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Jack White – Lazaretto

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Jack White è un tipo particolare, si sa, visibilmente eccentrico almeno nelle apparizioni ufficiali. Il suo look ultimamente è l’incrocio perfetto tra il surrogato Rock di Johnny Deep e un vampiro. Tanto eloquente è la cover di questo secondo e necessario album da solista; lui bianco pallido seduto su un trono di angeli, nel centro esatto della copertina, con la faccia imbruttita e una tinta blu glaciale che fa da sfondo. Diciamocelo, White, che ci piaccia o no, è uno che non lascia nulla al caso. Una chicca, se così può essere considerata, per i collezionisti, è il vinile: la testina del giradischi va posizionata alla fine del disco, verso il centro, l’album gira al contrario; sulle scanalature ci sono dei piccoli ologrammi raffiguranti gli angeli di copertina che risaltano alla luce e tengono i nostri occhi inchiodati sul disco che gira; la prima canzone sul lato B, “Just One Drink”, ha una doppia scanalatura che si traduce in una doppia intro, acustica/elettrica, in base a dove finisce l’ago della testina. Fissazioni?!

Ma arriviamo all’album, anzi, alla musica. Lazaretto è un’altalena in cui fluiscono sfumature di vari generi nella prosa Blues, oscura e psichedelica, di White. Una gestazione durata più di un anno al contrario dei precedenti album registrati in una manciata di giorni. White si chiude a Nashville nella sua Third Man Records, il suo Lazzaretto, luogo di confine per appestati e lebbrosi, catalizzando i suoni del suo passato e mettendo una distanza netta dagli White Stripes e trovando un mood più pieno, meno minimal. Tanta la strumentazione utilizzata ma permangono su tutto l’album soprattutto il magnifico suono del pedal steel di accompagnamento, i vari synth moog suonati alla barrelhouse come si faceva nei vecchi saloon western, mandolino Folk e ovviamente l’immancabile frastuono della sua chitarra elettrica; “High Ball Stepper” ne è un esempio perfetto. L’album si apre con “Three Women”, organo hammond in stile big band, propulsione R’n’B e disturbi di chitarra elettrificata. Si parte da qui, anche se la riconoscerete forse solo per il testo, questa è una cover del cieco (blind) Willie McTell (1928), alle radici del Blues quindi, alle radici della musica moderna. Tutto il disco risulta avvolgente, modulato a tal punto che si ascolta senza problemi, dal Blues più ritmico di “Lazaretto”, seconda traccia, a quello Country di “Temporary Ground”. Dalla malinconia desolante di “Whould You Fight for my Love?”, con i suoi cori tetri, alla più Punk “Just One Drink”, molto President of U.S.A..

Con questo lavoro White, dopo essere diventato una star con gli White Stripes, cerca la consacrazione nella Rock and Roll Hall of Fame. Undici pezzi impeccabili stilisticamente che ne fanno un lavoro da non perdere assolutamente. Godetevelo!

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Black Keys 08/07/2014

Written by Live Report

La serata dei Black Keys sicuramente non è stata il momento clou del Rock In Roma e neanche del resto dell’estate romana. Nello stesso giorno hanno suonato i Massive Attack, all’Auditorium Parco della Musica ed è un peccato non esserci andato visto che molti mi hanno raccontato quanto sia stato spettacolare; ma questa è un’altra storia. Il Postepay Rock in Roma si è consolidato nel tempo ed è diventato il palcoscenico mainstream dell’estate capitolina e di tutto il centro Italia. Ogni anno da giugno a fine luglio vediamo susseguirsi giorno per giorno i più gettonati artisti del panorama Rock internazionale. Ieri è toccato ai Black Keys che da qualche anno – più o meno da quando è uscito El Camino (2011), loro settimo album – sono diventati gli idoli delle nuove generazioni trasformandosi di fatto in vere e proprie rockstar. La loro storia, però, viene da lontano e non starò qui a ricordarvela; il punto chiave sta nel nome di Danger Mouse, super produttore statunitense che dal 2008 con Attack & Release comincia ad occuparsi di loro, addolcendone i suoni e creando di fatto un prodotto commerciabile. Non scrivo questo a caso ma per farvi capire, come era facilmente intuibile, che il concerto al Rock In Roma dei Black Keys non è andato più a ritroso appunto di Attack & Release e probabilmente è la prova della presenza di una crepa fra i “vecchi” e i “nuovi” Black Keys.

Focalizziamoci sulla serata, tralasciando il gruppo spalla veramente penoso e non all’altezza dell’evento e di cui non è il caso di fare neanche il nome. Capannelle; è qui che si consuma il Rock In Roma, nella cornice dell’ippodromo, una vasta area verde vicino l’aeroporto di Ciampino. Siamo tutti in attesa del duo chitarra e batteria Auberbach – Carney, presi con le solite domande: “suoneranno quello o quest’altro pezzo? Faranno le vecchie canzoni?”. Si, perché questo concerto, almeno per me, è una scommessa. Vedere i Black Keys trasformarsi negli anni è stata dura, soprattutto quando la mutazione è indotta da produttori che ti vedono come una banconota da milioni di dollari. Questo concerto, almeno per me, ha infine segnato la scomparsa dei vecchi Black Keys e del loro Blues senza pretese. Infatti, il live parte con “Dead and Gone”, batteria a martello e na-nana-nana-nawo ho ho, il pubblico in delirio e io che vedo sfumare man mano il mio desiderio di sentire qualche brano più vecchiotto. Effettivamente guardandomi intorno noto una moria di adolescenti pronti a strapparsi i capelli per loro che quasi sicuramente conoscono i Black Keys solo da quando hanno sfondato con El Camino. Qui capisco che non sarà il concerto per me, non è per me del resto ma per loro. E infatti proseguono con la sensuale “Next Girl”; nel delirio del pubblico comincio ad estraniarmi e a pensare che con una chitarra e una batteria non puoi fare “lo show”, a limite un buon concerto ma non uno show con quindicimila persone in delirio. A meno che tu non sia un fenomeno da baraccone che, oltre a cantare e a suonare la chitarra, riesca anche a fare il buffone, in qualche modo, con il pubblico. Questa è stata la mia impressione: li ho visti piccoli (i Black Keys) in confronto alle attese di un pubblico gigante. Inoltre, una delle cose che mi ha lasciato più impressionato è stato lo scarso contatto, la poca iterazione del pubblico con il pubblico. “È stato il primo concerto dove non mi ha spinto nessuno”. Sentire questa frase mi ha fatto capire tante cose e questo, per una band Rock, vuol dire solo una cosa: manca ancora molto per essere consacrati Rockstar.

