Max Sannella Author

16 Lovers Lane – Propaganda

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E’ un esordio degno di nota, anche perché è un disco che dimostra di voler continuare a  cercare nuove direttrici per il suo portamento waveing, per le sue scolorite immagini atte a concepire un sistema d’ascolto ovattato, avvolgente e intensamente catarifrangente che ti affoga con sé fin giù sotto le inesorabili assonanze pulsanti del suo accoramento dolciastro.

Il quartetto veronese dei 16 Lovers Lane con Propaganda ci porta a scoprire il loro mondo verticale, dieci tracce di Ambient liquida e cinematica costruite in lussuriosi bagni di esili melodie malate, con le occhiaie e macilente immerse di basse frequenze fino  a raggiungere quella poetica maudit delirante che sa di tundre e guerre interiori, ossessioni e ipnotismi, un piccolo ma denso viaggio imperdibile ai confini delle ombre che a tratti solfeggiano rubini di brina folkly del profondo nord di una straniante Enya nella tripletta  “When I Sleep”, “William III”, “On Your Own”.

La maggior parte del registrato è un austero quanto qualitativo abisso sonoro che segue sincopi e flussi migratori di melodie fredde e incessanti, un gusto siliceo che modula onde e risacche notturne “Bad Poetry” e scuri meandri apneici sopra il bianco e nero dei tasti di un pianoforte “Hell (For Piano)”, mentre con “Stay” si cambia letteralmente registro, un pop sofisticato e classico che, accoppiato alla melodia americanizzata della stupenda ballata “Always Mechanical Clouds”, fanno da cerniera lampo ad un disco d’esordio da legare stretto, molto stretto alle intenzioni dei prossimi “acquisti” per le proprie e privatissime collezioni di chicche sonore.

I 16LL in questa list mostrano tutte le carte di una poetica che sa di incredibile, quasi a dodici pollici, un andamento lieve e continuo che costruisce da solo un intero disco, echi e controvoci, grigi e lune chiare che operano in un labirinto sonico nel quale – e ve lo raccomando di cuore – perdersi dentro sarà gioia e dannazione. Garantito!

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Motel Connection – Vivace

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Prosegue la full immersion dei Motel Connection – Samuel, Pisti e Pierfunk dei Subsonica – nelle camera dell’eco, nelle zone sonore e abbaglianti dell’Electro-Pop in cui transitano compulsivamente dilatazioni ritmiche della dance che accelerazioni di stampo House e step, e Vivace ne è il sesto episodio della band, il sesto nervo scoperto al quale il trio da corpo e volume per una “nottata” forsennata e splendente come poche.

In tanti dicono meno epico del precedente e reduce da una crisi d’ispirazione che invece, aguzzando bene testa e muscoli, pare non pervenire e tantomeno rintracciare, tutto è un super slam dancey e ritmo ad intermittenza, è un tutto sound dove si scatena la voglia incontenibile del ballare, del ballabile e del ballereccio, tracce al fulmicotone che arrivano spingendosi come elettroni impazziti, grazie e goduria per chi affolla club e dancefloor alternativi, il tocco di classe sincopato della Jovanottiana “tribù che balla”.

Anni Novanta ed happening a josa, e forse il disco più compiuto da quando i MC si sono messi in piazza coi loro progetti collaterali, una forza che ha la dimestichezza totale di quello che fa vibrare sotto il suo potere, tracce “performance” possiamo insinuare che evidenziano a tutto tondo il trionfo della Techno-Dance, Dance e ancora Dance, e con il trio in questa nuova sparata di suoni stroboscopici il rapper Ensi nella caotica valanga di concetti “Vertical Stage” e Khary WAE Frazier in “Know”, e ancora l’intervento di Drigo e Casare dei Negrita, tutto il resto sono mine vaganti di sound e loud all’inverosimile che stordisce e diverte con le sue benemerite funzioni di piacere; undici tracce esplosive che non concedono tregua o momenti di calma, panacea per l’estate più che alle porte e viaggi cosmopoliti nel segno della trasgressione e del divertimento, come la fraudolenza canaglia di “Computer Power”, e “Praise God”, l’attimo stunz stunz  acido “Overload City”, una tinteggiata dei nero mistero “Eyes From Hell” e alla fine il rilascio totale di ogni volontà a fermarsi dai vortici insaziabili di “Vertigo”, chiusura che lascia un fiatone della madonna.

