Warner Music Tag Archive

Lavorare stanca più della movida: quattro dischi per riprendersi dalla sbornia del lockdown

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Charlie XCX, Jeff Rosenstock, Perfume Genius e Owen Pallett sono quelli giusti da ascoltare.
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Dua Lipa – Future Nostalgia

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L’album che non ti aspetti: un gran disco pop, che di questi tempi non è mica poco.
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40 anni di Factory Records, due cofanetti con tracce di Joy Division, New Order e tanti altri

Written by Novità

Warner Music li pubblicherà in occasione del 40esimo anniversario della leggendaria etichetta.
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Joy Division, a giugno la reissue di Unknown Pleasures

Written by Novità

Per il quarantesimo anniversario dall’uscita, Warner Music ripubblicherà l’album in vinile.
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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #10.03.2017

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Francesco Gabbani – Eternamente Ora

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Lo ammetto: ho ascoltato in primis il cd Eternamente Ora di Francesco Gabbani con un po’ di pregiudizio in quanto prodotto uscito dal Festival di Sanremo, manifestazione a cui ammetto di non aver dato mai troppo peso. Personalmente non ho mai seguito più di tanto gli artisti che vi partecipano ma ho voluto provare ad ascoltare il giovane cantautore di Carrara spinto anche dalle polemiche susseguite alla sua sfida con Miele e al suo consecutivo ripescaggio che lo ha portato in seguito anche a trionfare nella categoria “Nuove Proposte” e ad ottenere il premio della critica “Mia Martini” e il premio “Sergio Bardotti” come miglior testo del Festival.  Tuttavia dopo aver riascoltato il disco diverse volte devo ammettere che il ragazzo ha delle qualità che speriamo possa mettere in risalto anche in futuro. Variegato negli stili, Francesco Gabbani fa uso esagerato dell’elettronica in bilico continuo fra gli anni Ottanta e la Dance anni duemila. Mi verrebbe quasi facile accostarlo ai prodotti più recenti dei New Order, ma tra il gruppo inglese e il giovane toscano ci sono ancora molte distanze da colmare. Ci sono infatti pezzi quali la title track che forse è più vicina al songwriting di Max Pezzali e dei suoi 883 e ciò non può giovare all’economia del disco. Nulla contro Pezzali, sia chiaro, ma forse sarebbe stato più logico rispettare un filo logico piuttosto che attingere da fonti differenti e cercare di personalizzare il tutto. Canzoni come “Amen” e “Software” sono certamente molto radiofoniche e conquistano facilmente il podio di migliori fra le otto presenti in scaletta scatenando un meritato ex aequo. Da segnalare una produzione pressoché perfetta ad opera di Patrizio “Pat” Simonini che mixa e masterizza il tutto al Kaneepa Studio di Milano. Lo stesso dà il suo grande supporto contribuendo anche in fase di composizione musicale su tre quarti dei brani presenti e in qualità di coautore del testo de “La Strada” insieme allo stesso Gabbani  e a Fabio Ilacqua, che invece firma e cofirma tutte le liriche tranne in “Il Vento s’Alzerà”.

Gradevoli anche l’artwork generale a cura del graphic designer Sirio Fusani e le foto di Daniele Barraco che immergono Francesco Gabbani in un contesto naturalistico. Eternamente Ora mi ha insegnato che non sempre (forse) si può fare di tutta l’erba un fascio. Intanto lo inserisco nel mio lettore cd per l’ennesima volta, cercando di cogliere anche quelle piccole sfumature che mi sono sfuggite nel precedente ascolto.

