Silvio Don Pizzica Author

Era così tanto un bravo ragazzo. Poi ha conosciuto la trap.

Tati Valle in concerto ad Estatica

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Un quartetto d’eccezione per raccontarci il prezioso disco Livro Dos Dias. Tati Valle in concerto al Porto Turistico di Pescara il prossimo 7 Agosto nella prestigiosa cornice di Estatica 2014. Brasiliana di Londrina, abruzzese di adozione, Tati Valle porterà in scena Livro Dos Dias il primo disco di inediti in studio uscito agli inizi del 2014 per Protosound Records / Cramps / Edel. “Livro Dos Dias” è un racconto sonoro, un paesaggio pieno di storie, esperienze, sensazione e amori vissuti in questo viaggio della vita in continua ricerca di se e delle proprie radici. L’anima che cambia forma e colore, come un camaleonte nell’incastro prezioso condotto per mano dalla direzione artistica di Ivan D’Antonio e mixato negli studi Protosound dal producer Domenico Pulsinelli.

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Coffeeshower

Written by Interviste

Coffeeshower: ovvero un pezzo molto importante della scena Punk Rock italiana e probabilmente, dal 1999 ad oggi, la più importante e riconosciuta band del genere di tutto l’Abruzzo in ambito Punk e Hardcore insieme agli Straight Opposition e pochi altri. Una storia che mira a diventare leggenda ma anche piena di salite, a cominciare da una line-up sempre in mutamento e che ha ruotato soprattutto attorno ai due fratelli Fausto e Pierluigi. Chi erano i Coffeeshower nel 1999 e chi sono oggi? Come è cambiato il vostro stile col trascorrere del tempo?

FAU: ti ringrazio delle belle parole, forse troppo belle (ride ndr). Onestamente in Italia non siamo così importanti, c’è senz’altro qualche amante del Punk Rock che ci segue da sempre, ma restiamo, come diceva il nostro ex bassista Emanuele (Verrocchi ndr), un “gruppo per cultori”. (ride ndr) Certo in molti luoghi d’Abruzzo ci sentiamo molto amati e apprezzati e quando suoniamo lì è come essere a casa nostra e di questo siamo sempre molto felici. La band è nata semplicemente dalla passione che io e mio fratello Pier condividevamo con Edoardo (Puglielli ndr) per il Punk Rock, i concerti e tutta la cultura che vi ruotava attorno. Da anni personalmente cercavo una forma di espressione per quel “rock’n’roll estremo ma melodico” che avevo in mente e con loro la cosa funzionò da subito. Pescavamo a piene mani dal Punk e dall’Hardcore e ci divertivamo a scrivere brani che fossero anche un po’ differenti dai cliché dei generi di riferimento. Con gli anni certo siamo cresciuti, abbiamo sperimentato strade un po’ diverse rispetto al nostro modo di scrivere canzoni degli esordi. Soprattutto dopo la separazione con Edoardo inevitabilmente il nostro stile è cambiato, lui era quello più legato a una certa scrittura più squisitamente hardcore, mentre dopo nel nostro processo creativo ha pian piano prevalso il lato più vicino al Punk Rock e all’Alternative Rock in generale della nostra “educazione sentimentale”.

A coronamento del vostro splendido percorso artistico, lo scorso anno avete pubblicato The Glory Years, album raccolta con diversi inediti. Un punto di arrivo o l’inizio di una nuova vita?

FAU: era da tempo che avevamo questa idea, visto che spesso ci veniva chiesto se avevamo ancora copie del primo EP autoprodotto o addirittura del primo demo. Ci sembrava una bella cosa riproporre tutto il vecchio materiale, demo compreso, assieme a qualche inedito che non avevamo mai avuto la faccia tosta (ride ndr) di pubblicare prima, insieme a un paio di brani nuovi di zecca che abbiamo registrato all’ACME Recording Studio di Raiano. Indelirium ha sposato da subito il progetto e così abbiamo anche noi adesso il nostro “best of…the worst” (ride ndr).

A tal proposito, girano voci di un imminente nuovo album di brani originali. Potete darci qualche anticipazione, se le voci sono da confermarsi?

FAU: senz’altro. Abbiamo praticamente finito le registrazioni dell’album nuovo. Crediamo che presto vedrà la luce, probabilmente in autunno. Ci saranno canzoni che in parte stiamo già eseguendo qua e là nei concerti e che qualcuno inizia già a conoscere, assieme ad altre davvero nuove.

FAB: abbiamo cercato di comporre l’album in modo da fotografare al meglio il nostro suono attuale, come ti diceva Fausto prima forse meno legato a sonorità tipicamente Punk Hardcore in senso stretto, ma sempre in pieno stile Coffeeshower. Spero ti piacerà quando lo ascolterai.

In quindici anni fatti di album e tour in giro per il mondo con Anti-Flag, Underoath, Taking Back Sunday, Hot Water Music, Smoke Or Fire, Chuck Ragan, Astpai, Antillectual, Atlas Losing Grip, This Is A Standoff avrete messo in cantina un’infinità di esperienze. Quale la più bella e la più importante per la vostra musica? Quale l’episodio da dimenticare?

FAB: le esperienze fatte in giro a suonare, anche quelle che apparentemente sembrano disastrose, lasciano sempre qualcosa di positivo, come un insegnamento a crescere, dal punto di vista musicale e anche personale. Non ci lamentiamo insomma (ride ndr).