Ovviamente al suono di “Gold On the Ceiling”, una delle prime hit di El Camino, tutto il pubblico va in fomento, braccia alzate e saltello sul posto, nessuna spinta ovviamente, ancora nessuno contatto. Forse della serata salverei la chiusura con “Little Black Submarine”, bella canzone, ottimo coinvolgimento e interpretazione di Auberbach. I Black Keys soffrono il grande pubblico; in due non riescono a coinvolgerlo pienamente anche se Auberbach ci prova più volte mentre Carney riesce solo a menare la batteria sempre con la stessa espressione sul volto. A posteriori sarei andato a vedere i Massive Attack, a saperlo!!!

Scaletta: Dead And Gone, Next Girl, Run Right Back, Same Old Thing, Gold On The Ceiling, It’s Up To You Now, Strange Times, Money Maker, Bullet, Turn Blue, Howlin’ For You (2010), Nova Baby, Gotta Get Away, Long Gone, Tighten Up, Fever, Lonely Boy. Encore:Little Black Submarines, I Got Mine.

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I Rolling Stones e il pisello di un settantenne.

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Auden – Love is Conspiracy

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Questo è un progetto “surgelato” e tirato fuori pronto per il microonde, un frammento di memoria regressa riproposto sulla mia scrivania. Auden (famoso poeta anglo-americano profondo e tagliente) è un progetto nato a cavallo tra gli anni Novanta e il duemila e, a sentirlo, se ne porta dietro parte delle sonorità. Un’incubazione derivata dalla scena Hardcore romana dà il ritmo e la struttura a questa composizione che cerca di andare oltre unendo al classico martellamento una forte componente emotiva. Quello che colpisce di questo Love Is Conspiracy è il periodo di gestazione: inciso nel 2002 vede la luce solo ad ottobre 2013 grazie alla neonata Holiday Records che ne inserisce un brano nella propria compilation di presentazione creando l’opportunità per un mini tour. Ovviamente, il gruppo ha perso un po’ di pezzi negli anni anche se il nocciolo duro permane e, quindi, si può considerare un tentativo di recupero bello e buono, un modo di raccogliere e non disperdere le briciole seminate negli anni. Un disco che mescola Hardcore ed Emo, una sorta di biglietto da visita che ci fa presupporre nuova linfa vitale.

Cinque pezzi essenziali che tra alti e bassi scorrono con piacere facendomi scivolare nel passato e richiamando alla mente soprattutto i Verdena per il modo peculiare di impostare la voce anche se tutto è rigorosamente in inglese. “Spring Grass For a Girl Collision” e “My Wrong Sentimental Education” sono i brani più ritmati e che sicuramente spiccheranno all’ascolto di questo disco di rilancio che riparte dal passato per aprire nuovi orizzonti. Vediamo cosa riserverà il futuro.

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Seymour Hoffman, storia di una stella ai margini (e un saluto a “Freak” che ci ha lasciato troppo in fretta).

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Prendo spunto dal recente lutto nel mondo del cinema, la morte di Seymour Hoffman, premio oscar come miglior attore in A Sangue Freddo, trovato cadavere nel suo appartamento per un sovradosaggio di eroina tagliata male. La malattia della tossicodipendenza non fa distinzioni e porta via un grande del cinema, un padre, un immenso uomo. Nonostante l’eroina sia stata sdoganata negli anni 60 dalle più grandi rockstar, e qui un ricordo va al grande Mr. Lou Reed deceduto poco tempo fa, la roba continua a fare vittime e non solo tra gli emarginati. La storia del Rock è piena di junkies, non è un mistero; a molti rocker piace sballarsi. A volte anche a costo della vita, nonostante essa sia superficialmente grandiosa, abbagliante e luminosa. A dispetto di tutta la fama e i dischi venduti, di tutti gli affetti e le passioni c’è un sussurro nel cervello di un tossico, stella o stalla che tu sia, quel sussurro che ti vuole sepolto. La lista è lunghissima e qualcuno che ci ha lasciato le penne merita di essere ricordato; siano questi buoni o cattivi hanno lasciato un segno nella storia della Rock. Un pensiero a Kurt Cobain, Janis Joplin, Layne Staley, Sid Vicious, Tim Buckley, Jhon Baker Saunders, Dee Dee Ramone, tutti morti strafatti, mentre alcuni hanno dichiarato di utilizzarla o palesemente la utilizzano come Iggy Pop, Lou Reed, Dave Navarro, in pratica tutti i Red Hot Chili Peppers e anche John Lennon. Un’infinità di personalità dello spettacolo.

Forse uno dei motivi è che i rocker anni 60 ammiravano i musicisti Blues & Jazz venuti prima di loro e che usavano eroina. Le generazioni successive ammiravano quelle precedenti che a loro volta… Alla fine si è creato una sorta di gatto che si morde la coda, chi lo può dire. Oppure è solo tutto lo stress dovuto ai tour, agli spostamenti, le radio e televisioni sempre puntati addosso e per un rocker non c’è nulla di meglio che apparire come un cattivo ragazzo. Alcuni sostengono anche che aiuti la creatività e da questo la leggenda vuole che nacquero i Doors: “Se le porte della percezione venissero sgombrate / tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è, infinito.” W. Blake. Qualunque sia il motivo, la dipendenza è una malattia intorno alla quale si fa molta confusione, aggravata dalle leggi che criminalizzano chi fa uso di sostanze. Io personalmente non penso che tutti questi attori e musicisti siano dei criminali e sto parlando solo di loro perché sono quelli che hanno un’ampia vita pubblica che a volte e ben volentieri sfocia nel privato. Criminalizzando non facciamo altro che allontanarci da loro. Siamo in un momento in cui i paesi più civilizzati si stanno rendendo conto che i divieti non funzionano e forse, in un certo senso, amplificano il fenomeno, perché producono criminalità organizzata, scarsa igiene, emarginazione, facendo piombare queste persone nelle peggiori condizioni immaginabili per cercare di opporre rimedio. Non c’è divieto che tenga a un tossico che si gratta la schiena.

