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Tv Lumiere

Written by Live Report

Scena 1: Interno Notte
Introducono il live dei Chaos Physique i Tv Lumiere. Talentuosa band
Ternana che da anni fa parte del circolo virtuoso dell’etichetta indipendente Acid Cobra Records, figlia del buon Amaury Cambuzat, che dei Chaos è voce e mente geniale.

Al di là di un palco fumoso il battito accellera sulle prime note dei
brani di ‘Addio amore mio’, ultimo lavoro che i Tv Lumiere portano in tour da diverse
settimane. Arrivano i brividi quando Federico, il cantante, inizia ad
accarezzare le corde della sua chitarra con l’archetto di un violino, per
dare vita ad una danza a volte lenta a volte convulsa con lontani echi di Ian
Curtis che, come Federico mi confermerà poi, è un riferimento costante della band.
Esplode il cuore con il brano finale, tratto dall’album di esordio ‘Tv Lumiere’.
Un’invocazione e mille evocazioni per una band che negli anni è stata
capace di creare uno stile assolutamente personale, low-fi in modo originale e
non facilmente replicabile.
Non sono animali da palcoscenico, formalmente parlando, i Tv Lumiere.
Performano con lo sguardo fisso sull’orizzonte della quarta parete ma, nonostante questo, quello che la loro musica genera è un flusso di innamoramento reciproco e continuo tra loro e il pubblico che li ascolta.

Non ti guarda Federico mentre canta. Non ammicca, ma cazzo quanto lo senti.

Scendono dal palcoscenico e mi complimento sinceramente con loro.
Bacchettandoli più tardi perchè, nemmeno questa volta, “mi hanno fatto” i Gatti”.

Scena 2_Sempre interno notte:
Il live all’Init.. continua con l’ascesa sul palco di Amaury Cambuzat e i suoi Chaos Pshysique.
Un uomo e musicista geniale, Amaury.. un essere speciale per citare qualcuno più famoso di me.
Sta alla voce e contemporaneamente sbatte sulle tastiere o fa l’amore con la sua chitarra. E’ con tutto il corpo che suona mica solo con le mani. Il caos fisico è tutto concentrato su di lui e sull’energia nervosa che riesce a trasmettere in un mix scellerato di noise punk e buona psichedelia. Progetto interessante e caotico 1975. Etichettato Jestrairecords.Uno di quei progetti che prende la forma di colui che lo plasma con le sue nude mani. Un disco di cui ri-sentirete parlare.

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Margaret Lee – La ballata di Belzebù

Written by Recensioni

Satanasso! Si questo verrebbe da dire se il  disco in questione “La ballata di Belzebù” dell’artista ferrarese Giacomo Marighelli in arte Margaret Lee, si mettesse in moto all’improvviso e senza avviso di cautele; di primo sentore sembra di ravvisare un Samuel Katarro del noise-rock, un pensiero elettrico ed urlato che sfoga attraverso la chitarra elettrica una poetica malata e assai incazzata, teatrale sulle fumisterie di un Carmelo Bene con la spina e luciferina sulle tracce dell’umorismo drammatico sperimentale, non male per chi odia ascoltare qualcosa che faccia pugni e schiuma con le logiche commerciali.
Imbarcato in quest’avventura sonica anche Luca Martelli batterista già al servizio di Giorgio Canali e Rossofuoco, e tutto s’infiamma in dinamiche caotiche, casinistiche, intellettuali,  citazionistiche che – se all’inizio destano sospetti – poi sorprendono e si percorrono a lungo, a fondo, con la bava alla bocca.

E il Diavolo, con la d maiuscola – che   qui si potrebbe imparentare con le follie del Joker psicho-delirante di Heart LedgerIl Cavaliere Oscuro – la fa da padrone o meglio fa il diavolo a quattro lungo le otto tracce che stigmatizzano sprint prog, esigenze punk, acidità ed insofferenze sociali e tutte le maledizioni di un immaginario avviluppato da torpore, scosse epiche e quant’altro; Belzebù t’insegue senza affanno in una corsa aggressiva lungo scale di metallo per catturarti e ghermirti “La ballata di Belzebù”, ma poi a prenderti veramente alle spalle sono le abrasioni di una chitarra elettrica siderurgica “Il nano”, il fiatone ska di “Il pensatore”, tratto liberamente dal Faust di Pessoa, come del resto il poeta portoghese è virtualmente evocato anche nella spennata indie di “L’illusionista” tratta da L’Ora del Diavolo, e dall’ossessione ritmata per le streghe che stanno per arrivare “Le streghe”.

