A cinque anni dal debutto e dopo la svolta cinematografica, l’artista londinese torna con un album che è la colonna sonora della propria giovinezza.
[10.10.2025 | untitled (recs) | art pop, progressive pop, chamber music]
C’era una volta… sul Montello
La nostalgia della mia infanzia è legata al luogo, al mio luogo natio: stretto tra le acque tumultuose del Piave e il bosco del Montello, che in primavera si veste di spose bianche. Nelle mattine d’autunno, veli di nebbia si sfilacciano lenti tra campi brulli e filari, mentre i capannoni industriali dormono grigi, ricoperti d’edera come golem di pietra senza vitalità.
L’abbandono, allora, era un rito d’iniziazione. Le prime esplorazioni dentro quegli stabilimenti in rovina, le corse nelle ville deserte dove il tempo si era fermato, il brivido di un segreto condiviso: oggetti di una vita passata, non tua. Anche la mia scuola media aveva quel colore bigio, rifletteva quell’uomo: pareti austere, geometrie dure, fredde come i giorni di pioggia in cui non vedevi l’ora di crescere. E, crescendo, hai perso cari e coetanei, senza poter governare il tempo né la vita che fagocita ogni analisi interiore, ogni pensiero, ogni emozione.
Gli amici? Amici che ora non vedo più, svaniti nel nulla per mie o per loro volontà. Non perché siano lontani, ma perché le circostanze hanno logorato i rapporti – rotti intensamente o esauriti come una candela, aspettando solo quel momento per soffiare la sua fine. Ognuno ha scelto la propria fuga dall’adolescenza, annaspando nella monotonia affettiva e lavorativa: a quel punto le cose in comune sono evaporate, e le divergenze sono lentamente emerse.
Io me ne sono andato per capire se, fuori dal mio piccolo mondo antico, potevo cavarmela senza le spalle grosse dei miei genitori. E, con umiltà, credo di avercela fatta. Sono tornato con la consapevolezza di valere qualcosa, di potermi reggere da solo anche lontano dalla mia vita provinciale, di poter rialzarmi anche se continuerò a cadere.

Una genesi lunga cinque anni.
Stavo guardando un video di René su YouTube, non ricordo quale in particolare (ma consiglio di vederli tutti!), nel quale spiegava come certe architetture e strutture specifiche nella musica possano incarnare il romanticismo, la malinconia, la tristezza oppure l’eroismo e la minaccia, in ogni film. Vedendo questo, non potevo fare a meno di pensare a quanto cinematico suoni Once Upon a Time… in Shropshire, il nuovo – e secondo – disco di Jerskin Fendrix.
La genesi del disco risale infatti a cinque anni fa, subito dopo l’uscita del debutto Winterreise (2020), e si porta dietro il respiro di un percorso che attraversa il cinema e la memoria personale, tra tragedia e commedia. Ma da dove arriva il Nostro?
Jerskin Fendrix nasce nel fermento dell’underground londinese come membro dei Famous (dove suonava anche Tiernan dei deathcrash), band che fondeva post-punk ed elettronica in modo volutamente caotico. Brani come Surf’s Up! alternano interruzioni improvvise a synth fuori controllo e arrangiamenti eccentrici, mentre nell’EP The Valley (2021), nel quale Fendrix figura soltanto come collaboratore, pezzi come Stars mostrano già quell’ironia frammentata che diventerà la sua firma.
L’esordio da solista è un concept album che trasforma la rottura amorosa in un viaggio sonoro. Come racconta lo stesso artista, l’album spazia “dal piano barocco al massimalismo pop elettronico, dalla PC Music di A.G. Cook a Leonard Cohen, fino ai rumori cosmici”. La mutante Manhattan alterna pianoforte e synth noir, Onigiri gioca con l’hyperpop e testi surreali, mentre A Star Is Born si muove nel deconstructed club culminando in un crescendo sfacciatamente pop. Qui Fendrix codifica la sua estetica fatta di teatralità, ironia e vulnerabilità.
La svolta cinematografica.
