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Black Carpicorn – Cult of Black Friars

Written by Recensioni

Questo è il suono dell’occulto, dell’oscurità, di un girone dantesco tetro, ma descritto con minuziosa cura. Per spaventarci e allo stesso tempo per attrarci verso le sue malefiche grinfie. Pare proprio che i Black Carpicorn abbiano una venerazione verso queste diaboliche visioni e lo dimostrano anche in questo nuovo album (uscito guarda un po’ il 1 Novembre!). I metallari cagliaritani in questione vantano un buon successo nel mercato di nicchia del Doom Metal e nonostante i pesanti aggiustamenti di line up (sono passati da 5 a 3) non perdono fiducia e simpatia nei suoni lenti e pesanti, facendoceli cadere in testa come pietre che piovono dal cielo. L’intro di “Atomium” è confusa, pasticciata, con quell’inconfondibile groove di batteria che più lento e cadenzato non potrebbe essere. Un semplice giro di chitarra-basso disperso nel vento della distorsione, ripetuto in eterno per più di 4 minuti. Non un inizio memorabile, che ci manda subito ad un classico del genere: le campane della title track fanno rabbrividire e il riff ricorda gli splendori dei primi album dei Black Sabbath. E i maestri del genere escono prepotenti già dalle prime note. La voce di Fabrizio Monni, insieme agli accordi lunghi del suo chitarrone, sembra arrivare da tre metri sotto terra ed è religiosa, gutturale, una profezia, un sortilegio. La marcia satanica dura sette minuti e si chiude con le parole di Fabrizio in una lingua incomprensibile, versi che introducono una voce femminile che pare recitare qualcosa di orribile al contrario. E così parte “Hammer of the Witches”, headbanging lento e obbligato, ormai sembra davvero di essere nel bel mezzo di una messa nera. L’assolo di chitarra è affidato a Luca Catapano dei colleghi Black Wings of Destiny, bel suono e pieno zeppo di idee, con quel mood Blues che avvicina di più la band ai primi splendori del Doom, quello che ancora non veniva definito Heavy Metal, ma ricchissimo come questo di psichedelia e di suoni marci. I ritmi poi per fortuna accelerano un po’ con “Riding the Devil’s Horses”, basso e batteria cavalcano in una grigia e umida prateria, ben dipinta da questo brano strumentale. Subito dopo flauto e chitarra acustica introducono “Animula Vagula Blandula”, brano così efficace da farmi voltare spesso con il terrore di trovare qualche bestia orrenda dietro la mia testa. Il disco procede senza mai stancare anche nel suo lato B (si perché segnaliamo che l’album è stato concepito come vinile) tra riff sempre più scuri (“Cat People”) e punte di Space Rock nella conclusiva “To the Shores of Distant Stars”. La messa è finita e questo è il suo rito conclusivo. Si distacca dal resto grazie ad una voce che utilizza un registro stranamente alto, innaturale, ma che riesce ad invocare i demoni anche così, salutandoli per l’ultima volta. In attesa di qualche nuovo chitarrone che li faccia riesumare dagli inferi.

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