Disco contro, accuse, malaffare, pedofilia, amarezze, apocalissi formato tascabile e noise, noise, noise  per accompagnare l’urlo demoniaco di Lee che fa a pezzi ogni forma-canzone nel senso stretto del termine, uno sbraito  scomposto e veritiero alla CCCP che si ammanta – nel finale – di un velo low-brow che ti entra in corpo come una dannazione inflitta da un’entità dotta quanto malefica “Giuda o la notte della Luna vergine”.
La Ballata di Belzebù di Margaret Lee è un disco nero, e se anche nel deserto più deserto la sua azione si perde nella sabbia, la sua ombra sopravvive per sempre, alla faccia di chi ama la luce.

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Shinin’ Shade – Slowmosheen

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Non si finisce mai di scovare grandiose band, l’ Italia è piena di strepitosi gruppi che hanno tanta voglia di mostrare le proprie qualità. E’ il caso degli Shinin’ Shade che pubblicano sotto Moonlight Records il loro EP “Slowmosheen”. Anzitutto vorrei partire dall’ etichetta, la Moonlight Records appunto, che predispone di un particolare rooster che farà gola a tutti gli amanti del Doom, dello Stoner e della musica sperimentale. Dando un occhiata sul loro sito, diverse sono le band che hanno una certa attrazione e proprio per questo un occhiata al sito della label è obbligatorio. Gli Shinin’ Shade   come abbiamo già accennato fanno parte di questa etichetta, e tramite questa sfornano l’ EP “Slowmosheen”, ovvero un dischetto di quattro tracce che mette in mostra l’ affascinante Stoner Rock  miscelato ad un acido suono Psichedelico degno degli anni 70. Non per altro, i sei ragazzi sono riusciti a tenere su un bellissimo spettacolo insieme a band come gli Electric Wizard e i nostrani Doomraiser. “Slowmosheen” è un disco dalle mille sfaccettature, suonato in maniera magistrale e strutturato su livelli lenti-aggressivi. Il disco per esser concreti ha materiale a sufficienza per tirare le somme e vedere di che pasta sono fatti gli Shinin’ Shade e senza alcun dubbio hanno talento da vendere. Se vi piace lo Stoner e la Psichedelica non potete farvi scappare “Slowmosheen”, è un EP di buona qualità, perderselo sarebbe davvero un peccato.

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“Diamonds Vintage” Rino Gaetano – Mio fratello è figlio unico

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Negli anni settanta, la rivoluzione culturale era all’apice del suo fuoco, chi era “normale” veniva additato matusa o borghese, tutto era il contrario di tutto, nulla doveva andare –  quasi –  secondo logica, il vero dritto era il rovescio, insomma un capovolgimento a novanta gradi di tutto quello che la società benpensante voleva e comandava.

Il cantautore crotonese Rino Gaetano era una delle personalità più originali nel panorama musicale degli ultimi anni ’70, appunto epoca contraddittoria che in pochi hanno saputo tratteggiare nelle canzoni con medesimi spirito caustico e freschezza di linguaggio. Aveva esordito con lo pseudonimo di Kammurabi’s sotto il quale nel 1972 pubblica il suo primo 45 giri “ I love you, Marianna”, e che abbandona in occasione del primo album, “Ingresso libero” del 1974 sotto il marchio It. Ma è un debutto che passa inosservato, al contrario di Ma il cielo è sempre più blu, una trascinante e sarcastica dichiarazione d’ottimismo che vola nei piani alti delle classifiche del 1975. Ma è con il secondo album “Mio fratello è figlio unico” che il nome di Rino Gaetano è catturato interamente dalle attenzioni di pubblico e critica, tanto da diventare un inno, uno stile di vita, contro le contraddizioni e le falsità del governo e dell’andazzo di potere. Brani, canzoni che impongono il cantautore come uno dei più inclassificabili talenti della nuova canzone d’autore.

Un cantautorato nel quale Gaetano sciorina, prende in giro e giostra tic, manie, luoghi comuni e personaggi famosi dell’epoca, otto canzoni fok-pop, tra le quali le notissime “Berta filava” e la titletrack, la surreale “Sfiorivano le viole”, l’immigrazione del Sud al Nord vista attraverso “Cogli la mia rosa d’amore”, un amore che arriva in treno “Al compleanno di zia Rosina” e lo stupendo minuetto folk filastroccato di “La zappa, il tridente………” che strapazza le pubblicità e i modi imposti dal sistema e dalle produzioni di massa; un ragazzo arrivato dal Sud, passato per il Folk Studio fino al palco dell’Ariston Sanremese sul quale si presenterà con una dissacrante esibizione con tanto di frac e cilindro, un uomo pieno d’intuizioni e idee scoppiettanti che finiranno maledettamente, a trentun anni, in un 2 giugno 1981, ucciso in un incidente automobilistico.