FAU: personalmente ho molto rivisto la mia opinione sulle “aperture” di concerti di band importanti e sulla loro presunta utilità. Certamente dividere il palco con band grosse è sempre una cosa stimolante, hai l’occasione di incontrare personalmente musicisti che adori e anche di suonare davanti a un pubblico che altrimenti non ti avrebbe ascoltato, ma è vero anche che se a quella situazione non segue una buona promozione del nome della band, della sua musica, etc., cosa che per una band DIY è sempre un problema, alla fin fine resta solo un ricordo piacevole e non molto altro. Sicuramente comunque l’amicizia con Chuck Ragan e con gli Hot Water Music nata a seguito dei concerti fatti assieme, prima con Chuck ad inizio 2009 e poi nel 2012 con gli HWM, sono fra le cose più belle che abbiamo vissuto come uomini ancor prima che come musicisti.

Proprio pochi mesi fa siete tornati da un tour in centro Europa. Che differenze notate tra pubblico e organizzatori italiani ed esteri?

FAU: fin dal nostro primo tour abbiamo sempre lavorato in modalità DIY, facendo ovviamente una fatica bestiale  a partire dalla lunga fase preparatoria fatta di contatti prevalentemente via mail con i promoter, i centri sociali, i club, le band, etc. fino al vero e proprio viaggio per andare a suonare, con tutti i disastri finanziari che ne conseguono. Nonostante tutto però non abbiamo mai voluto far mancare alla nostra band quell’occasione di confronto con il mondo esterno. Ogni anno insomma almeno un piccolo tour all’estero deve esserci per noi, pur con tutte le difficoltà del caso. Generalmente comunque, per rispondere alla tua domanda, non abbiamo riscontrato particolari differenze tra il pubblico italiano e quello all’estero, forse fuori confine statisticamente negli anni abbiamo registrato un po’ più di attenzione e di curiosità da parte della gente che ti viene ad ascoltare, anche se per loro sei l’ennesima band sconosciuta in tour, ma ci sono sempre state serate bellissime e serate mortifere sia in Italia che all’estero. Certo quando sei all’estero in giro su un van scomodissimo e vieni da quattro serate nelle quali hai solo perso un sacco di soldi, sei stanco e malaticcio e vorresti soltanto dormire in un letto decente e succede che proprio quella sera si crea quella alchimia particolare con il pubblico di quello squat o di quel piccolissimo club di un posto lontanissimo da casa tua che non avevi mai sentito prima, beh quella è una ricarica di batterie straordinaria, è la cosa che ti fa andare avanti e che ti fa pensare di aver davvero fatto bene il tuo lavoro.

Per la prossima esibizione dal vivo ci diamo appuntamento al From the East Coast Fest di Pescara il prossimo 5 agosto. Un festival Hardcore che punta su una line-up eccelsa e che vedrà i newyorkesi H2O come band di punta. Chi ci sarà con voi e cosa dobbiamo aspettarci da un festival di questo tipo?

FAU: per noi è un onore essere stati invitati a questo festival, oltre agli H2O ci saranno gruppi leggendari dell’hardcore italiano come Strenght Approach e Straight Opposition e poi gli organizzatori hanno fatto secondo me una cosa davvero bella, quella cioè di comporre il cartellone delle band senza pensare soltanto all’Hardcore ma inserendo anche una nutrita rappresentanza Punk Rock, quasi a tirar su una vera e propria “unity fest punk-hc”: bello vero?

Avendo vissuto voi da protagonisti la nascita e lo sviluppo del Punk e dell’Hardcore, che differenze pensate ci siano tra quelli delle origini e quelli odierni? Quanto è venuto meno l’aspetto sostanziale (fatto di tematiche sociali e violenza espressiva) a favore di fattori formali (legati ad estetica e stile puro)?

FAU: quando abbiamo cominciato a suonare insieme, nel Punk e nell’Hardcore era già stato tutto scritto. Fin dalla metà degli anni 70 il Punk era già nato, morto e risorto tante volte, così come le varie ondate Hardcore statunitensi si erano già susseguite fin dagli anni 80. Ma era anche un momento in cui l’estetica Punk, la cultura dello skate, della strada, dei concerti e tutta una serie di altri elementi erano tornati in auge tra i ragazzi. Erano gli anni del “nuovo Punk Hardcore melodico”. Ricordo come quell’ondata di gruppi e uscite discografiche fosse vista dai vari recensori e intellettualoidi che si divertono a fare i sociologi quando parlano di musica come un qualcosa di vuoto, di spento, come una copia di cose già dette prima, una merda in pratica. Già allora insomma si diceva che quel movimento fosse tutta estetica e poca sostanza. Oggi però leggi ovunque che i Green Day di allora erano un gruppone e che i Nofx e i Lagwagon sono le band migliori della storia e che le band di oggi fanno schifo al confronto. Noi eravamo dei semplici appassionati, ci trovavamo con mio fratello e con Edoardo ad ascoltare insieme quella musica per tanti lunghi pomeriggi e a condividere molte cose di quella specie di “rinascimento Punk”. Partivamo e facevamo centinaia di chilometri per andare a questo o quel concerto al nord, era bello incontrare continuamente sui treni o nelle aree di servizio delle autostrade tanta gente con le Vans ai piedi e la tua stessa t-shirt che andava allo stesso evento. Si respirava un’aria di novità e di ribellione quando andavi a un festival o a un concerto in un centro sociale. Poi arrivò Genova e quello fu un brusco risveglio per molti di noi, ma parlare di questo ora sarebbe lungo e complicato. Per noi comunque fu una conseguenza naturale quella di cominciare a scrivere canzoni insieme e fare le prime prove, in tre, senza basso, in una stalla di un paese a 20 chilometri da L’Aquila dove un nostro amico aveva approntato un impianto elettrico davvero precario che a ripensarci mi vengono i brividi (ride ndr). E’ nato tutto molto spontaneamente, senza avere insomma la pretesa di poter recitare un ruolo in “scene” o situazioni che nel frattempo avevano già scritto pagine importanti. Avevamo solo voglia di divertirci a suonare e di urlare al mondo quello che avevamo dentro.