Nel 2023 arriva la svolta cinematografica con Poor Things, la colonna sonora per il film di Yorgos Lanthimos: orchestrazioni barocche, temi che si deformano come lo stato mentale della protagonista. Brani come Bella, Weee e Mother of God fondono delicatezza infantile e inquietudine, mentre I Just Hope She’s Alright e London mostrano la sua capacità di narrare emozioni attraverso timbri e dinamiche. Con la colonna sonora di Kinds of Kindness (2024), Fendrix depura la forma: pianoforte e coro diventano strumenti ascetici in un suono da messa laica, con il tema ricorrente di Hymn a segnare un minimalismo sacrale.
Once Upon a Time… In Shropshire segna una nuova tappa nel suo percorso, il culmine di una parabola che va dal deconstructed dissacrante degli esordi alla piena maturità compositiva. È un disco che fonde progressive rock, chamber pop e folk, attraversato da un tono elegiaco ma intriso di humour nero. Ambientato nella campagna dello Shropshire e ispirato ai lutti di un amico d’infanzia e, più recentemente, del padre, l’album alterna ballate commoventi e momenti di ironia corrosiva, costruendo un racconto sulla perdita e sulla memoria che è insieme intimo, malinconico e teatrale.
Il disco si apre con Beth’s Farm, una ballata che intreccia piano, violino e armonie sintetiche giocose per dipingere un’infanzia idilliaca, evoluzione dei motivi dedicati a Bella in Poor Things. Il ritornello – “Nobody dies on Beth’s Farm!” – incrina però questa serenità, lasciando affiorare una bugia tragica: l’ingenuità come rifugio fragile di fronte al dolore.
Con Princess e Sk1 si spezza la quiete bucolica con esplosioni elettroniche e chitarre distorte: residui della furia sperimentale degli inizi. La seconda in particolare sembra aprire un territorio che resta solo accennato e avrebbe meritato maggiore sviluppo.
Shropshire come luogo dell’anima.
L’esperienza cinematografica di Fendrix emerge negli arrangiamenti orchestrali di grande respiro – archi, cori, fiati – che convivono con l’immediatezza del songwriting pop folk. Episodi come Mom and Dad, con il suo tono fiabesco che ricorda le OST di Danny Elfman, o The Universe, dalle atmosfere cupe e malinconiche che rimandano a The Final Cut di Roger Waters. Allo stesso modo, King Lear (già in Kinds of Kindness) e Last Night in Shropshire chiudono il ciclo con una drammaticità struggente e rappresentano il lato più cinematografico dell’autore.
Sono anche i pezzi più lunghi e intensi, che rischiano di sfiorare la prolissità; avrebbero forse beneficiato di un taglio più deciso, ma la scrittura probabilmente è stata decisiva nel dilatare i tempi.
Il brano più interessante del disco resta però Jerskin Fendrix Freestyle, un brutal prog dalle trame jazz scritto insieme a Geordie Greep con la sua band e pubblicato come scherzo del Pesce d’aprile. Qui Fendrix sfodera un rapping rabbioso: la sua energia distruttiva scarica ansie e insicurezze in modo catartico, come contrappunto liberatorio alle ballate più liriche.
Con Shropshire, Fendrix realizza la colonna sonora della propria giovinezza: un album in cui accoglie i propri fantasmi, oscillando tra dolcezza e ferocia, elegia e sarcasmo. È un lavoro più compiuto, maturo e consapevole, frutto di un linguaggio ormai padroneggiato sia sul piano tecnico sia su quello emotivo. La direzione è quella di un approccio più romantico a livello musicale, come accade per molte band contemporanee che fondono progressive rock e folk, ma Fendrix riesce a mantenere viva l’anima più distorta e caotica.
Lo Shropshire può essere qualsiasi luogo da cui ognuno di noi ha mosso i primi passi: tutti possono ritrovarsi in quella spensieratezza miscelata alla cruda realtà della vita. Il mio Montello non è tanto distante, come non è così vicino. È una storia che può essere di tutti, ma talmente personale da essere solamente sua.
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Last modified: 20 Ottobre 2025