Grande la sua lezione di vita a tutto tondo ed il suo sorriso che tuttora benedice di rincuoramento il mondo della musica con l’indimenticabile e sempre attuale “.. mio fratello è figlio unico perché è convinto  che Chinaglia non può passare al Frosinone, perché è convinto che nell’amaro Benedettino non sta il segreto della felicità, perché è convinto che anche chi non legge Freud può vivere cent’annie ti amo Mario o o o o”.

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ZEN CIRCUS, BUSKING A TORINO

Written by Live Report

Tutto ebbe inizio con un loro pezzo ascoltato nella compilation del 2009 “Il Paese è Reale”, idea di Manuel Agnelli per promuovere con il consolidato marchio Afterhours un po’ di realtà del nostro stivale. Degno di nota, per carità. Però in quell’album la traccia 13 (insieme a molte altre a dire la verità) la mandavo sempre avanti.
La trovavo fine a se stessa. Catastrofica e poco significativa per il mio ego musicale e per il mio spirito. Insomma, non assolutamente fastidiosa come il brano degli Zu, ma decisamente insapore. O meglio ardentemente desideravo fosse insapore. Ma tutte le dannatissime volte che mi dimenticavo di mandarla avanti, mi infastidiva un po’. Non mi scorreva addosso come l’acqua della doccia, non mi entrava e usciva dalle orecchie senza ostacoli come la parentesi sulla Formula 1 al telegiornale. Con quella frase all’inizio che distrugge la poca educazione religiosa che ti rimane dal catechismo: “La storia ce lo insegna che se Dio esiste è un coglione”. Con quel riff così sporco e quella cattiveria così gratuita e arrogante.

Qualche anno dopo (ovvero pochi mesi fa) grazie al web social approccio per curiosità un manciato di brani degli Zen Circus e scopro di provare per loro la sensazione che già ho provato la prima volta che ho visto un film di David Lynch: estremo, razionalmente non mi rappresenta, senza freni, ma divarico appena le dita delle mani che mi coprono gli occhi e faccio entrare questa oscura magia dentro di me. La differenza ora però è semplice. Mentre Lynch è reale solo nel suo (e forse anche un po’ nel mio) strampalato cervello, gli Zen Circus sono reali nei palazzi di periferia, nella disoccupazione, nella bestemmia, nello spietata lotta al qualunquismo, in questo baraccone di falsi eroi, nell’Italia di Berlusconi (che non mi pare proprio sia finita). Insomma sono reali nella truce quotidianità. Oscuri più di Lynch, perché il loro buio lo vedi tutti i giorni in giro e non solo nel tuo malato cervello, ma i nostri pisani ci ridono sopra sarcasticamente e l’oscuro lo fanno cantare con le loro canzonette. Pazzesco.
Insomma, di tutti i 19 artisti scelti da Agnelli e soci, scopro che questi sono sicuramente i più “reali”. E alla fine vinco le mie stupide tare mentali e me li faccio piacere, fino ad adorarli proprio! Amo contraddirmi in questi casi, anche se non amo ammetterlo.

Pochi mesi dopo mi ritrovo ad uno loro concerto, a Spazio 211 a Torino. E’ il mio primo concerto degli Zen Circus e pare per giunta essere un live molto acustico (il tour è stradaiolo, ha l’inconfondibile sapore del tintinnio della moneta nella custodia della chitarra, tant’è che porta l’inequivocabile nome: “Busking Tour”). L’acustico si sa è la prova del nove, dove emergono le magagne spesso coperte dal baccano elettrico e la scarnificazione della canzone puo’ a volte riservare spiacevoli sorprese.
Sono dunque un poco scettico, continuo a far valere il mio testardo pregiudizio, guardando lo stage con occhio critico prima dell’arrivo dei ragazzi. Anche perché ad aprire la serata c’è il cantautore torinese Stefano Amen, che non mi convince molto né per l’andamento stanco del suo moderno cantautorato, né per il piglio troppo profetico, che non si addice troppo alla serata circense che si aspetta.
Ma dopo un brevissimo cambio palco, tre magri ometti salgono sul piccolo stage dello Spazio 211 di Torino e risultato? Mi becco un bel “vaffanculo”, che si sa i ragazzacci pisani non hanno alcuna remora a invitarti a visitare luoghi poco profumati. Perché citando proprio un loro verso: “A chi critica, valuta, elogia, figli di troppo o di madre noiosa”. E siccome io non mi sento nè di troppo (dato che sono primogenito) nè di madre noiosa, capisco il mio errore e la smetto subito, mi limito dunque a raccontare.

