippo Bordignon sviluppò la creatura chiamata laconicamente Casa, probabilmente non vi era ancora una percezione nitida di quella che sarebbe stata la sua evoluzione nel corso degli anni. Molti ne sono passati di lustri e in mezzo ci sono ben cinque lavori, tutti editi per Dischi Obliqui, che vanno da Vita Politica dei Casa, del 2007, fino a quest’ultimo e sesto, il live Una Fine Continua, registrato presso il Lost in Space Studio nell’ottobre del 2013. Non troppo tempo fa io stesso vi raccontai di Crescere un Figlio per Educarne Cento, quella che a oggi è la loro ultima opera in studio e, nell’occasione ebbi modo di illustrarvi non solo i pregi di quel bellissimo disco ma anche il percorso artistico di Bordignon e di tutti gli elementi che si sono mischiati alla storia dei Casa, dimora sempre aperta a collaborazioni e contaminazioni e predisposta a calcare strade lontane dalle normali piazze della musica Rock sperimentale o meno che sia e quindi piuttosto limitrofe all’arte contemporanea. Non servirà a nulla, dunque, insistere sulla natura multiforme, coraggiosa e sperimentale della loro opera, quanto prendere atto della possibilità di riscoprire, nella dimensione live, un’imperfezione che non significa errore, bruttura, malformazione, quanto capacità di costruire qualcosa di sensato, affidandosi a caso, intuito, improvvisazione e capacità di affrontare in maniera liquida l’evolversi e il crescendo delle note. Come afferma lo stesso Bordignon, in tempi in cui anche una qualsiasi cover band va a tempo, andare a tempo non è più necessario.
Una Fine Continua è un live in studio aperto al pubblico ed è anche la prima occasione per la band di Vicenza di far sentire su disco quella che è la struttura dei brani in chiave live. In tutto sono ben quattordici i pezzi i quali toccano tutti gli episodi precedenti, senza far mancare qualche inedito (“Bombieri”, “I Sei Poli di Fascicolazione”, “Dal Caso alla Possibilità”, “Live in Ser.T”, “Peggioramenti”, “Mu”). Se è vero che della collaborazione i Casa hanno sempre tratto elemento di forza, ora il quartetto si scopre, presentandosi nella veste più spoglia possibile, senza rinunciare alla propria anima che si rinnova con l’ingresso di Matteo Scalchi alla chitarra. Se mai avete ascoltato nulla dei quattro folli di Vicenza, questo può essere un buon modo per scoprirli, andare a ritroso e innamorarvi dello stile canoro delirante di Bordignon che usa la lingua italiana in maniera totalmente indisciplinata e delle divagazioni strumentali, che toccano il Blues irriverente (“Blues Morto”), l’Avant Rock di stampo Prog (“Nick Drake”) o semplicemente farneticante e irragionevole come certo Free Jazz (“Whodunit!”), il Songwriting intimo che si trasfigura in deliri degni di Captain Beefheart (“Part-time/Una Razza Inferiore”) e poi L’Alt Rock mai convenzionale (“Beba la Moldava”) e piuttosto oscuro (“No”) o il Pop sgangherato, divertente a tratti (“Madonna con Cilicio”). Degna conclusione con “Volonté Blues”, a metà tra schizofrenia e sarcasmo, sia in quanto a testi sia a musica ma, per chi non conoscesse il brano, ogni parola è superflua senza un intimo ascolto che vi trascinerà in una profonda tragedia umana.
Una Fine Continua è un bel punto e a capo per una formazione straordinaria che non sempre ha riscosso gli apprezzamenti che avrebbe dovuto. Un magnifico modo per testare un suono che su disco è sempre sembrato in gabbia rispetto alle sue potenzialità, un suono che necessita anche dell’errore, intenzionale e non, per potersi espander oltre la percezione dell’uomo comune e raggiungere i lati intimi della nostra coscienza.