Esiste ancora una scena Hardcore tricolore? Quali sono le aree geografiche che ritenete più in fermento in Italia? Cosa distingue le band nostrane dal resto del mondo?

FAU: forse non siamo le persone più adatte per darti questo tipo di lettura, siamo sempre stati un po’ fuori dai giri, dalle scene vere e proprie, probabilmente il fatto di venire da una piccola città d’Abruzzo non ci ha aiutato a essere pienamente parte di un fenomeno che altrove stava andando avanti. Parlo di città come Roma o Milano o di altre realtà europee dove le cose erano e sono tuttora più facili di un posto come L’Aquila, anche se poi quando parli con altre band di Roma o Milano anche loro ti elencano tutte le cose che non vanno della loro città, del loro giro dei gruppi, delle sette e delle varie faide, etc. etc., ma questo è un altro discorso. Pur non vivendo insomma al centro di “scene” o situazioni più vivaci abbiamo però sempre avuto la fortuna di girare l’Italia e l’Europa per andare a suonare, abbiamo visto tanti posti e conosciuto tante persone stupende, così come tanti stronzoni. Certo non avrò mai, penso, l’opportunità di suonare tipo al The Fest a Gainesville in Florida o al Groezrock, quindi non so risponderti su come sia vivere oggi, da band, quel tipo di situazioni che viste da fuori sembrano il paese dei balocchi per chi come noi ama ancora il Punk e l’Hardcore. Posso dirti però che la sensazione che almeno nel nostro piccolo si avverte andando a suonare in giro adesso, rispetto ai nostri primi tour, è quella di un po’ di disinteresse verso questa musica e questa cultura, di grande difficoltà per gli organizzatori di concerti nel coinvolgere le persone, di grande freddezza generale purtroppo.

FAB: anche se come dice Fausto andando a suonare in giro ora si percepisce un po’ di disinteresse e di stanchezza, ci sono ancora tante persone che si sbattono per creare delle realtà nella loro città organizzando concerti e movimentando la quotidianità dei posti dove vivono. Credo che questo sia lo spirito positivo, immortale, di questo genere musicale. Quello che permette alle varie realtà di rimanere vive in questo momento di “torpore culturale”.

Quale è il ruolo sociale del Punk o dell’Hardcore oggi e quale il loro ruolo all’interno della musica Underground (o comunque non mainstream)? Credete che ci possano essere, negli anni a venire, prospettive di crescita e sviluppo del genere o lo stesso è destinato a ripetersi negli anni con lo sguardo sempre rivolto al passato?

FAU: Il Punk e l’Hardcore, pur con tutte le differenze e anche i conflitti che storicamente ci sono stati tra queste due grandi tendenze della cultura underground, sono entrambi nati dalla strada e sono linguaggi che dovrebbero parlare dritto al cuore della gente, ma è difficile farlo se questa gente non vuole ascoltarti più. Siamo onesti, un ragazzo che va a scuola oggi generalmente trova molto più interessante e stimolante un concerto Hip Hop o un dj set di un dj famoso piuttosto che un festival Punk, a volte sembra non importare più a nessuno del Punk e dell’Hardcore, almeno dalle nostre parti. E’ triste, ma bisogna fare i conti con questa realtà. Altrettanto vero è però che finché esisteranno questa attitudine, questa cultura e questi filoni musicali ad essa legati, quantomeno esisterà una “strada alternativa”, che forse un giorno i ragazzi torneranno a percorrere. Come dice Frank Turner:  “punk is for the kids that don’t fit in with the rest”. Probabilmente questo passaggio culturale un po’ buio per la cultura Punk è più evidente nella nostra Europa decadente, mentre nella tanto vituperata America le cose non stanno proprio così. Mi sorprendo ogni giorno a scoprire tantissimi nuovi gruppi che si fanno strada negli States e che pur suonando ancora con la vecchia formula chitarra, basso, batteria e 4 accordi scrivono canzoni magistrali e aggiungono sempre qualcosa di nuovo a un giocattolo che ai più sembra ormai obsoleto. Penso a band come Balance And Composure, Hostage Calm, Make Do And Mend, Pianos Become The Teeth, Captain We’re Sinking, Red City Radio, Iron Chic, Banner Pilot, solo per citarne alcuni a caso. E comunque, quello che voglio dire è che fin quando succederà che quattro ragazzi vorranno rinchiudersi in un garage per condensare tutta la rabbia possibile in una manciata di canzoni e condividerla con il mondo là fuori allora tutto questo avrà ancora motivo di esistere.

La nostra intervista si chiude qui. Vi facciamo un in bocca al lupo per la vostra esibizione in compagnia dei mitici H2O. Un’ultima cosa. Quale messaggio pensate che debba lasciare la vostra musica nella testa di chi vi ascolta?

FAU: crepi il lupo grazie! Quanto al messaggio, noi raccontiamo storie di vita, non siamo poeti o filosofi o predicatori, scriviamo solo canzoni e le condiamo col nostro suono, ci piace suonare con gli ampli a palla e con la batteria che non si ferma mai e se tutto questo fa anche divertire chi ci sta ascoltando allora è una cosa bellissima.