La morte di Hoffman ci ricorda ancora una volta che la tossicodipendenza è una lama trasversale che indistintamente colpisce chi è stato emarginato a causa di una malattia, di un culto insano, di un vizio inutile. È stato trovato da solo nel suo appartamento, non un criminale ma uno dei migliori attori in circolazione, con la siringa nel braccio e la sua dose tagliata da un pusher senza scrupoli. La storia del Rock è piena di decessi causati da eccessi, dalla sensazione di solitudine prodotta dalla fama, dalla voglia di oltrepassare i limiti, dalla necessità di fuggire dalla realtà. Molti dei più grandi artisti, e non solo, del secolo scorso se ne sono andati per questi motivi lasciandoci la loro grande musica e parte dell’opinione pubblica li ha trattati da criminali, da fuorilegge. Nonostante non tutti avessero la forza di denunciare la propria degenerazione e chiedere aiuto. Il mondo, oggi, è a un punto di svolta contro la proibizione e ora tocca perdonarli tutti perché in fondo quello che abbiamo fatto è emarginare un problema che andava risolto.

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Vinile vs Cd vs Mp3: è una questione di qualità o una formalità?

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A parità di tecnica di registrazione vogliamo qui toccare i vari aspetti, ma anche le trasformazioni, che i supporti audio hanno avuto nel tempo e come lo studio dell’apparato uditivo, unito all’avvento dell’information technology, abbia aiutato a elaborare nuove tecniche di diffusione dei materiali audio. Cominciamo dal pentagramma; quando la frequenza fondamentale di una nota (es. LA1=110Hz, LA2=220Hz … LA4=440Hz) viene raddoppiata, non facciamo che andare più in alto di un’ottava. Allo stesso modo, se vogliamo salire di un semitono basta moltiplicare per 21/12 la fondamentale. Dodici sono i semitoni che compongono una scala. L’orecchio umano è in grado di percepire un range di frequenze che vanno da 20Hz a 20KHz e va detto che la massima sensibilità si ottiene intorno ai 2-4KHz (che è la banda vocale utile trasmessa ad esempio sui cellulari); inoltre, come è facile intuire, con l’avanzare dell’età il limite superiore dei 20KHz tende a diminuire. Provate voi stessi, cliccate play sul video qui sotto e sentite che età hanno le vostre orecchie!!!

Le variabili che entrano in gioco nella registrazione del suono, nella propagazione e successivamente nell’ascolto fanno si che, nel tempo, l’informazione contenuta nella registrazione sia andata via via diminuendo cercando di far risaltare maggiormente le frequenze dove l’orecchio ha la massima sensibilità. Così si risparmia memoria nei supporti a scapito di una “fantomatica qualità”. Dico fantomatica perché non fà differenza se ascoltate un vinile, un mp3 (con compressione decente) o un compact disc; non è il supporto a creare la differenza ma un insieme di cose come la qualità della registrazione, le vostre orecchie, il tipo di impianto Hi-Fi che avete in casa, l’ambiente che vi circonda e poi il supporto audio utilizzato. Quindi, lasciando perdere la registrazione perché non dipende da noi, le nostre orecchie per le quali c’è poco da fare, l’assenza di impianto Hi-Fi visto che i soldi sono sempre pochi, cerchiamo di capire che differenza c’è tra i supporti più diffusi.

Il Vinile è il supporto analogico per eccellenza e, seppur molti di noi non abbiano mai sentito il suo suono, rimane sempre un must per gli appassionati, tanto che alcuni riferiscono che il suo effetto acustico risulti “più caldo”: ma è solo l’irregolarità dei solchi che produce una lieve distorsione che lo fa sembrare tale. Messi da parte i gusti personali, l’incisione su vinile rimane molto fedele alla qualità dei trasduttori (microfoni) utilizzati per la registrazione. Sfatiamo però qualche mito: per prima cosa, è vero che durano anche 100 anni, certo ma a patto che li manteniate con cura, non li facciate cadere e che possediate un giradischi con una buona testina. Giradischi che, per suonare sfruttando tutte le qualità, ha bisogno di manutenzione periodica e di una spolverata se non utilizzato di frequente, dopo ovviamente aver sostenuto una spesa iniziale per l’acquisto cercando di non risparmiare troppo. Incidono sul suono, ad esempio, le vibrazioni derivanti dal motorino che lo fa girare e, del resto, si tratta pur sempre di suono riprodotto per mezzo semi-meccanico. GIUDIZIO: tanti ricordi portano da lui ma in fin dei conti al giorno d’oggi è scomodo da utilizzare.

Il Compact Disc è il primo surrogato dell’era digitale; l’audio stereofonico (LPCM) viene memorizzato in formato digitale, campionato a 44,1 KHz con campioni di 16 bit che regolano l’andamento della pressione sonora. I 44,1 KHz sono il risultato del teorema del campionamento di Nyquist-Shannon secondo cui la frequenza di campionamento deve essere doppia rispetto alla frequenza massima del segnale da acquisire. Ricordate la sensibilità dell’orecchio umano, 20 KHz? Ecco spiegato perché il CD ha un campionamento a 44,1 KHz e cioè per accogliere tutte le frequenze udibili dall’uomo. Seppure queste specifiche tecniche hanno reso il CD il migliore dei supporti, c’è da dire, come ben sappiamo tutti, che se non conservati bene alla lunga si rovinano. GIUDIZIO: ottima qualità, facilità di utilizzo, ma attenti a non lasciarli al sole.