Con “Atto secondo” si aprono le danze, la potenza è impressionante. Una bizzarra formazione (ma in generale, non solo in questo live direi) con Appino e Ufo sempre appiccicati ai loro legnetti acustici e Karim picchiatore di cartoni dell’Ikea e innaffiatoio (notare innaffiatoio come tom, non ho captato la differenza con le pelli finché non ho visto il beccuccio verde dell’irrigatore in plastica), un vortice di elettricità che vibra dalla purezza del legno (e della cartone e della plastica), distorta dai loro tocchi violenti, incazzati. Si, perché gli Zen Circus possono suonare pure il triangolo e gli xilofoni, ma rimangono la band più incazzata d’Italia. E non c’è volume e distorsione che tenga.
Il gruppo scherza tra un’accordatura e l’altra manco fosse in garage con quattro amici di vecchia data, i tre pisani sembrano meno incazzati quando se la ghignano tra di loro insultandosi a vicenda senza mezze misure. Poco professionale, ma molto sincero.
La prima parte di scaletta scivola via e incanala un classicone dietro l’altro. Si passa da “Ventenni” a “Gente di Merda” (in acustico ora mi piace quasi e non perde il tiro del riff incalzante), da “Figlio di Puttana” a “L’amorale”. Il pubblico del piccolo club torinese è calorosissimo e scatena ad ogni pezzo un tripudio di sfogo e di liberazione.
Se andiamo a guardare bassi tecnicismi, la band dimostra di sapere suonare, come per me si suona dal vivo il rock’n’roll: sudore e nervi. Lo si nota bene nella cavalcata finale di “Andate tutti affanculo”, vera e sanguigna, anzi sanguinolenta. Perché gli Zen sanno fare male con le loro affilate parole, mai troppo forbite e mai troppo banali. Hanno la schiettezza di saper utlizzare il sarcasmo nel degrado, pochi scrupoli di coscienza insomma, pochi come ce li facciamo con i nostri amici stretti nel parlare del più e del meno. E questo li rende pazzescamente reali.

A metà concerto Karim, vero showman della band, imbraga un’improbabile asse metallico (un’asse di una sedia?) e, spiattellandoci sopra le sue manone impreziosite di anellazzi, genera groove, arte in cui il pirata toscano pare essere ben dotato. Qui si intonano un paio di canzoni (per intenditori) da “Villa Inferno” e infine “Ragazzo Eroe”, e si scatena un bel pogo stile “anni 90”. Tempo per Karim di ritornare alle pelli (e cartoni e plastiche) che Appino fa cadere neve e stelle comete (e forse anche qualche santo) dal soffitto dello Spazio 211 con “Canzone di Natale”. Anche qui il Circo apre una parentesi cabarettistica scherzando sull’incarcerazione dello spaccino Abdul ma “tranquilli con l’indulto tra poco lo tirano fuori”, ci dice Ufo con il suo buffonissimo accento toscanaccio.
Un attimo di “snobbismo”, un baleno di dieci secondi, in cui la band fa la finta, esce ma rientra subito per gli ultimi pezzi. “Milanesi al Mare” è perfetta in questa versione da strada e non perde affatto lo spirito sixties, un bel boogie per affondare il macigno dei pensieri in questo tragicomico scenario.
Poi accade ciò’ che da un lato speravo, la ciliegina sulla torta che rende questo spettacolo uno dei più veri e onesti che io abbia mai visto. Gli Zen Circus scendono dal palchetto del locale con basso e chitarra acustici e un cajon di cartone (proprio acustici qua, senza neanche l’impianto) e si mettono a strimpellare “Ragazza Eroina” in mezzo a noi. Ma la cosa incredibilmente vera è un’altra e la noto davanti ai miei occhi. Appino pesta il piede di un ragazzo dietro, smette di cantare e chiede scusa.
Gli antieroi sono loro. Talmente vicini e onesti che non potresti mai pensare che oggi siano i migliori sulla piazza. Ma non esageriamo con gli elogi se no “affanculo” mi ci rimandano per la seconda volta.

