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Verbaspinae – Tre

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Spigoloso è il primo aggettivo che mi viene in mente ascoltando questo album del trio milanese Verbaspinae. Un disco ben suonato, ben prodotto, ben interpretato ma che sicuramente non ha nessuna parete morbida o malleabile. Di Pop qui c’è poco e niente, ma piuttosto una stanza buia e ricca di insidie. “Il Pezzo” è proprio l’anti-Pop per eccellenza, metodica fuga dalla melodia. Una forza che stride nelle nostre orecchie. Pochi versi e non in tutti i brani, tanta Elettronica, a volte distesa e leggera come un corpo sinuoso che fluttua nell’aria, a volte rigida come il marmo. Così parte “Vyger”, nemmeno una parola e suoni che si incastrano tra New Wave e il Blues di un’armonica. Un romanticismo latente e il vecchio nostalgico che si incontra col ragazzetto superbo smanettone col computer. Un viaggio stellare fatto con uno shuttle degli anni 70. “Ieridomani” è accompagnato da un riff martellante, da sentenze ermetiche, da una bella chitarra distorta e da synth impazziti che danno un po’ di verve al pezzo. Il tutto si incastra in una grande opera di produzione ed esecuzione. Cura certosina nella ricerca di suoni e mix. Questo pezzo è proprio quello che sarebbero i Massimo Volume se incontrassero i Daft Punk. “Novantuno” continua sullo stesso filone, le tastierone governano un groove elettronico, quasi robotico e macchinoso. Come un ingranaggio che si inceppa, come il Charlie Chaplin dei Tempi Moderni portato nel 2015. Sì, si può dire tutto su questo gruppo ma non che suoni vecchio o già sentito. E nemmeno che non sbirci costantemente verso quella che è la stroria del Rock. Anzi azzarda fin troppo quando nella title track sfodera un suono tra Space Rock e Gospel in un’orchestrazione che sottolinea ancora una volta il lavoro immenso che sta dietro al nome Verbaspinae. Difficilissimo da digerire. Un pugno in pancia come la ballata “Parole”, dove finalmente escono versi semplici, vomitati di getto, intensi, che escono dalla bocca di Germano Allegrezza insieme a sangue sporco e una risata storta. Una canzone che pare uscita dagli archivi di un Manuel Agnelli nei suoi tempi migliori.  Il Blues poi torna nel finale cupo di “Ergot” e si mischia alla onnipresente elettronica, qui marcia, contaminata di quello strato di polvere che rende il pezzo, privo di parole. Una vera e propria discesa negli inferi. Dalle stelle agli abissi più profondi, questo album è ricco di spunti, di influenze e di pensieri malati. Incubi che sono così reali e che si sentono davvero molto molto bene.

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