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Damon Albarn – Everyday Robots

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Musicista, autore, compositore, produttore Damon Albarn è un artista poliedrico e traversale che, dagli esordi nel lontano 1991 fino ai giorni d’oggi, ha macinato chilometri nel mondo della musica, percorrendo molte vie e raccontando la sua arte in tanti modi. Un storia lunga ventitre anni partita dal Brit Pop dei Blur, continuata con l’Alternative Rock così underground dei Gorillaz, deviata dal super gruppo made in England The Good,The Bad & The Queen, inframezzata da un EP, qualche colonna sonora e due libretti per opera. Un bagaglio importante di esperienze, senza le quali, forse, Everydays Robot non esisterebbe. Ascoltando l’album tutto d’un fiato si percepisce subito il tiro di tutto il lavoro, maturo, calibrato, intimo e dall’essenza minimalista. La storia di un uomo di quarantasei anni che, spente le luci accecanti e riposti gli artifizi di scena nel baule, si racconta e ci fa assaporare un po’ del suo mondo e dei suoi ricordi, tra la paura ancestrale di perdere se stesso, al rapporto conflittuale con una tecnologia sempre più invadente, fino alla solitudine e alla dipendenza dalla droga.

Potremmo definirlo quasi una sorta dipiccola catarsi in musica, un percorso che non arriva mai ad esprimere le tensione del momento in maniera esplosiva e rabbiosa, ma che lo fa in maniera sommessa, con quell’attitudine all’understatement cosi maledettamente British. Visivamente anche la copertina veicola lo stesso messaggio privo di colori, ma ricco di sfumature di grigio, un’immagine semplice, reale, così reale da passare quasi inosservata. Quello che non passa inosservato sono le canzoni, un beat pulsante, un cuore-motore intelligente, le percorre da cima a fondo dandogli vita.  Uno stile asciutto ed equilibrato unisce in un unicum armonicosuoni elettronici e acustici, campionamenti, archi e cori dal sapore etnico. Un album di Ballad melanconiche e dolciastre, così come i ricordi nei quali affondano le radici e che contengono al loro interno tutta l’anima Pop di Albarn, filtrata,però,attraverso una consapevolezza nuova. “The Selfie Giant”suadentegrazie alpiano mutuato dal Jazz e alla collaborazione di Bath for Lashes, “Mr.Tembo”, che le sonorità africane rendono melodicamente e ritmicamente intrigante.“The History of a Cheating Art” e“You and Me”che ti colpiscono per l’eleganza e la forza del songwriting sofisticato e qualitativo.Il mood del disco non può che definirsi ombroso,ovattato a tratti illuminato attraversol’uso dei cori e degli archi, come nel finale tutto in positivo e dalla grande carica emozionale di “Heavy Seas of Love”, merito del coro gospel della chiesa di Leytinstine. Everyday Robots è un disco pensato nei suoni,testualmente pieno di pathos, calibrato negli arrangiamenti, che fanno la differenza e mostrano il talento di Albarn. Forse non un album di hit e molti rimarranno delusida questo nuovo capitolo non ritrovando il vecchio Damon, ma molti altri sapranno apprezzarne l’onestà, l’intensità, il valore, le atmosfere al limite dell’alienante e goderne a sufficienza.