 

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Michele Di Toro – Echolocation

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Recensire un disco strumentale e suonato interamente al piano potrebbe risultare a volte difficile.
Tuttavia qui la musica è talmente dolce e delicata che evoca il lento sorgere dell’alba, la leggera brezza mattutina che accarezza il volto, ma può far anche pensare al rumore delle foglie in un bosco.
Sembra già di intravedere l’erba ed i fiori che si adagiano e risorgono al leggero vento primaverile…
Una primavera imminente e una luce immensa che ci ricordano il lento ritmo che è talvolta interrotto da lunghe accelerazioni evocanti l’impassiva entrata di ricordi passati che caricano un animo sensibile (ma non per forza fragile) in attesa di un futuro di gioia e di felicità.

Quello di Di Toro è un talento naturale, che gli ha già fruttato molte soddisfazioni, come le esibizioni al prestigioso Blue Note di Milano e alla Settimana Mozartiana di Chieti e persino collaborazioni insolite quali quella con l’artista Maria Elena Carulli.
Nel disco non mancano tuttavia le sperimentazioni sonore, molto differenti da quelle effettuate negli anni ottanta da Steven Brown dei Tuxedomoon, ma altrettanto emozionanti, nonostante anche la diversità dei generi proposti dagli artisti.
Come scritto nel foglietto accluso al compact disc questo lavoro “è una somma di istinto e preparazione”, composto da tredici tracce totalmente arrangiate in sala prove e improvvisate al momento della registrazione avvenuta presso gli studi della Protosound il 4 aprile 2011 sotto l’orecchio sempre attento e tendente alla perfezione dell’ingegnere del suono Domenico Pulsinelli.
“Echolocation” è interamente prodotto da Paolo Tocco e Giulio Berghella (fondatori della Protosound Polyproject e della Volume! Records).
E’ ora che l’Abruzzo musicale emerga anche a livello nazionale, e perché no, anche mondiale, e questo disco può essere l’esatto punto di partenza verso mete inimmaginabili in passato.

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NoMoreSpeech | NoMoreSpeech

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Attendevo con Anzia questo disco d’ esordio dei NoMoreSpeech; sentivo parlare tantissimo di loro, vuoi perché l’affascinante cantate, Alteria, è una conduttrice di Rock TV, vuoi perché due anni fa vinsero con il singolo “Picture Of Gold” il contest per l’ Heineken Jammin’ Festival,  l’ acclamato quartetto nel bene o nel male si è comunque messo sulla bocca di molti suscitando cosi una certa curiosità.

Adesso esordiscono ufficialmente con un omonimo che ha tutte le carte in regola per rivelarsi uno dei lavori migliori tra le band Underground.  Il disco è un concentrato di Rock basato su massicci e veloci riff, un pulsante basso ed una batteria che mantiene un eccezionale ritmo; a tutto questo aggiungeteci  la voce rivelazione di Alteria, che riesce a passare da un cantato in screaming ad uno più candido e pulito. I NoMoreSpeech sono molto probabilmente l’ anello di congiunzione tra i Distillers, Juliette Lewis e gli Arch Enemy, questo per dirvi che nel loro nuovo disco trovate di tutto: rabbia, aggressività ma anche sensualità e dolcezza . Tracce che sicuramente faranno gola oltre al famoso singolo “Picture Of Gold” , sono:  “Think Or Feel”, “Stronger”, “Screaming For Nothing” e la stramba “Void”, in quest’ ultima si comprende di che pasta è fatta Alteria, a parer di chi scrive è la song che più mette in mostra le qualità della singer. Il gruppo milanese ad ogni modo ha ottime capacità, ci siamo soffermati  su Alteria ma dobbiamo riconoscere anche la bravura di Tony, Nando e Roberto.  I NoMoreSpeech hanno grandi potenzialità, il loro primo capitolo è riuscito alla grande, non resta che gustarselo, sperando nel frattempo, ad un secondo lavoro che ci faccia Rockeggiare come questo.

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Paolo Andreoni & Bussuku Bang!– Un nome che sia vento

Written by Recensioni

Cantautorato fine, musiche aperte e senza presunzioni, Africa e notti perplesse, esistenze e desideri da afferrare al volo; questo è il chiaro concetto ed il succo del nostro incontro con il nuovo disco del cantautore bergamasco Paolo Andreoni, “Un nome che sia vento”, undici immaginazioni che – per non farsi sgamare – prendono strade diverse, si colorano di mille polverine e si traducono in un fremito che sposta il torpore per far posto ad un ascolto buonaccio.
E’ un registrato diretto, fedele alla nobile tradizione del “volare via con suoni e poesia”, di storie e parole importanti che esprimono idee e calori dreaming veri e virtuali;  si assiste – nonostante tutto – ad un girare musicalmente a random, alla ricerca di una vera identità stilistica, ma mettiamola pure sul conto che sia un girovagare a ricognizione su terreni dove finalmente atterrare e tirar su casa (come direbbe Roberto Ciotti), poi il destino tirerà somme e linee.