MP3 e FLAC sono i nuovi formati digitali, “senza supporto”, adatti alla trasmissione e condivisione in rete. Ulteriormente compressi e campionati secondo specifici algoritmi ed estratti dal CD sono, rispettivamente, con perdita di qualità, lossy e senza perdita di qualità, lossless. Il formato FLAC (768 kbit/s) lossless rimane il più adatto all’ascolto, grazie alla sua alta fedeltà, molto simile al CD e una più versatile archiviazione che però vede file dell’ordine dei 10/20 MB. Non è facile trovare in rete del materiale con questi standard. GIUDIZIO: ottimo compromesso, adatto ai tempi che viviamo; peccato non sia così facile reperire album in questo formato. L’MP3 rimane il più utilizzato e diffuso ai giorni nostri grazie alla ridotta occupazione di spazio, 3/4 MB leggeri da streammare. Esistono tre diversi livelli di compressione sviluppati negli anni. Sintetizzando, possiamo dire:  Layer I, compressione a 384 kbit/s, eccellente qualità audio, utilizzato nei sistemi professionali digitali, utilizza il metodo di eliminazione delle frequenze mascherate sfruttando gli studi di psicoacustica. Layer II, compressione tra i 192 e i 256kbit/s, usa algoritmi più sofisticati del precedente ottenendo una qualità eccellente a 256 kbit/s ma anche a 192 kbit/s raggiunge buoni livelli. Layer III, compressione tra i 112/128kbit/s, utilizza, oltre che i precedenti metodi, anche una codifica estrema basata sull’entropia del contenuto informativo. Con 128 kb/s otteniamo un suono molto vicino all’originale. GIUDIZIO: è impossibile farne a meno al giorno d’oggi e se proprio potete scegliere prediligete il rapporto di compressione più elevato.

Ognuno ha i suoi gusti, o meglio le sue orecchie, basta non cadere troppo in basso e cercare il compromesso migliore nella situazione in cui vi trovate. Un sano trasformismo, senza bandiere da sventolare, ci può portare a scegliere il Vinile per gli album che ci hanno segnato o che non possiamo far a meno di possedere. Il Compact Disc in caso volessimo gustare a pieno o sostenere un gruppo. Il FLAC se proprio volessimo archiviarci tutto. Per tutto il resto c’è il buon vecchio e pirata Mp3.

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Mazzy Star – Seasons of Your Day

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Tutto ciò che arriva dalla west coast statunitense, di solito, ha un suono più avvolgente e rarefatto. Sarà il sole, saranno le palme, il mare o il deserto ma anche questa volta, dopo diciassette anni dall’ultimo lavoro, i Mazzy Star continuano a sognare e nessuno se lo aspettava, prima del loro tour di rilancio, nei primi mesi del 2013. Seguaci del Paisley Underground, anzi, diretti discendenti dei Dream Sindacate, David Roback e la dolcissima Hope Sandoval raggiungono la fama nei primi anni 90 (qualcuno ricorderà “Fade Into You”) e, dopo essersi dispersi senza mai dividersi, tornano da noi con Seasons of Your Day, un lavoro sulle tracce dei precedenti seppur uscito oggi. Sembra che i due non abbiano mai abbandonato il loro stile iniziale.

Un misto di Blues e Psichedelia contribuisce a creare atmosfere oniriche che fuoriescono dalle corde di Roback, con la voce calda e suadente della bellissima Hope Sandoval a rendere seducente il tutto. I testi sono frammenti di vita, attimi, momenti, pensieri quotidiani che si sciolgono nel tempo. Rimorsi, rancori, occasioni sfuggite, come suggerisce il titolo dell’album, le stagioni dei tuoi giorni, Seasons of Your Day. I brani ci raccontano pezzi di vita come in “In the Kingdom”, un luogo perfetto per musicisti che si contaminano vicendevolmente e viaggiano tra mille domande. Altra fantastica canzone è “California”, malinconica e nebulosa, racconta una terra natale lontana, sempre radicata nell’anima, in cui un giorno si tornerà, tenuta, nel cuore, sempre a portata di mano. Testi profondi, poetici e suoni diradati come in “Season of Your Day”, che dà il titolo all’album, una ballata all’amore che non c’è mai stato, che non è mai nato, sempre ambiguo e sfuggente, gracile: “ Won’t you let me come inside?  I’ve released all of my pride. I know you’re alone because I’ve been there. I was storming all of the day outside your door . It’s a misery that the rivers will never stream me back before”. I Mazzy Star, dopo tutto questo tempo, non devono dimostrare nulla a nessuno ma rendere conto solo alla propria musica ed è quello che fanno meravigliosamente con questo sound galleggiante, leggero e malinconico allo stesso tempo.

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Boards of Canada – Tomorrow’s Harvest

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Dopo un lungo silenzio, durato ben otto anni, tornano gli scozzesi Boards of Canada con i loro suoni liquidi e le atmosfere desertificate. Il 2013 sembra essere stato l’anno del ritorno dell’elettronica anni 90, che ha visto sulla cima il ritorno, e il mega successo, dei Daft Punk. Sempre più l’elettronica contamina il Rock scrollandosi di dosso la mera ritmica delle sale da ballo. I due fratelli Sandison, sulle orme del precedente album The Campfire Headphase, tirano fuori un altro concept album che diventa un trip imperdibile.