Ovviamente per osannanti folle della Techno colorata, per altri meglio andare a cercare uno squisito gelato all fruits da leccare avidamente.

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Rokia Traorè – Beautiful Africa

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Rockia Traorè, l’artista del Mali (esiliata in Francia) non è molto avvezza – anzi quasi per nulla – a far parlare di sé o di partorire dischi a catena, le sue sono lunghe riflessioni pensate per anni, lunghi primi piani  sulle condizioni del suo popolo e del resto del mondo, la sua terra è scombussolata da guerre e dalle ombre dell’Islamismo integralista; sei anni fa il suo ultimo album Tchamanchè ed ora un nuovo episodio liberatorio, Beautiful Africa, album pieno di vibrazioni energiche, una naturalezza sorprendente e coloratissima di donna libera e autodeterminata, tracce che come anelli di congiunzione legano insieme tradizione e percorsi europei tanto da apparire un arcobaleno selettivo di bellezza e pop ibrido, contaminato in un arte – la sua – imprendibile e imperdibile.

Si,Pop e roots che si abbracciano, chitarre, basso e strumentazioni di oggi incontrano lo n’goni, ritmi ancestrali che sposano l’human beatboxer , il linguaggio Bambara che fronteggia gli idiomi del vecchio continente, un tutt’uno misticheggiante di spirito che scorre come sangue nelle vene,  che vola come sabbia sul cemento delle idee; disco strapieno di musicisti più o meno conosciuti come il batterista inglese Sebastian Rochford, (Polars Bears), i coristi Maliani e Mamah Diabatè allo n’goni, la chitarra di Stefano Pilla  dei Massimo Volume, il basso danese di Nicolai Munch-Hansen e l’australiano Jason Singh all’Human-beatbox, certamente un parterre di rilievo per questa tenera autrice, dolce ambasciatrice di un mondo caldo e scottante, costantemente filtrato da veli jazzly, sospiri francesi e frenesie della terra madre.

La sua voce è un diamante sofferente, rugiada sabbiosa che innesca un ascolto profondo, la filastrocca amara e corale “Ka Moun Kè”, il blues arido del Mali che soffia divinità in “Kouma”, la dolcezza terribile e notturma di “N’Tèri” e “Sarama”, e lo scatto rock-pop che stilizza la titletrack sono gioielli inestimabili,  fintanto che arriva di sorpresa il funk tribale di “Sikey” che strappa per alcuni secondi l’attenzione su tutto il resto, ed è allora che ti accorgi che il disco ti ha rapinato l’interiorità.

Imperdibile senza come senza ma.

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Vuoto Apparente – Storyteller

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Tracce intrise di utopie, amori, ricordi, constatazioni e illusioni, parole che fanno tiro alla fune tra amarezza dolcificata, pensieri che vorrebbero essere ottimisti oltre il livello di guardia delle nuvole: questa è la bella condensa che staziona nella poetica del cantautore siciliano Riccardo Piazza in arte Vuoto Apparente qui con l’official Storyteller, e la sua è una voce, un richiamo o eco fisico e consumato tra le pieghe delle storie che racconta e che parlano sincere, che fanno intravedere il rosso porpora delle loro venosità, dolci e risentite, ma sempre sul dondolio di chi le dice col cuore gonfio e un sorriso sempre abbozzato sulla faccia.

Cantautorato apprezzato tra il Pop e qualche immaginazione Rock, sette brani che inseguono i decibel dell’anima per esplorare e distillare poetiche a mezz’aria, urbane e lunatiche ma con sempre quel “fondino” – come in un bicchiere di rosso appena scolato – sul quale si rispecchia l’inclinazione di un giovane artista a tratteggiare senza mai incidere di forza situazioni passeggere o sconquassi profondi, raccontandole e stornandole come in un notes intimo ma disponibile a confidarle a tutti, ed è questa la forza di Vuoto Apparente, anche se il suo è un vuoto pieno di cose da conoscere e assaporare. Ironia e sarcasmo, verve e malinconia sono i punti forza dell’arte di questo siciliano, parole semplici e sguardi in tralice tra la società e le stanze di vita quotidiana, le analogie con colori smorti e squarci accecanti di luce, ma tutti contemplati con la purezza descrittiva di un osservatore dentro, che fa della canzone una pellicola da srotolare ogni volta che se ne avverte il bisogno di rivisitarla, di riviverla appieno.