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Aemaet

Written by Interviste

Aemaet. Quattro ragazzi che hanno deciso di dire la loro nel fitto mondo del Rock Alternativo. Cosa avete da dire che non sia stato già detto?
CC: Si parla già molto, forse troppo. Quel che dobbiamo dire lo diciamo con la nostra musica.

La vostra è una formazione evidentemente giovane. Il primo Ep, Muse of Lust, risale a soli tre anni orsono mentre poco più di un anno è passato dall’esordio full length Human Quasar. Cosa è cambiato nel vostro stile e nel vostro approccio alla musica?
CS: Molte cose, a partire dalla formazione. Ora c’è la sola chitarra di Giovanni, e il sound si è aperto alla tastiera:è più complesso e stratificato.
GI: La nostra musica è in continua evoluzione, nei contenuti e nella forma.Il vero cambiamento sta nell’approccio alla scrittura. Io parto da un sentimento, un’emozione, per poi lasciare libero sfogo alle sensazioni che le frequenze smuovono dentro.

Da dove vengono gli Aemaet e dove vorrebbero arrivare se potessero sognare senza freni? Tornando con i piedi per terra, dove potrete realmente giungere, considerando il periodo non certo florido per la musica emergente e indipendente?
GI: veniamo da diverse esperienze musicali ed ognuno di noi ha i suoi gusti. Noi cerchiamo una “potenza musicale”, e mi piacerebbe che l’ascoltatore provasse le stesse sensazioni che avvertiamo durante la composizione. Tornando con i piedi per terra, lo scopriremo solo vivendo dove potremo arrivare: noi ci mettiamo l’anima in quello che facciamo.

La vostra musica miscela con eleganza Alt Rock, Grunge e Wave e pare quasi naturale che abbiate scelto di usare l’inglese per le vostre liriche. In tal senso, quanta importanza date ai testi e quanta alla musicalità dei termini?
CC: Entrambi gli aspetti sono importanti. Quel che conta è però la musica: i suoni offrono quindi un vincolo. Le parole, dal canto loro, sono molte, e troveremo loro sempre uno spazio di senso nella forma sonora.
CS: Concordo. Poi molto dipende dall’atmosfera del pezzo. La scelta della lingua inglese è ovvia, hai ragione: l’italiano c’entra poco con il nostro genere, a mio parere. La musicalità nel testo è di per sé imprescindibile, lo diceva Poe, ma anche i Bluvertigo: “il suono ha vinto sul significato”.

Siete consapevoli che cantando in inglese si riducono le possibilità di essere apprezzati dal pigro pubblico italiano? Siete sicuri che all’estero potrebbero apprezzare le vostre parole?
SDR: Sicuramente cantare in inglese rende più difficile l’essere apprezzati dal pubblico italiano, anche a causa della diffusa abitudine di andare alla ricerca dei testi; allo stesso tempo però permette di raggiungere un pubblico più vasto, che poi è quello che ci auguriamo.

So che recentemente avete suonato al Contest del Rock in Roma. Raccontateci di che si tratta e come è andata.
CC: è andata come solo agli Aemaet può andare. Problemi tecnici al limite dell’inverosimile, non dipendenti da noi, che hanno in parte compromesso la performance. Ma nel breve tempo a nostra disposizione siamo riusciti a smuovere qualcosa. Vedi, a noi interessa poco il contest. Ci interessava solo suonare davanti ad un pubblico numeroso che crediamo affine al nostro. E la nostra intuizione è stata giusta: abbiamo ricevuto molti feedback positivi.

Avete mai realmente idolatrato qualcuno? Ha senso ancora fidarsi dei musicisti piuttosto che delle canzoni?
CS: L’idolatria è un refuso adolescenziale, quando si scoprivano icone come Morrison, Curtis o Smith. Col tempo l’idolatria cede il posto all’ammirazione. I musicisti, come tutti, possono deludere, con atteggiamenti o svolte musicali che non apprezziamo: per questo li sentiamo “inaffidabili”. Eppure un’ottima canzone resta sempre tale, anche col passare del tempo: se non ti puoi fidare dell’artista, puoi sempre fidarti della sua arte.
SDR: Personalmente sì, ho avuto degli idoli che in parte resistono ancora oggi. Si tratta per lo più di personaggi molto noti nell’ambito musicale. Resta comunque difficile rimanere legati ai propri “idoli”, soprattutto perché con il tempo cambiano i propri gusti e le produzioni musicali.

Ascoltando le canzoni contenute in Human Quasar si può notare una certa altalena di emozioni. Sareste più felici di smuovere le coscienze o commuovere profondamente?
CS: Ognuno di noi ha una sua personale visione della realtà. Ciò significa che quel che commuove una persona può lasciare indifferente un’altra, e viceversa. Io voglio suscitare un’emozione, indurre chi ascolta ad un’opinione; meglio se diverse tra loro. Questa è forse la prova che si è riusciti a creare un’opera valida.
GI: Io preferisco muovere le coscienze nel profondo.

Parlateci di Human Quasar. Come descrivereste il vostro esordio senza usare parole da critici e definizioni da ufficio stampa?
CC: La parola esordio spiega già molto: Human Quasar è una commistione di inesperienza e sprovvedutezza, non necessariamente qualità negative. Ma non è tutto. È un disco intriso di giochi letterari e rimandi interni, con una solida impalcatura di senso e un uso molto raffinato della retorica. Per me è un figliolo che muove i primi passi nel mondo, rendendomi orgoglioso.
CS: Un sentiero di luce e oscurità, calore e freddezza. Sì, Il nostro bipolare primogenito.