Disco di ballate agre sulle ombre liriche di Tenco e Lauzi,Dimentica”, “L’ultima parola”, “Il concerto”, la nuvoletta di passaggio targata 80’s che rilascia atmosfere wave alla GarboAmore, amore, amore”, “Dal carcere”, il pregevole macramè di corde e pathos De AndrèianoUn nome che sia vento”, ottimo il fil rouge acustico che lega mediterraneità, blues piccanti e lidi “calienti” “Sol maior para comandante”, ma il gioiellino che evidenziamo in finale è quello che poi capeggia in cima alla tracklist, sono quei settantatrè secondi di “La rèbellion”,  che ci scaraventano nel deserto del Mali, tra il blues sciamanico di Terakaft, Alì Farka Tourè e Sissoko e che per un battito di ciglia ci stordiscono e “tradiscono” circa la vera vena del disco in generale.

Ad ogni buon tornaconto un prodotto normale, c’è ancora molto da centrare come mira, buona la tecnica di Andreoni e del resto della band, per il momento facciamo andare un altro giro di repeat e proviamo a vedere nel futuro di quest’artista che ci ha fatto fare un piccolissimo tour sonoro – pur restando seduti sul divano –  in lontananza e nelle zone periferiche delle “musiche grandi” che stanno più in la.       

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La Nuova Onda dei Diaframma

Written by Live Report

Un amico che suona per i suoi amici.
Si potrebbe descrivere così il concerto di Federico Fiumani, leader dei Diaframma, tenutosi il giorno 2 Marzo presso il locale Riunione di Condominio.
La stanza qualunque di una casa qualunque, un palchetto minuscolo, e un live da brividi per una delle figure di riferimento della cosiddetta New Wave Italiana anni 80, in particolare quella Fiorentina che vede in prima linea anche i Litfiba di Desaparecido e i Neon.

Un genere curioso la New Wave, che negli anni ha avuto evoluzioni complesse, contaminazioni continue e nuove ispirazioni.
L’onda di Fiumani oggi si chiama “Niente di serio” nuovo disco in promozione questi giorni.
E Federico, Venerdi sera, sembrava aver davvero voglia di “niente di serio”: Ha scherzato con il suo pubblico, spesso si interrompeva per fare una battuta, a volte dimenticava le parole.
Ma i suoi fan, gli affezionati, lo amano proprio per questo.
Perché Fiumani, nonostante tutto, è rimasto un Puro. Perché Fiumani quando finisce il concerto il palco se lo smonta da solo, si rimette la sua giacca a vento e senza troppo clamore si mischia tra la folla come se fosse esattamente uno di loro.
Lontano dal glam del pubblico di massa, quello a cui negli anni si sono più avvicinati gli eterni rivali dell’epoca, i Litfiba, Fiumani se gli stai simpatico il nuovo disco te lo regala pure.
Io mi sono avvicinata per fargli alcune domande e tra l altre cose, abbiamo parlato di che senso abbia parlare di new wave oggi.
Siamo giunti insieme alla conclusione che, come per altre forme d’arte, qualsiasi etichetta è giusto un elemento funzionale a categorizzare una mole di materiale altrimenti non codificabile.
Federico è un puro ma è tollerante: Non giudica male gli artisti che si avvicinano ai circuiti Mainstream, così come non critica il compromesso artistico, se fatto bene.
Mi dice che secondo lui “L’artista deve essere sempre infedele” perché lo scopo dell’arte è mettersi continuamente in discussione. Mi dice di no anche quando, un po’ faziosa, gli chiedo se i MK, andando a S. Remo, si sono sputtanati.
Io a questo Fiumani già gli voglio un poco bene.