E’ il primo passo discografico, ma già la racconta lunga, e l’occasione di  intercettare l’aria libera di un Benvegnù in “Dall’America Con Amore”, lo snodamento southerm che fila in “Farfalle Nel Metrò”, il voltarsi nel letto sfatto di una notte insonne “Il Mattino Non ha Loro in Bocca” o il field da fiore in bocca e cuore spezzettato “Fatti di Parole” è di quelle da non perdere. Le mode passano e le tecnologie musicali soffocano ma intercettare queste nuove penne di poesia ci fanno sperare bene e dedurre che il fattore semplicità è il vero miracolo di questi anni Zero sonici, il vero toccasana che conforta e ci rende più forti.

Lui è Vuoto Apparente, tanti altri sono solamente Vuoti A Perdere, e non è la stessa cosa. Consigliato!

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A Copy For Collapse – The Last Dream On Earth

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Vivere in prima persona un viatico virtuale con le cuffie incollate agli orecchi e le sensorialità staccate da terra fa sempre un bel certo effetto, è un insieme di emozioni che ti fanno trattenere il respiro e orbitare in un qualcosa di plastico, gommoso, senza forma se non quella di un sogno il solitaria, dove tu piccolo astronauta casalingo, per una volta tanto ti senti eroe di mondi lontanissimi, inimmaginati. Tutto questo è il riassunto di una avventura, di un trainspotting hollywoodiano? Affatto, è A Copy For Collapse, il progetto del musicista pugliese Daniele Raguso e The Last Dream On Earth ne è il viaggio, il traveller su cinque strati di atmosfere, un tenue e maestoso arredo mentale per musiconauti  melanconici e avvincenti ascoltatori di altro, di apparizioni sonore che ritraggono in continui flash indiscusse matrici dreaming.

Elettronica buia e interni luminosi, una di quelle porte sonore che si aprono e chiudono senza che te l’aspetti, un lavoro elegante e sotto vuoto da interior sound-designer che l’artista pugliese architetta nella penombra cromatica di una tranquillità sinuosa quanto sintetica, nove incursioni tra Dub, Elettronica, Wave e Chillout Toro Y Moi e allunaggi corposi alla Board Of Canada che delineano ricche geometrie e pacatezze sconfinate, rari addensamenti uggiosi e immobilità che passano distratti per lasciare il colmo senso di libertà fisica e interiore, per finire – a fino ascolto –  reduci di una meraviglia riverberata e a galleggio di una bidimensionalità esemplare.

Una cascata di vibes, echi e atmosfere che sono in fila per raccontare – a pelle – un racconto avvincente che rapisce fin dal primo giro, un film senza immagini e una immagine che si fa film sin dalle prime battute, minimalismo e pastorale cosmica fanno il sangue impalpabile di questo esperimento senza peso corporeo, e tracce come i contrasti ipnotici di “State of Mid”, la tribalità sintetica “Grey Sky”, le conturbanti ritmiche istigatrici alla dance Ottantiana “Lysergic Lullaby” o l’interiorità senza fondo contemplata nelle acquosità di “Walking From Reality” completano lo stato mnemonico di una soluzione alterata che scatena – col suo tempo incalcolabile – il confine mai segnato della notte.

Mettetevi comodi e rilassatevi, e buona andata!

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A Violet Pine – Girl

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Dal primo all’ultimo pezzo. da “Pathetic” a “Pop Song For Nice People”, l’esordio discografico Girl dei Violet Pine è un mondo totalmente obliquo, da leggere in virtù della libertà espressiva e della bellezza amniotica che porta dentro i suoi panni sonori. Difficilmente da collocare dal punto di vista dei rimandi iconografici – se non per quella vena sottomessa alla Autechre, Mogwai – il disco è un’apnea in ambienti liquidi che hanno la potenza/virtù di creare interazioni differenti, differenti nel calibro e nella trasposizione alternativa per nostalgie e carezze sintetiche.

