The Crocs – …And The Cradle Will Croc

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Correva l’anno 1998, un triste giorno di ottobre il mio compagno di banco Alessandro mi passò una cassetta con un bel teschio in copertina. In un primo momento mostrai la tipica ostile resistenza, classica per uno sbarbatello che fino a quel momento nell’insieme della musica rock inseriva solo pochi elementi nostrani come Litfiba e Ligabue. Ma alla fine accettai, un po’ come si accetta di andare sulle montagne russe anche se soffri di vertigini, tentato dal demoniaco sorriso del teschio disegnato a mano del mio amichetto.

Arrivato a casa subito dopo pranzo infilai il diabolico nastro nella mia piccola radio trasportabile. Giusto pochi secondi del “crrrrr” tipico del nastro (quanto mi manca, creava attesa adrenalinica) e fui travolto dallo spietato delay di Slash, che sembrò tagliarmi a pezzetti la gola. I Guns’N’Roses e il loro hard rock furente si erano impossessati di me. Da quel giorno  tutto è cambiato. I jeans si sono strappati, i capelli cresciuti a valanga, teschi orribili sono comparsi su t-shirt sempre troppo larghe e sono diventato (insieme ad altri 4 scapestrati del liceo) il più fuori moda di tutta la scuola dove in quegli anni regnavano fighetti, discotecari e punkettoni. Dopo quasi 15 anni e tanti (mai troppi) dischi masticati i jeans si sono ricomposti, i capelli si sono un po’ accorciati (alcuni in verità persi per strada!) e i teschi li sfodero solo in alcune giornate di eccessiva nostalgia. Però l’orecchio per quel genere così stradaiolo, così feroce e così chitarroso non l’ho mai perduto. E con gli anni l’ho forse un po’ addolcito e reso più docile, mischiando i riff con un po’ più di melodia.

Potete ora capire quanto aspettassi di recensire un disco come quello dei milanesi The Crocs e come il titolo del loro album mi rimandi subito ai fasti liceali, riportandomi immediatamente al macchinoso e massiccio brano dei Van Halen (intitolato appunto “…And The Cradle Will Rock”). Appena scarto il disco capisco subito dalle facce dei 4 ragazzacci di cosa stiamo parlando e il sorrisino mi scappa.
Si parte in quarta con il brano migliore del disco: “I Wanna Trust In Santa”, è scopro che di pop ce n’è proprio tanto, ma ben mischiato con quell’hard rock classico molto sornione. Il tutto è poi condito dalla voce di Andy che, nonostante presenti alcune sbavature esecutive e una pronuncia un po’ da “americano a Roma”, spara altissimo il falsetto e pare abbia copiato la ricetta del frullato di testicoli proprio da un maestro come Justin Hawkins dei The Darkness.
Andando avanti: in “Bring Me Down“ si trovano sonorità più moderne e più corali alla My Chemical Romance, “Living On Danger” è hard rock classico con chitarrismo tamarro, strillo devastante e basso ben pulsante in primo piano, il funky di “All Alone” e la pseudo-ballad “Possession” invece sono gli episodi più glam-fricchettone, si vola in Scandinavia e si raccolgono le ceneri dal recente funerale dei The Ark.

I testi come nel migliore stereotipo sono (s)porchi e abbastanza scontati, ma forse è meglio così. Manteniamo bassa la frivola dignità del buon rock’n’roll cazzaro.
Insomma tutti spunti intelligenti e tutto sapientemente arrangiato dai quattro ragazzetti. Manca solo un po’ di personalità nelle loro melodie che, con un pizzico di ispirazione in più, potrebbero benissimo essere esportare con fierezza dalla provincia lombarda.
Niente di nuovo, niente per cui farsi ricrescere i capelli fino al culo, niente di eccessivamente hard rock da farmi rimettere su “Appetite For Destruction”. Ma almeno la vecchia maglietta nera coi teschi oggi me la fate indossare?

 

Last modified: 16 Marzo 2012

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