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Gentless3 + La Moncada – In The Kennel Vol.1

Written by Recensioni

Nel canile. O nella cuccia, a seconda della traduzione che preferite.
Non più il concetto di underground della musica emergente suonata in cantina, con quel retrogusto di orgogliosa ribellione al panorama mainstream o a quello indipendente delle comunque grandi distribuzioni, bensì un sapore amarognolo di emarginazione, di sottomissione e abbandono.
Sembra questa l’idea portata avanti dal trittico Noja Recordings, Blue Record Studio e Goat Man Records: un progetto di registrazione, promozione e distribuzione lontanissimo dagli stilemi del mercato.
“In The Kennel”, infatti, è tanto lontano dal marketing che non mira a lanciare una band in particolare, ma promuove la sinergia tra realtà musicali diverse, di tutta la penisola, chiamate a collaborare per la realizzazione di un riarrangiamento vicendevole dei loro brani.
Il primo volume di “In The Kennel” vede protagonisti i siciliani Gentless3, con le loro sonorità crepuscolari, se non addirittura notture, quasi oniriche, sospinte dall’organo e dal piano, e il post-rock più tradizionale dei piemontesi La Moncada.
Ok. Messa così sembra una manovra kamikaze dal punto di vista economico e anche artistico, visto che il risultato finale non sembra permetterci di capire nulla né di una band, né dell’altra.
Eppure ce n’è d’avanzo di pregio artistico nella capacità sinergica di mettersi in gioco e tirare fuori quattro tracce, due in italiano e due in inglese, omogenee per stile e intenzione, per riferimenti e sonorità.

Certo, bisogna dire che la buona volontà e la compattezza stilistica non sono gli unici aspetti che possono essere considerati. “In the kennel”, purtroppo, manca di verve, non ha presa.
“Rabbia killer”, in apertura, è decisamente più mesta di quanto il titolo possa far pensare, tutta incentrata su melodie ariose, tanto delle chitarre quanto del piano, e patisce la mancanza di una vera e propria apertura: il pezzo sta lì, non si muove mai dalle sensazioni placide dei primi secondi d’ascolto.
“Murmur”, non si discosta molto dalla precedente, ma, sarà per l’inglese, sarà per una cura più attenta a piccole note di colore, è caratterizzata da un’atmosfera più densa che trascina l’ascoltatore.
Non mi sento decisamente di dire lo stesso di “I numeri”: troppo già sentita, troppo permeata di quel gusto tipicamente nostrano per la rima e per il testo impegnato e programmaticamente polemico. Non si distingue per niente in particolare e, anzi, marca veramente una brusca caduta qualitativa nella raccolta.
Riuscita, invece, è “On busting the sound barrier”. Una bella cassa cardiaca e ipnotica, le chitarre emergono con elegante prepotenza, con un giro ripetitivo e dissonante che ci culla sulla voce roca e slittata in secondo piano, cui se ne aggiunge una seconda, parlata, sul finale: non romperà la barriera del suono, ma è un brano ben costruito, molto elaborato e decisamente pregevole per la cura effettistica.
Il progetto “In The Kennel”, per la sua originalità e per il grande merito di mettere in contatto e far reinventare artisti tanto diversi tra loro, è assolutamente rispettabile. C’è da sperare, però, che la seconda uscita, cui lavoreranno il duo Mombu e il cantautore Paolo Spaccamonti, sappia partorire qualcosa di più originale e soprattutto di più coinvolgente.

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Sea + Air – My Heart’s Sick Chord

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Daniel ed Eleni Benjamin, lui tedesco che canta e suona chitarra, batteria, campane e piatti ma non sa leggere la musica, lei greca,  voce e suona clavicembalo, batteria, organo bass pedal, sono compagni di vita e d’arte riuniti sotto il moniker “naturalistico” di Sea + Air e  arrivano al fatidico esordio con l’album “My heart’s sick chord” come fossero calati dentro una bolla di vetro, fauni di un folk-pop arieggiato, un cantautorato silvestre e boschivo che rammenta gli Arborea dei tempi migliori e gli afflati espansi degli Appalachi, ma anche una certa agevolezza sperimentale rock messa a confronto con liscive Seventies teutoniche (Popol Vuh) e stranezze  sfaccettate alla Flaming Lips; tredici tracce che movimentano un album suonato con quattro/cinque strumenti e che mette al centro anche un amore per il barocchismo Bachiano, il clavicembalo e artifici cromati abbaglianti.

Però come in tutte le cose, “il troppo stroppia”, troppa carne messa sul fuoco a cuocere, molte strade sonore che fanno perdere l’equilibrio stilistico dell’ascolto e che generano un complessivo musicale che corre subito via, che si dimentica facilmente e senza lasciare una traccia indelebile nella memoria; un disco che raccoglie movimenti orchestrali congelati dal tempo, coperti sì da una coperta tenera e morbida, ma che non hanno una precisa identità, caratteristica o tic contagiosi che li faccia fermare e rintracciare dal tasto repeat. Pop, sinfonismi, forme canzoni alla Ghostla titletrack”, i citati ArboreaMercy street”, “Safe from harm” il pop versato alla Sting “The sea after a storm”, “Do animal cry? , i sintomi elettrici dei Flaming LipsYeah I know” e quelle tubolarità soft ottime per spot pubblicitari di dolcezze o affini “Ist life”.