Nasce Sherpa Records
Il 27 Maggio 2014 è nata Sherpa Records, nuova label indipendente, guida e partner per progetti di valore: dal processo creativo alla promozione, dalla produzione al tour, dall’Italia al Mondo. Tra le prime produzioni della neonata etichetta Florida, il 7” d’esordio di Omake e “The Free World”, il primo singolo di Morning Tea. Benvenuti!
Black Fluo – Billion Sands
Scelgono l’eleganza del nero, nel nome, nell’artwork e nello stile. La raffinatezza dell’assenza di luce, della disperazione, del lato oscuro dell’anima, delle tenebre, della morte, della scoperta di quello che superficialmente ci sforziamo di sotterrare. Un nero fluorescente, come visivamente può esserlo la dicitura Billion Sands incisa sul nero opaco di copertina. Un nero fluorescente che ha la frenesia di mostrarsi in tutto il suo inquietante splendore. Black Fluo è essenzialmente un quartetto di Chiasso che miscela musica Elettronica e Neo Classical, il tutto frullato in un contenitore di contaminazioni psichedeliche e cosmiche che sciolgono il sound, spezzano i legami molecolari delle note, lasciando sgocciolare materia oscura, liquida e caldissima. Billion Sands è l’esordio di questo progetto che va ben oltre la semplice definizione di band, comprendendo anche grafici e attori. Peccato, a tal proposito, non avere tra le mani quel libro/non libro che rappresenta il packaging ma solo la copia promozionale per la stampa. Immagino sarebbe stato un ulteriore motivo di estasi per i miei sensi.
Da un punto di vista musicale, le attese speranzose possono dirsi, almeno in parte, divenute realtà. L’apporto di Zeno Gabaglio (cello in “La Fin”) e Luca Broggini (batteria in “Les Vagues Caleidoscopiques”) è ulteriore garanzia di qualità ma è nell’insieme che Billion Sands convince a metà, o forse qualcosa di più. Quasi impossibile dare una collocazione temporale alle note dell’opera, sospese come sono nello spazio e nel tempo. Le strumentali che ci introducono al lavoro, dal vago sapore tra certo Slowcore stile Black Heart Procession e conturbanti introduzioni funeree degli Have a Nice Life. Quel cocktail di note oscure, riverberi ed echi cosmici e sconvolgenti che quasi ci trascinano in una dimensione irreale presto diventano sperimentazioni dalle lievi ritmiche tribali, sulle quali si staglia una narrazione eccitante, tra John Cale e Sol Invictus (“Whisper”). Non mancano momenti più canonici, a modo loro, sabbiosi, quasi tendenti al Folk desertico, come dei Calla in giornate particolarmente deprimenti e tristi (“Death of a Sun”) o ancora più vicini al più conforme cantautorato sempre in chiave Neoclassical Darkwave (“Scarborough Fair”, “Narcosia”), un po’ Black Tape for a Blue Girl e un po’ Lisa Gerrard, grazie anche all’apporto di Adele Raes. Dunque, ritmiche ossessive e marziali sullo sfondo di timbriche vocali eteree e sofferenti, tutto in una chiave psichedelica moderna e lisergica ma anche uso sapiente della materia chitarristica (“Les Vagues Caleidoscopiques”) che sul finale apre una porta Psych Rock totalmente nascosta fino a quel momento, quasi a mostrarci una esistenza parallela che deformi totalmente i nostri pensieri prima di mandare tutto in frantumi con il claustrofobico e terrificante finale (“Caledonia”) che alterna speranza e disperazione. Particolare attenzione è opportuno dedicare alle liriche, perfettamente in linea, grazie al loro ermetismo e simbolismo, con lo stile musicale dei Black Fluo. Per il resto uno splendido album che poteva essere ancor più intenso, se si fosse insistito su certe idee e che finisce per apparire ottimo senza lasciarci veramente fluttuare a mezz’aria in una nascosta interzona dell’anima, una volta scoccato l’ultimo dardo dall’ultima nota.