Tomorrow’s Harvest, questo il titolo, questa la prospettiva di tutta una generazione. Cosa ci spetterà del domani? Quali frutti potranno raccogliere i nostri figli? Un album provocatorio che mette a nudo l’umanità contemporanea appiattendo e schiacciandone la visone di un futuro florido e rigoglioso sull’attuale scia della crisi globale. I nomi dei brani parlano chiaro e lasciano all’ascoltatore l’interpretazione visto che di testi c’è poca traccia. La strumentazione è un misto di sintetizzatori,  vintage/analogici e anche più moderni,  programmi computerizzati ed un uso maniacale di campioni, con l’inclusione anche di suoni naturali che generalmente a caratterizzano le loro opere. Il risultato è fluido e atemporale: ci si sente dentro una bolla di vetro immersi in un mondo disgregato. Non a caso è stata scelta la copertina dell’album. Ogni brano, in continuità col precedente, contribuisce a creare quest’atmosfera da film. “Gemini” è l’intro ed è impossibile non riconoscere in essa sonorità propriamente cinematografiche tipiche dei film di fantascienza, percettibili in realtà in tutto l’album. In “Sundown” possiamo vivere l’esperienza di un tramonto vissuto come fosse l’ultimo e in “Collapse” ascoltare il fruscio del vento e della desertificazione che avanza. “Sick Time” non ha bisogno di spiegazioni e racchiude in se il senso dell’intero LP. Questo Tomorrow’s Harvest è un lavoro che ha bisogno di molti ascolti per comprenderne le sfumature (sembra che contenga anche messaggi subliminali) e forse non per tutti sarà facile superare lo scoglio del primo, ma date retta a me, le parole non bastano a descrivere la portata di questo disco: va ascoltato e riascoltato assolutamente.

Un album Minimal, Down Tempo, che ci proietta in un futuro apocalittico, quasi post-atomico, come se i Boards of Canada volessero metterci in guardia su quello che ci aspetta se continuiamo ad inquinare, a chiuderci in noi stessi e a fregarcene. Perché non riusciamo più a stare nel presente e guardare al futuro. Un album forte, provocatorio, che potrebbe apparire cupo ma che poi nella sua musicalità ci lascia un barlume di speranza.

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Daughn Gibson 03/12/13

Written by Live Report

Il Blackout Rock Club è un posto un po’ fuori mano, sulla Casilina inoltrata a Roma. Un posto dove si organizzano bei Live. A maggio sono andato a vedermi Dinosaur Jr, di lunedì purtroppo e questa serata è di martedì. Il weekend, direte voi, suoneranno dei mostri sacri. E invece no! Ci sarà la discoteca?!Può essere!Ma questo weekend ci sarà l’American College Party. Che?!? Sulla locandina due ragazze ammiccanti vestite da cheerleader con tanto di ponpon, o come cazzo si chiamano. Quello che voglio ribadire è che la vita da Rocker si fa sempre più dura.

Faccio la mia fila cercando di non sbavare sulla locandina del college party e una volta dentro faccio un’altra fila per aggiudicarmi la brodaglia in bottiglia che chiamiamo birra. Daughn Gibson è lì appoggiato al bancone ad aspettare la sua di birra, mentre nessuno lo caga, giusto il tempo di prenderla e sparire nel privé. Dopo aver suscitato la curiosità nella scena underground statunitense con il suo primo lavoro All Hell uscito per la White Denim Records, subito crea, grazie ai testi, curiosità nella critica, Pitchfork per capirci, e riesce in breve a chiudere il suo primo e vero contratto con la mitica Sub Pop Records. A giugno esce Me Moan che rispetto al precedente è più orecchiabile e con testi meno articolati. Ma torniamo alla serata, dopo un ora e più ad aspettare che si riempisse il locale inutilmente, visto il martedì e visto che praticamente lui è ancora quasi sconosciuto in Italia, e un piccolo cambio di amplificatore finalmente il concerto ha inizio. Gibson parte subito con i brani più ritmati dell’ultimo disco, un po’ più accelerati per l’occasione da sembrare a tratti punkeggianti. Tra un brano e l’altro, per via dell’uso che fa di campionatori e suoni registrati, spesso non c’erano pause e il risultato è stato un’ora intensa di ballate Country elettrificate, “Kissin on the Blacktop”, e canti struggenti di amori interrotti, “Tiffany Lou”. Nel bis di mezz’ora mi allieta con quello che secondo me è il suo pezzo più significativo “In The Beginning”, stupendo.

Ecco l’intera scaletta della serata:

Lookin’ Back on ’99, You Don’t Fade, Phantom Rider, Mad Ocean, Kissin on the Blacktop, Lite Me Up, Tiffany Lou, A Young Girl’s World, All Hell, The Sound of Law, In the Beginning, Rain on a Highway, Dandelions.

In definitiva un domani potrò dire di aver visto Daughn Gibson. Dico un domani perché ora lo conoscono in pochi in Italia ed effettivamente in questa serata, comunque fantastica, eravamo in 200 ad ascoltarlo. La prossima volta che capiterà in zona non perdetevelo!!!

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Nick Cave & The Bad Seeds 27/11/2013

Written by Live Report

L’Auditorium Parco della Musica a Roma sappiamo tutti che posto è. Anche se non siete mai entrati porta con se quell’aurea istituzionale di palco da grande concerto, una struttura all’avanguardia nel cuore benestante di Roma. Insomma, la fama lo precede. Acustica da paura, radica di non so quale legno ovunque e le mitiche poltroncine larghe e imbottite dove gustarsi comodamente il concerto. Il tutto in un amabile atmosfera perbenista, quasi da teatro dell’opera, il cui ordine poco c’entra con i mostri che hanno dominato questo palco mercoledì scorso: Nick Cave & The Bad Seeds.

