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“Diamanti Vintage” Depeche Mode – Violator

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Risultato della felice idea di unire le ombre wave con i singulti dark, il nuovo percorso artistico dei Depeche Mode centra perfettamente le mire del successo oltre ogni limite, successo che già con il precedente Black Celebration si poteva presagire anche per via della prestanza artistica di Anton Crobjin che ne cura maniacalmente i video ed i make off, e “Violator” già nasce con il lusso e la potenza del disco per eccellenza della band, quella sacralità musicale che tagliò per sempre i freni alla loro trasgressività color pece.

Un opera capitale dell’elettronica, atmosfere cupe, violacee e malate sconvolgono l’intera stesura, una perfetta risintonizzazione del sound in cui Gahan e soci nuotano e sollevano con arguzia e professionalità eccelsa, tanto che con questo disco realizzano l’apice e la mondialità degli anni della “controriforma” wave; il disco che poi contiene le “colonne sonore di una generazione”, di quelle masse che si sono riconosciute in pezzi come “Personal Jesus”, “World in my eyes” o in “Halo”, “Enjoy the silence”, tracce che sono rimaste incastonate nella storia della musica rock come i comandamenti della Bibbia. Gli anni Novanta sono portatori di rivoluzioni varie e variopinte, ma i segreti custoditi dai DM hanno l’obiettivo preciso di travalicare le mode e gli affanni pop, loro inventano un marchio che avrebbe dovuto proiettarli in un futuro di lucidità e libertà totale, ma la droga è dietro all’angolo e non tarderà molto a disintegrarne gli impatti positivi e la prorompente notorietà.

Tuttavia rimane un testamento – in questo capolavoro scuro – che supera barriere e geografie temporali, tracce indelebili che hanno letteralmente consumato ascolti ovunque anche se i fantasmi del passato sono tutti qui riuniti a dare “festa magnificamente mesta” alla tracklist: chi non ricorda le onde strazianti che tracimano dolore Smithiano in “Waiting  for the night”, il minimalismo computerizzato di “Policy of truth”, la tenerezza fosca dell’armonia che tinge “Blue dress” cantata da Martin Gore o la finale “Clean” in cui Gahan pare intravedere un fievole raggio di sole ad illuminare la sua anima costantemente in pena? Gli anni passano come una scure sul capo, ma la dolcezza amara di questo caposaldo è intatta, immacolata e maledetta come i miracoli di agnostici fati, e i Depeche Mode paiono non essere mai svaniti del tutto, la loro anima lacerata ancora gira un’ossessione a cui rendere conto.

Disco di buio basilare come la luce.

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