Il duo di Stoccarda degli Sea + Air iniziano bene questo loro primo progetto ma poi si perdono in mille rivoli, nelle mille intrecciate arterie che non fanno altro che confondere il vero intento della loro prestanza sonica, forse è la necessità di dare tutto e subito, ma facendo così Mare + Aria non hanno mai fatto = Fuoco. 

Un disco a metà aspettando tempi migliori.

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Rossella Scarano – Guardando Fuori

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C’è poco da fare, buttiamo pure in pattumiera l’immagine del cantautore barbuto, pieno di banali vizi (ma che addosso a lui fanno stile), seduto sulla sua sgangherata sedia di paglia e con in mano una ancora più sgangherata chitarra acustica. Dimentichiamoci la figura della cantante con il vestito lungo e stretto con addosso l’ancora più stretto ruolo di interprete. Tutte a dar voce a poeti maledetti ispirati da troppo Lambrusco o da troppo sapore di mare.

Basta. In Italia, oggi (più di ieri), le donne scrivono canzoni, e hanno le palle di andare su un palco con chitarra legata con lo spago e magari anche un bel tacco dodici. La canzone italiana è sexy. E ci piovono addosso dolci pulzelle che sanno parlare dei loro sentimenti a cuore aperto, tenendo testa ai vari cantastorie di periferia, persi tra troppe letture del Manifesto e troppo tabacco che straborda da piccole sigarette girate.
Tra le tante “nuove proposte”, ho recentemente scoperto Erica Mou (l’unica ad avermi realmente stupito a Sanremo 2012), Elisa Casile (dalle terre astigiane) e la fanciulla in questione: Rossella Scarano.
Rossella ha origini napoletane ed è alla sua prima vera fatica discografica. Uscito da poche settimane “Guardando Fuori” pare stia riscuotendo già un buon successo.

La menestrella infatti sa sedurre, bilanciando bene questo suo charme tra poesia e chitarre elettriche, tra parole crude e soffici carezze, tra ugole d’oltreoceano (Ani DiFranco su tutte) e strade già più volte battute da maestre come Paola Turci e Cristina Donà.
“Tu chiamale se vuoi, emozioni” si diceva. Grande dote ha la fanciulla, la melodia segue sempre per filo e per segno il mood delle canzoni. Rossella è grande domatrice di voce e di sentimenti e riesce a governare con grande maestria questi due cavalli irrequieti. Forte e determinata sul soffice substrato musicale de “La cattiveria”, qui la canzone fa male tanto è schietta. E poi introspettiva e intesa nella title track: “Guardando Fuori” ci accorgiamo che tutto è leggero, e il peso relativo del macigno che ci portiamo dentro aumenta un pochino.

I cavalli però partono un po’ per la tangente quando la loro domatrice azzarda spunti più rockeggianti come nella filosofeggiante “Friedrich” (ispirata alla “Genealogia della Morale” di Nietzsche). Qui l’inglese rabbioso pare una forzatura e non si sposa troppo con le sue dolci parvenze. Il cambio di lingua si rivaluta poco dopo nella inaspettata ballata “Insensitive” che si barcamena tra melodia strappamutante (ricorda in alcuni tratti le grandi hit al pianoforte di Adele) e un allegro jazz da film di Charlie Chaplin.

Il sipario poi si chiude con la cover chitarra e voce di “Glory Box” dei Portishead, completamente spogliata dell’alone trip-hop e prepotentemente intensificata nella melodia.
Dirò una banalità, ma per me il primo teorema del pop è: spoglia una canzone di tutto, se è ancora meravigliosa è una grande canzone pop. Insieme a questo ultimo episodio in cui Rossella ha giocato facile, in questo album le canzoni sono molto spesso nude e crude, prive di inutili abbellimenti e soddisfano così pienamente il primo teorema.
Cari maschietti, la quota rosa sta aumentando. Sfregatevi per bene la barba e cercate nella salsedine o in nuovi inserti del Manifesto qualche idea che non sia la solita agonizzante minestra riscaldata di De Gregori, Guccini e Rino Gaetano.

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