Alle 21,30 ero sistemato comodamente in galleria, sul mio divanetto, ad attenderne l’entrata in scena. La sala Santa Cecilia ormai colma, in visibilio, avida di placare l’ansia che precede  l’attesa dell’evento. Ed ecco che poco dopo assopiscono le luci, le urla e i fischi della folla si fanno sempre più ampi e insistenti a scaricare l’entusiasmo, all’improvviso un flash ed eccolo, con la sua camminata irriverente, fare la sua comparsa sul palco Cave seguito dai suoi Bad Seeds. Un veloce saluto, il tempo di prendere lo strumento, e subito si parte con “We No Who U R” primo singolo estratto dal suo ultimo lavoro Push the Sky Away. Un pezzo particolarmente malinconico, forse fra i più belli dell’album. Subito mi sale la pelle d’oca e vorrei balzare giù in platea dalla galleria. Ma non si può, avevo già provato ad eludere le hostess senza successo allo scopo si stare in piedi in platea. Che tristezza penso: questo posto è troppo “ordinato”, non è adatto ad una rockstar. Riconnetto il cervello sul palco, Cave teatralmente, come suo solito, si atteggia come fosse Sinatra e prosegue con “Jubilee Street”, testo critico contro chiesa e benpensanti che di giorno pregano Dio e di notte vanno a mignotte. E proprio mentre intona il ritornello prende e si lancia giù dal palco creando scompiglio. Tutti si alzano dalle comode poltrone e lo vanno a stringere. Un momento epico, dove questo grande uomo cerca e stabilisce un rapporto sentimentale col suo pubblico e lo trova. Cave è così: mentre tira fuori i suoi demoni e te li sbatte in faccia ha bisogno del contatto. Per tutto il concerto tocca il pubblico, lo guarda negli occhi come se si nutrisse della loro energia. Un rapporto vero, senza filtri. Da lì in poi lo spazio sotto il palco si riempie, per tutta la durata del concerto gente che sale e scende dal palco abbracciandolo, baciandolo, stringendolo, e lui da spazio a tutti e ricambia creando momenti comici che esaltano l’emozione dei temerari del palco. Un grande.

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Per chi volesse conoscere la scaletta eccola di seguito:

We No Who U R, Jubilee Street, Tupelo, Red Right Hand, Mermaids, The Weeping Song, From Her To Eternity, West Country Girl, People Ain’t No Good, Sad Waters, Into My Arms, Higgs Boson Blues, The Mercy Seat, Stagger Lee, Push the Sky Away, God Is in the House, Deanna, Papa Won’t Leave You, Henry, We Real Cool.

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Un gran bel concerto, due ore e trenta più o meno, come c’era da aspettarselo, il cui apice, per me, è stato “From Her to Eternity”. Ad un certo punto credevo cascasse l’Auditorium. Galattici i Bad Seeds, magnifico Nick Cave, un vero e proprio spettacolo Rock a dimostrazione del fatto che ascoltare la musica in streaming non è un cazzo in confronto a quello che un Live e in questo caso degli artisti di questo calibro possono regalarci. Peccato per l’auditorium, la cattedrale della musica con le sue poltroncine è risultata poco adeguata ad ospitare un demonio sregolato del Rock!!!

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Addio alla Pirateria musicale. Forse. (Seconda Parte)

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Ricordate Napster, prima piattaforma di download fatta chiudere nel 2000 dalle grandi case discografiche con un clamoroso processo simile a quello più recente a MegaUpload?  In quel caso si è trattato di repressione da parte delle major, impaurite dal nuovo, confuse e senza controllo sul mercato. Negli anni di Napster iniziò lo sfacelo, una battaglia senza senso “all’illegalità” senza rendersi conto che, in fondo, la copia dei supporti c’è sempre stata. Poi vennero i social network, My Space e poi Facebook, che aprirono le danze soprattutto alla condivisione dei contenuti prodotti su altri siti. La rete divenne il principale strumento di diffusione delle proprie opere. L’industria musicale, in tutto questo, ha perso introiti per oltre 15 miliardi di euro (a fronte dei 25 mld registrati nel 1999, oggi solo 8 mld).

Ma la colpa è veramente del Download illegale? Dello Streaming gratuito? Secondo noi no!!! Dietro questo evidente bagno di sangue si nasconde l’inadeguatezza delle major; al cambiamento si è preferita la guerra. Guerra verso i loro stessi consumatori, cioè noi che amiamo la musica e per mancanza di soldi a volte la “duplichiamo”. In Italia, invece, da una parte c’è sempre stata l’incapacità della musica di diventare internazionale, dall’altra l’inadeguatezza verso le tecnologie e le nuove forme di comunicazione e marketing. Quello della musica è un indotto che, da Napster in poi, si è mosso senza una guida, senza una struttura. La grande industria non ha avuto la capacità di innovarsi, con nuovi supporti, duraturi nel tempo ad esempio o di alta qualità come ha fatto il cinema, e ha perso le redini del gioco e per questo oggi ci ritroviamo ad ascoltare brani in Streaming illudendoci che ci sia un ritorno del vinile. Adesso ci sono le macerie di quello che era e basterebbe la buona volontà per costruire un sistema nuovo da dove ripartire; forse mentre scrivo tutto questo, sta già accadendo. Vogliamo lasciare gli spazi disponibili ai nuovi magnati del sistema? Vogliamo accontentarci delle briciole di spotify?

In questa seconda parte riprendiamo il discorso affrontato qui riportando le interviste a Danilo Di Nicola (The Incredulous Eyes), Maurizio Schillaci (De Rapage), Umberto Palazzo (Santo Niente) e Marco Lavagno (Waste Pipes).

Danilo Di Nicola (The Incredulous Eyes)
Credo che per una band emergente sia quasi una risorsa. Molte fanno circolare la loro musica gratuitamente per farsi conoscere o la mettono in streaming pubblicizzandola sui social network. Non so se il discorso cambierebbe in caso di notorietà, credo dipenda molto dalla capacità del gruppo di trovare delle “alternative” al loro fare musica che non sia solo dipendere dalla vendita dei dischi, anche perché la prova del nove per una band per me rimane sempre il discorso dei concerti. Noi abbiamo fatto due dischi finora ma non abbiamo pensato minimamente alla possibilità di andarci in pari. Fare dischi è semplicemente un modo per fissare il momento musicale della band.

Maurizio Schillaci (De Rapage)
Io voto SCHEDA BIANCA. Chi ci perde è il disco come oggetto. L’artista ha solo qualche Rolex in meno. Nessuno vuole fare musica per avere uno stipendio da ragioniere, nemmeno chi sull’artista ci mangia. D’altronde se manco su Emule ti cagano, povero te. Soluzioni? Nessuna. Tamponi? Meno IVA sui dischi; riforma della SIAE; concerto gratis a chi compra il disco. La band più famosa del mondo non potrebbe mai chiudere Youtube o bloccare Emule. Non tutti sono “Metallica contro Napster”. La meteora in cerca di fama brucerà da cameriere nel forno di una pizzeria e amen.