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L’album è uscito per la label Red Cat Records. Ha veramente importanza oggi avere una etichetta alle spalle? Per una band emergente non è più utile avere Booking & Management?
CC: Sono entrambe componenti essenziali, sebbene oggi l’uso di internet crei l’illusione che tutto ciò sia surrogabile. Se una band merita la giusta attenzione non faticherà a trovare degli ottimi collaboratori. Esistono dei professionisti, e il loro lavoro va capito e rispettato. È quando lavori con loro che comprendi quanto tutto ciò sia di capitale importanza.

Oggi come quarant’anni fa è molto difficile emergere. Forse è solo più facile trovare spazio ma tenerselo è un’impresa. Come avete intenzione di muovervi per districarvi nell’ impervio mondo dell’underground e magari non affondare?
CC: Sono alieno da questi pensieri. Noi lavoriamo e cerchiamo di offrire al pubblico uno spettacolo degno della loro attenzione. Non credo ci siano altre strade: lavoro, lavoro, lavoro.
CS: Servono ambizione e determinazione. Senza di esse si può avere tutto il talento di questo mondo, ma a nessuno importerebbe, soprattutto in questa società virtuale. Io auspico un rituale di corteggiamento che faccia la differenza. Come nel regno animale. Garantirebbe una “prole” di seguaci.

Cosa ci dobbiamo aspettare ancora dagli Aemaet?
CC: Molte cose, spero: un secondo disco, ad esempio. Un live senza compromessi. E tanto affetto per chi ci segue: non finirò mai di stupirmi del potere aggregativo della musica.
SDR: sicuramente la ricerca di un’evoluzione musicale che credo si sia già manifestata nella nostra seppur breve esperienza.

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Thot – The City that Disappears

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No, non sono totalmente impazzito e neanche vivo di una presunzione tale da spingermi a inventare una definizione, per un genere musicale, tanto strampalata e azzardata. È lo stesso Grégoire Fray, il cui moniker è proprio Thot, che indica la propria musica con le parole Vegetal Noise Music e, sinceramente, tolte le suggestioni create dai termini, faccio una certa fatica a comprendere questa scelta. Del resto, come lui stesso spiega, tanta follia cela la voglia di prendere un po’ in giro questa necessità di apporre sempre un’etichetta a ogni nuovo prodotto e la cosa mi rompe un po’ il cazzo giacché ormai gli artisti che “non si ritrovano in nessun genere” o “non amano i generi” sono più noiosi di noi stessi giornalisti, opinionisti, critici, cialtroni che usiamo le definizioni per questioni pratiche, ma, talvolta, affondiamo dentro sabbie mobili linguistiche create proprio da noi. Mettiamo da parte queste digressioni sugli aspetti formali della critica e parliamo di Thot e quindi di Grégoire Fray, nome importante dentro la scena Industrial, noto anche per alcuni remix di Nine Inch Nails, Carina Round, Justice, Depeche Mode, Amenra e, per i seguaci incalliti, per due album solisti (The Huffed Hue del 2005 e Obscured by the Wind del 2011) e due Ep (Ortie del 2009 e The Fall of the Water Towers del 2012). Lo stile di questo The City that Disappears è profondamente intriso di Industrial ma molto presenti sono anche gli aspetti Synth Pop e Rock tanto che l’album è da considerarsi il più variegato della sua discografia. Eppure non tutto è oro quello che è musica. Gran parte dei brani manca di mordente, suonano potenti nella forma quanto morbidi nella sostanza, con una vocalità a tratti imbarazzante nel suo cantato e soprattutto nella timbrica, suoni ai limiti della decenza, melodie banali, arrangiamenti che sfiorano il cacofonico involontario e un’originalità stilistica difficile da trovare anche a spulciare ogni singola nota. Dico tutto questo con profondo dispiacere perché pare (non ho mai avuto la fortuna) che dal vivo i suoi spettacoli siano eccezionali e poderose miscele di performance musicali e visive, grazie all’apporto di diversi collaboratori tra cui Arielle Moens alle proiezioni e grazie anche all’interazione col suo pubblico (The Vegetal Noise Lovers) chiamato a partecipare attivamente con progetti quali video e remix. Che cosa posso farci io, però, se del disco dobbiamo parlare e il disco è tutto tranne che qualcosa che vi consiglierei di ascoltare, salvo che non siate psicopatici da Synth Pop a tutti i costi?

L’unica cosa che posso fare è dirvi che i tempi di Depeche Mode e NIN sono finiti ma se proprio volete fare un tuffo in questo mondo sintetico e volete farlo con un disco freschissimo, lasciate stare The City that Disappears e le contaminazioni industriali e provate con cose tipo Singles dei Future Islands.