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Baustelle – Fantasma

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Tra inferno e paradiso di solito in mezzo ci sono i fantasmi, e anche una cosa che non si può calcolare ne tantomeno imprigionare, ovvero il tempo, quello scadenzario invisibile che plasma, inghiotte senza mai digerisce niente. E appunto questi ectoplasmi giocano forte e danno il titolo “Fantasma” al sesto album dei toscani Baustelle, un lavoro strano e stupendo che abita fuori dal mondo con la complicità di sofismi sinfonici imbastiti dai sessanta elementi della Film Harmony di Wroclaw (Polonia), diciannove tracce (sei strumentali) che si nutrono di sostanze cinematiche, sfumature horror, pianoforti spogli e tratti cinematici da rincorrere tutto d’un fiato, un concept che ama la vita come gode con la morte.
Un ascolto per niente tranquillo, da centellinare per il disincanto e per il nutrito visionario che la band mette sul piatto, un approccio che non ha leggerezza come nega l’ottimismo esagerando nella degenerazione, colori scuri e arie da pianoforte, voce e orchestra che non lasciano scampo all’incanto,  pronto ad assalirvi come a gelarvi, ma che comunque vela di etereo ogni angolo di pelle e d’ascolto; Francesco Bianconi, Claudio Brasini e Rachele Bastrenghi vivono il passato e presente come un inceppamento per il futuro, citano Mahler, De Andrè, Messiaen e Stravinskij, realizzando una voglia di respirare significati e non regole prefissate.
Non hanno peli sulla lingua e mai un filo di timidezza sfiora le loro canzoni, i loro “lieder”  a fissare le architetture evolutive di gruppo, una costante e fortissima volontà a non apparire uguali, bensì fuori da tutto senza mai censurarsi né ritagliarsi fughe secondarie; con Enrico Gabrielli dei Calibro 35 come presenza costante negli arrangiamenti, Fantasmi si snoda tra le cupole e le volte di tocchi lirici  “Finale” dal Quatur, composizione di Messiaen scritta nel campo di concentramento, l’adagio della quinta sinfonia di Mahler citato né “La natura”, la ballata in romanesco stretto che bisboccia dentro “Contà l’inverni” o l’organo della Cattedrale di Montepulciano che cromatizza il senso ateo e agnostico del pensiero nella stupenda “Nessuno”.
Disco di coscienza incosciente questo nuovo lavoro della formazione toscana, ma anche di coraggio e  – suo modo – d’avanguardia, certo non d’immediato trasporto se non fatto girare alcune volte, ma quasi un radiogramma che brucia ed immola genio e sregolatezza, alla ricerca fissa di una redenzione umana e non “L’estinzione della razza umana”. Uno di quei dischi che all’inizio ti guarda in cagnesco, poi ti strangola tra le spire della sua subdola bellezza.

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Muse – The 2ND Law

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Sei album all’attivo, un Grammy in tasca, pienoni in ogni angolo del mondo paiono non sembrare nulla agli occhi dell’eterno bad boy di Teignmouth nel Devon Inglese, tal Matt Bellamy, leader incontrastato dei Muse, niente che possa perforare l’armatura acciaiosa che si è costruito intorno per non far trapelare un milligrammo di emozione o stupore; tira dritto nella sua ecumenica discografia che con “The 2ND Law” – il nuovo album – scruta impietosamente e con ossessione la natura, il globo, i principi energetici dell’universo e, non ultimo, il grido di rabbia verso gli speculatori della società, di chi ammazza, affama e prostituisce i basilari diritti della razza umana che bazzica questa strana società.

Matt, insieme a Chris Wolstenholme e Dom Howard, si fa paladino della discrepanza tra crescita demografica incontrollabile e la vera portata della natura, un disco che morde banchieri e petrolieri, un j’accuse elettrificato al massimo più che altro per esorcizzare una presunta fine del mondo, e punta il dito nel mezzo di un mix di rock, fremiti Mercuryani, schegge di Caikovskij nella “seconda legge della termodinamica” e tutto il bailamme distorto e incandescente che solo lui, il profeta del nu-epic, può mettere in campo e negli orecchi di chi gli presta  udienza; una tracklist che prende su tutto, mastica e risputa leggi della fisica e distorsioni ammattite, un caleidoscopio di canzoni che vanno dall’omaggio dedicato al figlio da poco nato “Follow me” al rammarico per quegli speculatori che sono ancora e per sempre in libera circolazione “Animals”, da “Survival” – che è poi divenuto l’inno delle Olimpiadi di Londra e che vede tra gli altri la partecipazione di Daniela Salvoldi e il violino di Rodrigo d’Erasmo degli Afterhours – al triste pensiero per la disoccupazione giovanile “Explorers”, un universo di rabbia e sangue amaro che i Muse hanno voluto rimarcare con un sovradosaggio di neo-psichedelia che non consente vie d’uscita secondarie, o ci si sottomette al suo impeto o è meglio cambiare strada, alternative non ve ne sono.

Tredici traccianti per un disco con la spoletta disinserita, pronto a macellare chi ha la coscienza lurida e a far rodere il fegato a chi pensava che con Showbitz, nel 99, la loro storia si fermasse lì.  Idioti!

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