Siamo su territori da percorrere con l’ausilio sognante di buone cuffie stereo per intraprendere un viaggio in sospensione, un trip emotivo al silicio che non invade e spadroneggia lo spazio cognitivo e dreaming dell’ascoltatore, ma lo guida come un soffio insperato di boria grigio-scura, dieci tracce inafferrabili che descrivono con visione e perizia galleggiante un futuro possibile o  quello che magari vorremmo ma non stiamo vivendo, ovvio da non confondere con quelle traiettorie di musica per uomo-macchina tanto care a Tsukamoto Shinya, anche perché sembrerebbe una sperimentazione al paradosso, ma poi la “creatura” dei nostri A Violet Pine marcia da sola, glissa molte delle appartenenze assai pericolose in questa “cosmica wave satellitare” e tira dritto nel suo girovagare multistrato.

Qui non c’è  e non ci saranno i nomi di futuri composti chimici per musica in provetta, nessun motore di ricerca sonica per i motori di ricerca web 4.0 , ma solo una sana alienazione allucinata che viaggia, scruta, viaggia e delinea, e ancora si mette in contrapposizione o allinea ai giochi di una lamina d’urgenza interiore, alle inevitabili scosse malleabili e di bellezza a fior di aria che nei battiti ancestrali della titletrack, tra gli echi scandaglio di “Even if it Rain”, dietro il brivido spennato e assassino “Family” e la sperimentazione minimalista e senza punto d’appoggio gravitazionale “Fragile” amplia e spalanca un terzo occhio su immense morbosità e demarcazioni delle quali ne abbiamo esigenza per staccarci – anche per un lasso di tempo determinato – dal maledetto magnetismo terrestre.

Grazie del passaggio e al prossimo giro d’atmosfera!

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Il Maniscalco Maldestro – …Solo Opere Di Bene

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Odiosi, casinari, massicci, amari e roboanti, in poche parole strabilianti, una di quelle band che sono redditizie per ogni genere di orecchi: lanciatissimi da Volterra tornano Il Maniscalco Maldestro, il groviglio sonico che più di tutti porta a significato il senso delle ottime cose, affogando i minimalismi e le angosce di tanto nerdume intorno in un vortice di imprevedibilità e baldoria precostituita, un ascolto che una volta imbracciato il flusso delle loro canzoni, di redimersi ad altri stili non se ne parla proprio.

Solo Opere Di Bene non è un passaparola fittizio per nascondere una aspettativa di parole secche e pastrocchi non rifiniti, ma un disco esplosivo, scatenante e da corteggiare in quanto è vero, vivo e senza compromessi, una tracklist a “sceneggiate” musicali per una acty-band tra le più promettenti in giro. Deliziosamente squilibrato e fuori, alieno alle mode, il disco dei toscani stampa un caos variegato, uno Zappiano move-it che salta come un indemoniato al cospetto di certi vezzi Caparezziani, e in mezzo le eccitazioni distorte di gole arrossate, tastiere sixsteen, rockettate a taglio, teatralità e poesia  a testa in giù, praticamente tutto quello che può trasmettere energia e simpatia brutale, dopodiché la stravaganza di un modo di concepire musica rifinisce questo magmatico dodici tracce, che più che tracce potremmo decifrarle in piccole esperienze sensoriali senza nessun THC a dare di manforte, a fare da ulteriore spessore “tecnico”.

Autentico bordello organizzato, i IMM sono una efficace quanto artistica quadratura alternative, quella dimensione anarco/jump-inducting che, esaltando le radici di una certa “commedia dell’assurdo”,  riesce a colorare, trasmettere e (ri)trasmettere la condizione del teatro della vita, quei salti,  urli e quadri iconoclastici delle “stanze di vita accanto” che sarebbero tanto piaciute ad un Pasolini se non addirittura ad un Malaparte;  scaffalata nella mente la riproposizione personalizzata di “Nessun Dolore” di Battisti avanza il passo guascone e Gaetaniano di “Briciole”, lo zampettare Gipsy su aria alla Buscaglione “Niente d’Importante”, lo Swing da cartoons che sghembeggia divino in “Confessioni Di Un Italiano Medio” prima del Funk/Ska di “Declino Lento” per terminare la corsa in una murder-ballad “Resto Qui”, sibilo, confessione e coro scorato di un’anima/anime in pena che sigla alla grande questa impazzita scheggia di schiettezza di provincia.