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Streetambula 2014 (II Edizione), tutte le info

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LPR8 – Piece of Kiss

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Proprio quando sei divorato dal dubbio che le tue capacità di giudizio critico si stiano ammorbidendo a livelli preoccupanti, col timore che potresti metterti tranquillamente a sdoganare un Cristiano Malgioglio, ti capita di ascoltare qualcosa che a velocità supersonica ti rifionda nella dura realtà. Un Ep sbagliato in tutto e non parlo solo di brutture musicali, gusti soggettivi (e come sennò?), apertura mentale, stato d’animo del momento. Tanto per capirci, quell’apparente acronimo LPR8, nome scelto dal produttore Marco Connelli per il suo progetto, non ha quel fascino elettronico che potreste aspettarvi da una fredda sigla. Basta leggere il sottotitolo, Il Leprotto. Proprio cosi, è questo il vero nome dell’artista (perdonatemi l’uso di tale sostantivo in questa circostanza) autore di Piece of Kiss. Non finisce qui, tuttavia. L’orrido prosegue con la visione delle grafiche e dei font di copertina, tanto brutti che quasi m’impediscono di rilevare la pessima scelta anche di titoli di Ep e brani. Prima di passare a descrivervi/non descrivervi la musica/non musica non posso che soffermarmi un secondo sul discorso featuring. Dio santissimo, ma è veramente necessario infilare feat ovunque per provare a rubare fan in mondi altrimenti inaccessibili? Veramente è una cosa utile? Tre pezzi, tre collaborazioni (Boom Girl, voce dei Sick Tamburo in “Kiss”, Don Turbolento in “Run or Die” e Pink Holy Days in “I Wanna Be the Best”) che faccio fatica a comprendere veramente, anche se lo scopo di inserire quelle voci dovrebbe essere di aumentare la portata melodica dei brani e la sua accessibilità.

I tre brani che compongono l’Ep sono un mix ripetitivo, apparentemente potente (ma in realtà soprattutto noioso e snervante) di suoni elettronici di stampo Tech-House e Break Beat, sulle quali le voci dei vari ospiti si appoggiano in maniera credibile ma non efficace. La strada battuta dai Prodigy è molto lontana da quella intrapresa da LPR8, piena di cliché, insulsaggini e totalmente priva di appeal, quantomeno se ad ascoltare è qualcuno che riesca ad andare oltre le capacità di coinvolgimento di suoni bassi e poderosi tipici del genere. Non ha senso spingersi oltre, non vi ho detto molto, scusatemi ma ho veramente altre cose da far girare nello stereo. Magari tornerò su questa roba quando, questa estate, mi ritroverò a ballare come un idiota in qualche pessima discoteca del litorale. Anche se sono troppo vecchio per iniziare a ballare.

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I Rolling Stones e il pisello di un settantenne.

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Deison & Mingle – Everything Collapse[d]

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I, I’ve been lonely
And I, I’ve been blind
And I,. I’ve learned nothing
(M. Gira)

Sono due o forse tre o più settimane che non riesco a sfilare dallo stereo questo disco del duo Cristiano Deison (electroning e processing), Andrea Gastaldello (piano, electronics) e non è precisamente perché di una qualità oltre la norma. Il dubbio è che faccio una fatica pazzesca a capire quanto mi piaccia davvero Everything Collapse[d] e quanto, invece, non lo faccia correre via nelle mie giornate con apatia, quasi senza forze, consapevole che potrà accompagnarmi fino alle ore del sonno senza tediare troppo la mia vita.  La prima notizia positiva, però, è che, a dispetto di uno stile non proprio tradizionale tra i nostri confini, Deison & Mingle è prodotto tutto italiano e lo avrete capito dai nomi di battesimo delle due anime che stanno dietro al progetto nato nel nord-est solo nella scorsa estate. Da un lato un navigato del settore sperimentale, Ambient ed Electronic Minimal, Deison, che già si è ritrovato negli anni a collaborare con mostri quali Lasse Marhaug, KK Null, Teho Teardo, Thurston Moore, Scanner. Dall’altro Mingle, alias Andrea Gastaldello, eccelso compositore minimale già al lavoro su svariati documentari. Non passa molto dalla collisione tra queste due inclinazioni e la nascita di Everything Collapse[d], album che trova la sua energia, il suo asse portante, la sua ragion d’essere nell’analisi psicotica dell’inquietudine e della disperazione umana, senza per questo non palesare momenti di speranza (“Optokinetic Reflex (Glassy Eyes)”) difficile da comprendere quanto illusoria e quanto reale.

Otto tracce che si plasmano e collassano, si amalgamano e si mettono in mostra attraverso droni disturbanti, field recordings, processed loops, ritmiche amorfe, armonie eclissate, soffuse e dilanianti, tutto appesantito da note di piano tormentose. Quarta opera di una collana che vede collaborare l’etichetta Aagoo Records con i Rev Laboratoires e che, in precedenza ha visto l’uscita delle sperimentazioni di Marcus Fjellstrom, Murcof & Philippe Petit e Connec_icut, già trattate sulle nostre pagine dal qui presente. L’opera è inquietante ma non troppo greve, multiforme ma con momenti di sana distensione e a lungo, come accennato all’inizio, mi sono dibattuto inseguendo una chiave di lettura più pertinente, che andasse oltre i concetti palesi e i suggerimenti di un titolo, Everything Collapse[d], tanto esplicito e categorico. Sul finire dell’album, troviamo “Static Inertia”, che, in un’ottica di speranza nella disgrazia si ricollega all’opening track, ma quest’ultimo pezzo non si chiude etereo ed estatico al minuto cinque e venti secondi. Fino a questo momento non c’è stato spazio per la voce, tutto era elettronica fredda. A stringere realmente il cerchio c’è una ghost track cantata da Daniele Santagiuliana (ottima la sua interpretazione). Si tratta di “Failure”, brano degli immensi Swans. Scelta scaltra, vista la nuova rinascita della band capitanata dal gigante Michael Gira ma anche perfetta per incasinare idee e sensazioni, alla fine dell’ascolto. “Some people live in hell, many bastards succeed. But I. I’ve learned nothing. I can’t even elegantly bleed out the poison blood of failure”.