Umberto Palazzo (Santo Niente)
Il download è un argomento di ieri. Lo streaming legale, nelle sue varie forme, lo ha superato. Non ha più senso riempire l’hard disc di giga e giga di mp3 quando buona parte della musica che si desidera si può ottenere con un click e organizzare per l’ascolto come meglio si desidera. Inoltre lo streaming ci segue sul telefono, come fosse un IPod e sull’autoradio anche via bluetooth. I vantaggi sono ovvi: non ci sono i tempi di attesa della ricerca e della disponibilità, non c’è l’usura dell’hard disc e quindi la vita del computer si allunga tantissimo, non ci sono problemi d’ingombro fisico, non si può perdere l’archivio. Se qualcosa non si trova, il player di Spotify legge anche i file locali, quindi va a sostituire iTunes al 100%. Il mondo è cambiato e la fruizione della musica pure. L’industria del disco è finita e non si può fare altro che prenderne atto. Non si tornerà indietro. E’ ovvio che i musicisti non guadagneranno più niente dai dischi, ma il vinile e il cd hanno regnato per meno di cinquant’anni, mentre la musica esiste da sempre. I musicisti faranno come hanno fatto per secoli, guadagneranno suonando. Non esisteranno più le rock star, le uniche star saranno solo quelle televisive. Sarà un lavoro con il quale si guadagnerà poco, tutto qua e il cambiamento è definitivo. Il mondo appartiene ai nativi digitali e basta vedere l’atteggiamento di un qualsiasi sedicenne nei confronti della musica per capire dove va il mondo. Rimpiangere i dischi è come rimpiangere il cilindro di cera di Edison: è solo una perdita di tempo. Il tempo speso bene è capire dove si va. Ovviamente rimane il mercato dei collezionisti, un mercato di nicchia, che può essere anche di parecchie migliaia di copie a disco, ma per quello basta la vendita e la produzione diretta. Il disco come prodotto di massa è finito per sempre e non credete agli articoli sul ritorno del vinile o altre scemenze: le vere cifre dicono tutt’altro.

Marco Lavagno (Waste Pipes)
Indubbiamente per una band come la nostra il download è un aspetto chiave della promozione. Una persona in più che scarica il nostro disco è potenzialmente una persona in più ad un nostro concerto, che (se è dotata della mia stessa filosofia) alla fine il cd magari lo compra pure. Non siamo i più indicati per parlare di “bilancio”, abbiamo tutti un altro lavoro e la nostra musica è e sempre sarà in promozione. In ogni caso i nostri spiccioli nel salvadanaio non ammontano con i dischi ma con i live nei barucci a somme di poche centinaia di euro. Se poi fossimo una band famosa o una meteora probabilmente non faremmo storie, rimarrebbe la nostra entità di live band. E ci basterebbe sentire il calore di migliaia di aliti addosso. O semplicemente gli occhi di ormai attempate ragazze ancora arrapate per i nostri vecchi e gloriosi successi.

Come avrete capito, c’è ancora tanta confusione in merito. Spesso non si riesce a distinguere il danno eventuale subito dalle major (che dovrebbero comunque capire che un ventenne che scarica 100 dischi, senza download non avrebbe speso certo duemila euro per gli stessi dischi) dal vantaggio dei piccoli autori indipendenti che non avrebbero modo di diffondere le loro opere se non gratuitamente. Sono pochi quelli effettivamente danneggiati dalla pirateria ma hanno tanto potere il quale resta abbastanza saldo attraverso i canali radiotelevisivi ma si frantuma sotto l’imponenza del web. Le major non lottano per i soldi ma per non veder svanire il potere di decidere cosa farvi ascoltare, chi far diventare famoso e chi dovrà essere il prossimo a riempire gli stadi. Stanno combattendo una guerra che non potranno mai vincere, la stessa guerra combattutta contro Napster prima e Megaupload poi, senza comprendere che, per mantenere intatto il loro potere, basterebbe lasciarsi trasportare dal cambiamento, magari abbassando a dismisura i prezzi dei dischi, ricondiderando quelli dei biglietti e del merchandising e liberalizzando la diffusione dei formati di medio-bassa qualità in streaming gratuito. Invece continuano la loro guerra lasciando che altri squali nuotino nel mare di internet in cerca di un facile pasto.

Nel frattempo i “piccoli” musicisti si apprestano a guadagnare qualche soldo gettandosi a capofitto sullo strumento più antico a disposizione di un artista. Il Live. Almeno loro hanno capito che il futuro della musica è un ritorno alle origini ben più antiche di un 33 giri.

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Addio alla Pirateria musicale. Forse.

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Pirate

Mentre il mondo della musica si divide tra chi difende e chi attacca il download illegale, nel sottobosco della scena ultra emergente il free download diventa sempre più uno strumento utile per far circolare la propria musica e incrementare il numero di seguaci i quali, si spera, vedranno poi i concerti, compreranno il merchandising e supporteranno quelle stesse band che hanno messo la loro arte in condivisione gratuita. Ma qual è la strada e il futuro della pirateria musicale? Lo abbiamo chiesto proprio alle band che alimentano quel sottobosco, emergenti, esordienti, giovanissimi ma anche meno giovani che hanno iniziato a inseguire un sogno con un poco di ritardo senza tralasciare qualche nome ormai affermato, pezzi di storia dell’Alt Rock italiano che ancora hanno tanto da insegnare ai più giovani.

A loro abbiamo fatto queste semplici domande:

Download illegale. Pro o contro? Chi è la vera vittima del download musicale illegale? Come riuscite voi a far quadrare il bilancio, se i dischi non si vendono? Se foste la band più famosa del pianeta, oppure una meteora che deve trarre il massimo da quel breve periodo di notorietà, sarebbe la stessa la vostra posizione in merito al download illegale?

