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The Soft Moon – Deeper

Written by Recensioni

Decidere di fare i conti con i propri demoni non è mai un lavoro facile; se poi scegli di passare questo tempo di pura introspezione tra la nebbia dei canali di una Venezia spettrale e misteriosa, fra anonime maschere e freddi stucchi è probabile che la tua anima nera e buia si amplifichi e si dilati tanto da farti cadere lentamente in un percorso buio e tortuoso di esplorazione e solitudine. Questo viaggio, espressione di una profonda interrogazione di sé, lo racconta The Soft Moon aka Luis Vasquez nel suo terzo album Deeper. Un disco introspettivo, nero, claustrofobico, che eredita molto dai precedenti lavori, ma che al tempo stesso fa un enorme balzo in avanti in termini di sperimentazione e innovazione. Post Punk ed Elettronica continuano a essere l’humus di base, al quale però si aggiungono brani che contengono vere e proprie melodie e un cantato d’ispirazione Pop. La Dark Wave, gli anni 80, i Depeche Mode, i Kraftwerk, i Nine Inch Nails, il Kraut Rock, Minimal Man e l’Industrial e qualcosa dei Tear For Fears non sono altro che fili nelle mani di un esperto burattinaio, che con maestria confeziona undici tracce intese, catartiche, ansiogene, a tratti rabbiose, spesso sospese e rarefatte. L’atmosfera generale è dark, opprimente, seriale, il ritmo è uno degli elementi decisivi, cuore e veicolo di tutti i brani, martellante e sincopato in “Black”, modulato, esotico e primordiale nelle percussioni di “Deeper”, elettronico, ricco di bassi e danzereccio in “Feel”. Il tutto è sapientemente condito da synth distorti, incursioni martellanti di ronzii e sirene, suoni robotici, voci effettate, echi e riverberi. Tra gli undici brani le tracce più sperimentali sono “Try” dal sapore vagamente decadente e distante,  “Without” dove per la prima volta il piano e la melodia sono protagonisti e “Wasting”, che riesce a trasmettere il senso di solitudine e distacco di una base strumentale con un cantato delicato. Il gran finale, la risalita dopo la caduta, è affidato a “Being”, che ci lascia con un’ineluttabile verità e un nastro, che nel suo continuo riavvolgersi, ripete in maniera ossessiva “I can se my face”. Luis Vasquez ha realizzato un album inteso e coinvolgente, estremamente autobiografico e per questo maledettamente vero.

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