Ce ne fossero! Il nuovo Signor Disco dè Il Maniscalco Maldestro, bello e rischioso come uno zig-zag sulla tangenziale di notte e  senza lampioni.

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Primal Scream – More Light

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Certo, le folgorazioni e le stimmate che Screamadelica ha fatto portare sullo spirito e sulle corporalità di una generazione sonica erano ben altro, ma  – col senno di poi e trasfigurando i Primal Scream in questi primi tredici anni degli anni 00 – quello che si può dire e giurare con mano alzata e che sono la prova vivente di un simbolismo Rock coi contro cazzi, una particolarità importante nella scenografia sterminata del Rock che seguita a bruciare storia e sound al pari di una fiaccola perenne che illumina ancora strade e fisse da percorrere.

Bobby Gillespie e Soci tornano a sonorizzare i nostri giorni con “More Light” sulla distanza quinquennale che lo separa dal precedente (insoddisfacente per molti agguerriti fan) Beautiful Future, e guardando la “gente che affolla” questo album – Kevin Shields, Mark Stewart, David Holmes e, udite udite, Mr. Robert Plant, già viene l’acquolina in bocca circa quello che ci aspetta, ed è una rigenerazione di alto livello, una variazione sul tema che la band si fa carico e ne fa una sequenza di sentimento, lampi e gioia intime che tengono sotto controllo, saldamente, una audizione privilegiata e piena di regali suspance.

Con gli Stones e carature Welleriane in ogni parte del corredo sonoro, i Primal Scream rilanciano sonorità e raffiche di felicitazioni radiofoniche che sono strettamente emozionali, tolgono di molto quell’acido con cui li abbiamo conosciuti e prendono in prestito atmosfere mid-armoniose, con fiati e spruzzi di sandalo orientale che insieme alla psichedelica di base e strani concetti (rispettabilissimi) di una Manchester ancora (virtualmente) in fibrillazione, formano un sound totale fecondo e in certi casi minimale “Elimination Blues”, “Relativity”; ma è la consistenza, la roboanza e l’uso Rock dello spazio intorno che sobbalza al Funk sincopato che sbrana “Culturecide”, il giro noise “Sideman”, la valutazione di un area franca dai ritmi spaccati “Turn Each Other Inside Out” o la stravagante ballata corale e folkly che esce da “It’’s Alright , It’s Ok” a fare di questo disco un bel rientro per questa formazione cha – sfidiamo chiunque a dire il contrario- ancora  è “massa critica e massa distorta”, giovane con i muscoli tonici.

Chi ha arte, la fabbrica e la diffonde non muore mai, Gillespie e Soci sopravviveranno ad Armageddon e crisi di stile, e (meno male) che noi non ci possiamo fare niente!

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Warm Soda – Someone For You

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Un raptus di nostalgia ragionata (o meno) che si slurpa in un fulmine del corpo e della mente? No assolutamente. Magari un schiaffeggiamento  sonoro che esalta memorie nei contesti degli anni zero? Acqua! A sentire Matthew Melton – capo indiscusso degli americani Warm Soda – band del Tennessee e adepta delle scalmane garage-pop d’ultima cotta stile Bay Area Californiana, sono tutte frenesie da sfogare, e , con la classica triangolazione chitarra-basso e batteria, la cricca arriva trafelata con un album molto vivace, Someone For You, un aerobico ed impacchettato disco che richiama ad un primo e irrisoluto ascolto sudori in bilanciamento StrokesBuzzcocks, ma che con l’andare del tempo di ascolto, porta a galla un ottimo mondo proprio che ha egregiamente un buon inizio e una altrettanta ottima fine.

Dodici tracce da spiaggia, solari e ombrose come un pomeriggio di fine agosto, danzerecce quanto vogliamo e che si lasciano contaminare – fragorosamente – da hook da Juke-box e filodiffusione da bar della Costa, ballate, schizofrenie slackers e spumeggianti riff che stanno e fanno stare in perpetuo movimento, con quella simpatia “godereccia” da leoni di un giovedi qualunque e viziosi passeggiatori in cerca di bionde scollate e di facile rimorchio; nelle ultime uscite dell’underground americano c’è un grande ritorno a queste sonorità, a queste “elargizioni” elettrificate che fanno battere i denti a ritmo di una spacciata libertà tutta americanoide e di essere “ad un passo dalla conquista del mondo sotto i piedi”, attecchiscono i refrain adolescenziali e storielle di amori sfigati che si apparentano voluttuosamente ad un Pop-College brufoloso, e non sempre la situazione è sotto controllo.