E intanto continua a girare il disco nel lettore e non ho alcuna voglia di toglierlo e forse inizio a comprendere che Deison & Mingle hanno colto perfettamente nel segno, pungolando la parte più oscura e disturbata della mia anima. Mi hanno fregato, con furbizia e malizia ma ora non ho le forze per reagire, ho solo voglia di farmi fottere ancora.

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Allan Glass – Magikarp

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Per il duo piemontese Marco Matti e Jacopo Viale, dopo la buonissima prova dell’ep Guzznag, è giunto il tempo dell’album che li dovrebbe introdurre definitivamente nell’oscuro mondo dell’underground italiano. I due ragazzi pescano tantissimo da un passato che ha il sapore di un Garage sporchissimo (“Betulle”), figlio dei decenni Sessanta e Settanta, tra Iggy Pop e The Sonics ma questo lavoro di riscoperta della lordura che fu è messo in atto con uno spettro di modernità e rinnovamento senza eguali. Un’inclinazione fresca che rinvigorisce lo spirito, anche quando le chitarre Funky danzano selvaggiamente con una sezione ritmica tribale che non lascia scampo neanche ai più rigidi pezzi di legno (“La Tua”) oppure quando si resta schiacciati contro il muro da uno tsunami Impro Folk Rock che suona come un putiferio incontrollato e caotico, almeno all’apparenza. Quello degli Allan Glass non è solamente un Alternative Rock sparato a mille chilometri l’ora, con un tripudio Noise a calpestare, soffocare, stuprare le linee melodiche vocali (“Palloncini e Pavoni”, “L’Estate Non Conta Parte I”). È tantissime altre cose, in parte sulla scia dei giganti della Psichedelia sperimentale, gli Oneida e in parte oltre ogni paragone di sorta.

Il loro fosco e poderoso ma comunque ritmato Lo Fi, sfoggia le vesti più eleganti di un certo Post Rock psicotico, senza saliscendi o variazioni sostanziali (“L’Estate Non Conta Parte II”), che quasi sarebbe base perfetta per un pezzo Experimental Hip Hop stile Dälek, ma sa anche svestire quei panni per mostrarsi in tutta la sua bellezza Art Punk, ritmica e amorfa (“Plastic Bubble in the Mystic Place”) oppure mutare forma in maniera sostanziale e inaspettata, trasformandosi in una sperimentale miscela di Acid House, Industrial e Psichedelia Elettronica neanche si trattasse di figli illegittimi di un parto selvaggio e innaturale di Genesis P-Orridge e famiglia (Psychic Tv). Con Magikarp (per gli appassionati del genere dovrebbe trattarsi di un Pokemon di scarsa potenza) gli Allan Glass mettono finalmente in mostra tutto l’arsenale a disposizione, forse con un po’ di confusione, qualche pausa d’intensità di troppo e pochi minuti (circa ventiquattro) sui quali sfogarsi, ma quelle armi paiono avere tutte le carte in regola per fare molto male. Gonfiare ancor più l’album non tanto con nuove idee ma soprattutto con la materializzazione di quelle già presenti avrebbe certo aiutato ad apprezzare ma chi ha buon orecchio per ammirare anche questo sensazionale rumore, non faticherà a riconoscere indubbie doti creative.

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Casa – Una Fine Continua

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Quando, nel lontano 1998, Filippo Bordignon sviluppò la creatura chiamata laconicamente Casa, probabilmente non vi era ancora una percezione nitida di quella che sarebbe stata la sua evoluzione nel corso degli anni. Molti ne sono passati di lustri e in mezzo ci sono ben cinque lavori, tutti editi per Dischi Obliqui, che vanno da Vita Politica dei Casa, del 2007, fino a quest’ultimo e sesto, il live Una Fine Continua, registrato presso il Lost in Space Studio nell’ottobre del 2013. Non troppo tempo fa io stesso vi raccontai di Crescere un Figlio per Educarne Cento, quella che a oggi è la loro ultima opera in studio e, nell’occasione ebbi modo di illustrarvi non solo i pregi di quel bellissimo disco ma anche il percorso artistico di Bordignon e di tutti gli elementi che si sono mischiati alla storia dei Casa, dimora sempre aperta a collaborazioni e contaminazioni e predisposta a calcare strade lontane dalle normali piazze della musica Rock sperimentale o meno che sia e quindi piuttosto limitrofe all’arte contemporanea. Non servirà a nulla, dunque, insistere sulla natura multiforme, coraggiosa e sperimentale della loro opera, quanto prendere atto della possibilità di riscoprire, nella dimensione live, un’imperfezione che non significa errore, bruttura, malformazione, quanto capacità di costruire qualcosa di sensato, affidandosi a caso, intuito, improvvisazione e capacità di affrontare in maniera liquida l’evolversi e il crescendo delle note. Come afferma lo stesso Bordignon, in tempi in cui anche una qualsiasi cover band va a tempo, andare a tempo non è più necessario.