Ecco cosa ci hanno risposto:

Gianni Vespasiani (Fake Heroes e Too Late To Wake)
Non riesco a prendere una posizione netta a riguardo, si tratta di eterna lotta tra poesia ed economia. Economicamente (ovviamente) sono contro, ma pro se guardo alla mia posizione di artista emergente che come primo desiderio ha quello di far ascoltare le proprie produzioni. Chi è la vittima? Dipende di quale livello di notorietà si parli. In linea di massima sia le etichette che gli artisti sono vittime, soprattutto noi emergenti. Stiamo vivendo comunque una fase di cambiamento: i CD si vendono sempre meno e i fruitori pretendono accesso libero alla vasta proposta che c’è. Ecco perché il successo di Spotify. In teoria noi artisti dovremmo guadagnare almeno con i live e attraverso il merchandising, visto che i dischi non saranno più una forma di approvvigionamento economico. Qui si aprono due altri problemi: il monopolio della musica live e il disinteresse nell’inedito da parte della massa. Personalmente manterrei la stessa posizione in merito, facendone ovviamente una questione etica. Il primo obiettivo per cui ho imbracciato una chitarra non è stato quello di guadagnare. Proverei in entrambe i casi a reperire dai live il profitto necessario a proseguire il mio percorso artistico.

Alessandra Perna (Luminal)
Scarico dischi e non vedo perché altre persone non dovrebbero farlo con i miei. Se c’è un assassino quello è Internet, non del mercato musicale ma dell’arte in generale: ci ha dato la possibilità di non annoiarci mai, quindi ci ha tolto la possibilità di creare delle grandi opere d’arte. (E ci fa sentire tanto artisti sul web quanto siamo insignificanti nella vita reale.) Quando ci sarà un bilancio da far quadrare probabilmente starò facendo un altro mestiere. Se i Luminal diventeranno la band più famosa del pianeta poi ne riparliamo.

Lorenzo Cetrangolo (Plunk Extend)
Il download illegale ormai fa parte della vita di tutti, e non è certo compito mio giudicare se è un bene o un male. So solo che se un ragazzo di vent’anni dovesse comprare tutti i dischi che servono per rimanere veramente aggiornato su ciò che accade, avrebbe bisogno di qualcosa di più di uno stipendio mensile (ammesso che l’abbia). Le vittime del download illegale sono, economicamente parlando, etichette e artisti, ma questo è bilanciato da una più facile messa in circolo del materiale. Ci sono meno soldi per fare dischi, ma non credo che la musica ne abbia risentito più di tanto. Noi il bilancio non tentiamo neanche di farlo quadrare: avere una band è un progetto economico costantemente in perdita. È così e non c’è molto da fare: se te la senti lo fai. Io non riuscirei a farne a meno in ogni caso, quindi chissenefrega. Se fossimo la band più famosa del pianeta, avremmo mille altri modi per fare soldi, per cui sì, la posizione che avrei sarebbe la stessa.

Silvio Mancinelli (Straphon)
Sono contro l’illegalità perché chi produce deve essere ricompensato. La vittima é sempre la band. Non si quadra il bilancio se non sei la star. Sempre più spesso leggo di grandi gruppi inglesi o U.S.A. che fanno altri lavori . Chi fa deve essere pagato sempre.

Danilo Di Feliciantonio (Starslugs)
Sono pro download illegale perché qualsiasi cosa danneggi l’industria musicale mi trova favorevole. Si fanno quadrare i conti cercando di riappropriarsi dei mezzi di produzione, acquisendo sempre maggiori conoscenze tecniche e comunicative, evitando terzi e quarti passaggi che fanno lievitare i costi di realizzazione e vendita di un supporto. Si guadagna il rispetto di chi ascolta e si cerca di suonare dal vivo il più possibile per essere supportati, non “sopportati”. Non vorrei essere mai famoso o una meteora che deve monetizzare, se questo implica il dover correr dietro al primo che scarica un nostro pezzo o un nostro disco.

Angelo Violante (Borghese)
Niente ipocrisie: anche io scarico illegalmente. Con i sistemi tipo Spotify e Deezer ho diminuito per lo meno i sensi di colpa derivanti dal mio download selvaggio; di poco, visto la quota irrisoria e irridente di diritti che queste piattaforme restituiscono agli artisti. Penso che la soluzione di tutto sia la proposta live: sarei disposto a sacrificare la vendita se per me fosse facile trovare spazi adeguati dove suonare la mia musica e far pagare il mio concerto. Mina e Battisti hanno costruito imperi senza live, ora l’esigenza è opposta. E renderei obbligatoria una quota di trasmissioni in radio di produzioni italiane, come si fa con il buon vino o un buon formaggio, altre forme di arte nostrana.

Gianluca Torelli (Alvaro Van Houten)
Penso che per i download “illegali” bisogna applicare lo stesso discorso che si applica per fumo, alcol o qualsiasi altro bene illegale: tutto sta nelle scelte che noi facciamo, cioè, se vogliamo scaricare per fare uno sfregio a qualcuno o per necessità è dato solo a noi saperlo. Per il resto, io mi sento a favore del download musicale illegale perché credo sia un’evoluzione di quelle che una volta potevano essere le “cassettine” che ti facevi registrando le canzoni alla radio, inoltre, è un modo per reperire musica introvabile. E poi, le cose illegali sono più belle perché c’è l’innato fascino del proibito che è da sempre parte fondamentale dell’essere umano.

Nella seconda parte troverete le restanti interviste realizzate da me con Danilo Di Nicola (The Incredulous Eyes), Maurizio Schillaci (De Rapage), Umberto Palazzo (Santo Niente) e Marco Lavagno (Waste Pipes) più una introduzione affidata alle parole di Ulderico Liberatore in collaborazione con Silvio. A giovedì prossimo.

Di seguito una parodia del famoso spot antipirateria a metà tra il sarcastico, il divertente e il provocatorio.

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