Per quanto riguarda il versante dalla parte dei nostri Warm Soda, si possono scoprire e intercettare anche piccole chicche tutte Garage che hanno forte espressione nelle isterie punkyes a tripletta “Violent Blue”, “Jeanie Loves Pop”, “Spell Bound”, il vizio Stoogesiano dello sputo Rock “Star Gazer”, “Diamond Ring” e lontane appariscenze glammy con un Marc Bolan che pare rinvenire a fare gli occhi dolci in “Busy Lizzy”; deve arrivare l’aria tronfia di “Lola” a chiudere il tutto, ma non solo, anche a farci decretare che questo disco riesce a creare un’atmosfera magnifica e di sollazzo, con tanti momenti tristi che al suo passaggio scappano mentre delle sopracitate biondone da acchiappo nemmeno l’ombra.

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Pivirama – Fantasy Lane

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Pivirama è il moto sognante della cantautrice siciliana Raffaela Daino è e rimane un personaggio/band ermetico, perennemente incline alla soglia di un mistero quasi ancestrale, eppure piccolo prodigio di peregrinazioni, viatici ed incursioni verso un qualcosa di tattilmente e atmosferico rivolto verso un futuro, comunque un futuro con più diramazioni, che partono da un unico punto focale, la bella fusione di parola e musica.

Fantasy Lane è il numero tre di una immaginazione artistica che sale vertiginosamente per espandersi e stimolare un ascolto “con la testa tra le nuvole ed il cuore zavorrato dentro”, tracce (in italiano e inglese) che integrano alla perfezione quella materia delicata ma anche oscura che è la summa stilistica di cambiamenti e rivoluzioni interiori, voli pindarici ed atterraggi intimi che si travestono da sogni e sensibilità decadente, lo sguardo ed il broncio di una artista che privilegia stare  sopra ai sintetizzatori, sopra un pop screziato, sopra a chitarre e tasti di piano per vedere dall’alto in basso la volontà sospesa della sua melodia trasversale, della sua pigra grazia; con un aura sparuta, ma proprio sparuta semi-cosmica alla Cristina Donà, Pivirama rende esaltanti i suoi stati d’animo, li manipola e colora prevalentemente di colori autunnali, quel senso decelerato di poesia personalissima che scompone e ricompone tra reale ed immaginazione, radenti in cui sguazza e abbina alla scelta sua di farli comunque punti di riferimento stupendi lontani dalla ipercinetica dei tempi che corrono.

Straordinariamente culturale e  – meraviglia – fuori sincrono dalle piste battute dell’indienulla, il disco regge confronti e ascolti plurimi, disco che vede la collaborazione di svariati musicisti incastonati qua e la nella scaletta e anche disco di “attracco” per ulteriori sviluppi creativi e di sostanza; l’offuscato brivido elettrico di “Sick”, la nebbia altolocata che si spande nell’eterea atmosfera francoise “Sonicamente”, il giro rock alla Courtney Love “I am Mine” o le parole di Madre Teresa di Calcutta che stringono il cuore in “Mom Theresa” sono le campionature rapprese di questo effetto sonoro che è Fantasy Lane, arrivo, ripartenza, approdo e di nuovo volo di una bruciante sorpresa che spalanca l’ascolto, sottomettendolo.

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Alice in Chains – The Devil Put Dinosaurs Here

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Quattro anni fa – diciamocelo con chiarezza – Black Gives Way To Blue ci aveva lasciato più che con un amaro in bocca, troppo forte il dislivello creativo e di sollazzo maledetto del dopo Stayley, e ancor più forte lo stordimento mai rappreso della perdita di quest’ultimo, ma ora come per azzittire le numerose illazioni su di loro, gli Alice in Chains al comando di Cantrell ci riprovano con The Devil Put Dinosaurs Here, il disco che – più o meno – ribadisce il lugubre fascino malato delle altre produzioni, anzi con più affondi funerei e malinconici che spaziano come amebe impazzite nelle riappropriazioni delle colorazioni dark del marchio AINC.