Una Fine Continua è un live in studio aperto al pubblico ed è anche la prima occasione per la band di Vicenza di far sentire su disco quella che è la struttura dei brani in chiave live. In tutto sono ben quattordici i pezzi i quali toccano tutti gli episodi precedenti, senza far mancare qualche inedito (“Bombieri”, “I Sei Poli di Fascicolazione”, “Dal Caso alla Possibilità”, “Live in Ser.T”, “Peggioramenti”, “Mu”). Se è vero che della collaborazione i Casa hanno sempre tratto elemento di forza, ora il quartetto si scopre, presentandosi nella veste più spoglia possibile, senza rinunciare alla propria anima che si rinnova con l’ingresso di Matteo Scalchi alla chitarra. Se mai avete ascoltato nulla dei quattro folli di Vicenza, questo può essere un buon modo per scoprirli, andare a ritroso e innamorarvi dello stile canoro delirante di Bordignon che usa la lingua italiana in maniera totalmente indisciplinata e delle divagazioni strumentali, che toccano il Blues irriverente (“Blues Morto”), l’Avant Rock di stampo Prog (“Nick Drake”) o semplicemente farneticante e irragionevole come certo Free Jazz (“Whodunit!”), il Songwriting intimo che si trasfigura in deliri degni di Captain Beefheart (“Part-time/Una Razza Inferiore”) e poi L’Alt Rock mai convenzionale (“Beba la Moldava”) e piuttosto oscuro (“No”) o il Pop sgangherato, divertente a tratti (“Madonna con Cilicio”). Degna conclusione con “Volonté Blues”, a metà tra schizofrenia e sarcasmo, sia in quanto a testi sia a musica ma, per chi non conoscesse il brano, ogni parola è superflua senza un intimo ascolto che vi trascinerà in una profonda tragedia umana.

Una Fine Continua è un bel punto e a capo per una formazione straordinaria che non sempre ha riscosso gli apprezzamenti che avrebbe dovuto. Un magnifico modo per testare un suono che su disco è sempre sembrato in gabbia rispetto alle sue potenzialità, un suono che necessita anche dell’errore, intenzionale e non, per potersi espander oltre la percezione dell’uomo comune e raggiungere i lati intimi della nostra coscienza.

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Nasce Sherpa Records

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Il 27 Maggio 2014 è nata Sherpa Records, nuova label indipendente, guida e partner per progetti di valore: dal processo creativo alla promozione, dalla produzione al tour, dall’Italia al Mondo. Tra le prime produzioni della neonata etichetta Florida, il 7” d’esordio di Omake e “The Free World”, il primo singolo di Morning Tea. Benvenuti!

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Black Fluo – Billion Sands

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Scelgono l’eleganza del nero, nel nome, nell’artwork e nello stile. La raffinatezza dell’assenza di luce, della disperazione, del lato oscuro dell’anima, delle tenebre, della morte, della scoperta di quello che superficialmente ci sforziamo di sotterrare. Un nero fluorescente, come visivamente può esserlo la dicitura Billion Sands incisa sul nero opaco di copertina. Un nero fluorescente che ha la frenesia di mostrarsi in tutto il suo inquietante splendore. Black Fluo è essenzialmente un quartetto di Chiasso che miscela musica Elettronica e Neo Classical, il tutto frullato in un contenitore di contaminazioni psichedeliche e cosmiche che sciolgono il sound, spezzano i legami molecolari delle note, lasciando sgocciolare materia oscura, liquida e caldissima. Billion Sands è l’esordio di questo progetto che va ben oltre la semplice definizione di band, comprendendo anche grafici e attori. Peccato, a tal proposito, non avere tra le mani quel libro/non libro che rappresenta il packaging ma solo la copia promozionale per la stampa. Immagino sarebbe stato un ulteriore motivo di estasi per i miei sensi.

Da un punto di vista musicale, le attese speranzose possono dirsi, almeno in parte, divenute realtà. L’apporto di Zeno Gabaglio (cello in “La Fin”) e Luca Broggini (batteria in “Les Vagues Caleidoscopiques”) è ulteriore garanzia di qualità ma è nell’insieme che Billion Sands convince a metà, o forse qualcosa di più. Quasi impossibile dare una collocazione temporale alle note dell’opera, sospese come sono nello spazio e nel tempo. Le strumentali che ci introducono al lavoro, dal vago sapore tra certo Slowcore stile Black Heart Procession e conturbanti introduzioni funeree degli Have a Nice Life. Quel cocktail di note oscure, riverberi ed echi cosmici e sconvolgenti che quasi ci trascinano in una dimensione irreale presto diventano sperimentazioni dalle lievi ritmiche tribali, sulle quali si staglia una narrazione eccitante, tra John Cale e Sol Invictus (“Whisper”). Non mancano momenti più canonici, a modo loro, sabbiosi, quasi tendenti al Folk desertico, come dei Calla in giornate particolarmente deprimenti e tristi (“Death of a Sun”) o ancora più vicini al più conforme cantautorato sempre in chiave Neoclassical Darkwave (“Scarborough Fair”, “Narcosia”), un po’ Black Tape for a Blue Girl e un po’ Lisa Gerrard, grazie anche all’apporto di Adele Raes. Dunque, ritmiche ossessive e marziali sullo sfondo di timbriche vocali eteree e sofferenti, tutto in una chiave psichedelica moderna e lisergica ma anche uso sapiente della materia chitarristica (“Les Vagues Caleidoscopiques”) che sul finale apre una porta Psych Rock totalmente nascosta fino a quel momento, quasi a mostrarci una esistenza parallela che deformi totalmente i nostri pensieri prima di mandare tutto in frantumi con il claustrofobico e terrificante finale (“Caledonia”) che alterna speranza e disperazione. Particolare attenzione è opportuno dedicare alle liriche, perfettamente in linea, grazie al loro ermetismo e simbolismo, con lo stile musicale dei Black Fluo. Per il resto uno splendido album che poteva essere ancor più intenso, se si fosse insistito su certe idee e che finisce per apparire ottimo senza lasciarci veramente fluttuare a mezz’aria in una nascosta interzona dell’anima, una volta scoccato l’ultimo dardo dall’ultima nota.

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