Molti – appunto – sono immobili nelle convinzioni e  fanno ancora il paragone estetico e vocale Stayley/William DuVal, ma sono solo quegli attaccamenti umorali di chi non si convince ancora alla sostituzione “forzata”, ma quello che conta è che la formazione rinasca dalle castranti modalità di confronto e seguiti a forgiare una nuova stagione d’oro e di una rinnovata coscienza e questo disco – incastonandolo tra estasi e rinascita – torna ad esprime in grandeur quella esperienza mistico-animistica  del sulfureo, quelle meravigliose e prodighe ombre profonde che sacralizzano l’insacrabile; dodici tracce che hanno lo spirito della notte, psiche ed entusiasmi maestosamente sostanziali sono l’ossatura di un album che porta la band americana ai punti caldi della loro storia, dei loro demoni nascosti e i fantasmi cordofoni della loro arte mefistofelica.
Disco a due mandate, da una parte la discesa negli inferi fumiganti della dissolutezza atmosferica “Pretty Done”, la titletrack, “Phantom Limb”, alcune appartenenze doom Sabbathiane “Stone”, “Hollow”, dall’altra gli strati benevoli dell’appunto “rinascita, quel forte respiro di apertura immacolato come a redimersi verso un paradiso slabbrato “Voices”, “Lab Monkey”, la bellissima ballad “ Scalpel” o l’abbraccio di un sole d’inverno “Choke”; grande armonia e altrettanta voglia di essere presenti, gli AINC sono di nuovo sui sentieri della padronanza sonora, e ancora sulle orme di quel loro insaziabile viaggio ai confini dell’assurdo reale che dell’angoscia,  dell’ossessione e della estenuante necessità di ripetersi nella immaginifica di un non raziocinio, ne scarica il fasto e l’irreversibile cianotica bellezza.

Un marchio che non avrà mai fine!

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Ubba + Riccio – Desmond

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Pezzi di storie personali, scazzi, melodie, albe vissute e una cantina intima su cui riempire sogni ad occhi aperti e occhi da sognatori, è quello che il duo Ubba + Riccio, musicisti in quel di Bologna mettono in questo rubino grossolano di canzoni che racchidono in Desmond, un raffazzonato quanto stupendo squarcio di poesia e canzoni tra bicchieri scolati e anime in preda di libertà che girano sullo stereo come una forza “contraria”, una competizione con l’inerzia che emoziona, che puzza di bello.

Sei tracce che rimangono impresse addosso, non solo per la celebrazione di un lavoro semplice e racchiuso dentro, quanto per l’impeccabilità e la sfrontatezza umana che trasmette, la poetica trasversale che si fa umido prodotto di bassifondi per salire  dritta nello stomaco e darti quella stranissima sensazione di tutt’uno col suono e la parola, e anche se questo lavoro in miniatura non potrà mai stabilire delle nuove regole nell’underground, di certo può regalarti un inno buio di dolcezza e di espressione più che alternativa; Ubba voce/chitarre elettriche e acustiche/dobro e feedback, Riccio batteria/armonica e rumori sono gli eroi di questo notes di suoni che – dopo due stupende rivisitazioni strascicate di “800” e “La Ballata Del Michè” di De Andrè – mettono in atto tutte le tribulations e i punti di riferimento della loro luna creativa, chicche di inquietudini e pensieri ritornati in testa che danno a questo registrato il sentore di un qualcosa che già conta molto.

Il trasporto distorto e noiseizzato “Da Quando mi Stringevi Forte”, i refoli chitarristici della immaginifica “E Venne la Pioggia”, il Folk da saloon, pepite e western di provincia “Old West” e la tenerissima intelaiatura intima della ballata “Nella Sera”, parole, amore strozzato e tutte le dolci e abrasive coordinate di Giorgio Canali, sono il contenuto di uno scrigno impareggiabile di stupore che Ubba+Riccio compensano con una cifra artigianale di livello, un “perfetto armonico” che se non si sta attenti fa bibenda con i tuoi sentimenti per  non restituirteli +.

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