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Ottavia Brown – Infondo

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Di certo apprezzabile l’ impegno e lo stile con i quali Ottavia Bruno (ironicamente in arte Ottavia Brown) ha confezionato in autoproduzione la sua opera prima. Dalla cover all’artwork fino al packaging tutto è fatto in maniera professionale e con la voglia di non passare inosservata e apprezzabile è anche che progetto grafico e illustrazioni siano curate dalla stessa la quale, oltre ad essere compositrice è, per l’appunto, anche illustratrice di professione. Questo, però, è solo una luce fluorescente tesa a carpire la nostra attenzione. Ciò che conta non si vede ed è nascosto in dieci tracce in italiano scritte sotto la produzione artistica di Marco Franzoni.

Non fatevi confondere dalle mie parole perché il legame tra i disegni e la musica è molto stretto e necessario per comprendere l’estetica della Brown che, parafrasando le sue parole, al momento della composizione da spazio prima agli occhi e poi all’udito, creando così un legame tra un brano e il successivo come quello che si crea tra le pagine di un libro. Dieci canzoni che parlano d’inquietudine e sogno e raccontano di personaggi apparentemente distanti ma spesso uniti da ambientazioni favolistiche. Assolutamente godibili gli arrangiamenti e lo stile, miscela di Pop moderno e Swing anni 50, con venature Folk e tratti da Film Score Noir, il tutto ad avvolgere una voce gradevole.

Certo, con qualche sforzo in più in fase di scrittura e di ricerca melodica si sarebbe potuto apprezzare con più fermezza, tralasciando il fatto che la voce stessa non è nulla più che una piacevole voce di una seducente songwriter italiana. La costruzione stessa di testi, arrangiamenti, ritmiche e tutto il resto sembra studiata a tavolino per suonare irreprensibile tanto da mancare di coraggio, originalità e voglia di superare taluni limiti. A queste condizioni, è solo un disco ben fatto che, tutto sommato, stanca dopo qualche ascolto, non lascia il segno in nessuna delle tracce e mai riesce a trasportarci dove solo i migliori riescono.

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Il songwriter Michael Lane in tour in Italia

Written by Eventi

Massimiliano Martines – Ciclo di Lavaggio

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Leccese di nascita ma bolognese di adozione, Massimiliano Martines inizia la sua produzione nel 2009 con l’esordio Frottole. Pur affrontando strade Pop e commerciali (vedi partecipazione al programma tv Viaggio Dentro una Canzone su Rai5 o altre a trasmissioni Rai di vario genere) la sua formazione è di stampo soprattutto teatrale e questa sua predisposizione ha finito per influenzarne anche lo stile canterino ed espressivo, spesso teso allo Spoken Word e a un cantato più adatto al mondo del teatro che non alla forma canzone, fatto di vocalizzi estremi e cambi di tonalità frequenti e una timbrica a volte ai limiti della sgradevolezza. C’è dunque una quantità notevole d’input a forgiare il nuovo album di Massimiliano Martines; dovremmo aggiungere la pubblicazione di diversi libri di poesie e testi teatrali, uno dei quali con presentazione di Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, ma anche la sua attività di direttore artistico e organizzatore di eventi. Insomma, il materiale sul quale lavorare per la creazione di Ciclo di Lavaggio è innumerevole e da qui, il rischio di non produrre qualcosa di compiuto ma piuttosto un calderone confusionario in cui stili e tecniche si mescolino senza una propria anima. La verità sta in mezzo e per una volta la cosa non mi dispiace troppo.

L’iniziale “Amo le Novità” introduce un Massimiliano Martines che non ti aspetti, con una voce monocorde e profonda a scivolare su ritmiche ipnotiche e musica stridente, disturbante e psichicamente violenta. Eppure non è questo il cantautore che sentiremo perché presto le cose cambieranno, trasformandosi ora in un cupo Alt Rock anni 90 (“Tutto Uguale”, “Mi Sto Preparando”) dove la voce dapprima bassa e poi più alta, recita su brani essenziali, poi in tenui Folk Pop (“Perla Nera”, “La Scatola e l’Inganno”) dalle mille perplessità, con quella voce che sembra trovarsi per caso tra le pieghe della musica, con poco stile e un suono, un timbro, un’intonazione davvero fastidiose. Prova anche a giocare con il Pop Cantautorale (“La Polvere”, “La Guerra dei Fiori Rossi”, “I Colori dell’Autunno”, “Sogni Neri”) ma l’esercizio di stile non riesce e i testi, se non banali sicuramente senza mordente, finiscono per rendere ancor meno apprezzabili i brani. Molto più interessante la title track, in cui la prima parte scivola come un Folk Rock ritmato alle spalle di una voce che pare recitare monotone litanie per poi esplodere in un potente Alternative Rock, fatto di chitarre taglienti e ritmiche rabbiose con la voce a urlare alla maniera del più nervoso Capovilla. Ed è proprio quando Massimiliano Martines prende una piega aggressiva che finisce per convincerci maggiormente, quando urla e non quando recita o sceglie il falsetto. L’impostazione della sua voce diventa più incisiva, nonostante resti piatta, e l’apparato strumentale pare legarsi più saldamente a testi e parole. Il problema è che i brani in cui questo avviene sono una minima parte; il resto, come detto, è una serie di pezzi tra Folk e Pop, certamente ben costruiti, ma banali con Martines a declamare testi che, francamente, ci saremmo aspettati molto più interessanti (salviamo “La Guerra dei Fiori Rossi”, rilettura dell’omonimo film di Zhang Yuan che narra della repressione cinese infantile) e con un’impostazione e una timbrica che sembra un micidiale e mal riuscito cocktail tra Tricarico, Alessio Bonomo e Vasco Brondi. Ciclo di Lavaggio è un’occasione persa per Massimiliano Martines, occasione di dare un senso compiuto alla sua arte, di darne un’inquadratura precisa, definirne una strada e invece, ancora una volta, resta una moltitudine di elementi mescolati in maniera confusionaria, non sempre riuscita, con l’impressione che lui stesso non abbia ancora le idee chiare su quale estetica espressiva adottare per esprimere ciò che sente.

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Esercizi Base per le Cinque Dita – Disboscamenti

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Ho scoperto questo nome quasi per caso, su consiglio di un amico con il quale si parlava di canzoni tristi, malinconiche, angoscianti e funeste. Ho cercato di capire chi si celasse dietro ad un appellativo tanto strano ma le notizie erano sfuggenti e la stessa biografia assomigliava più a un esercizio di stile sarcastico che non a una vera descrizione dell’artista. Ho ascoltato il disco omonimo e ne ho apprezzato lo stile diretto, i testi provocatori e aggressivi, pieni di giochi di parole pungenti e ben supportati da un sound energico seppur minimale e quasi Lo Fi, con chitarre graffianti e sezione ritmica aggressiva. Ho ascoltato (le prove di zenobio) ed ho assistito a un deciso cambio di direzione, con un suono non troppo dissimile ma più attenzione agli arrangiamenti e soprattutto con una maggiore scrupolosità nella parte vocale, sia testuale sia musicale. La vera svolta arriva con Dalle Viscere, uscito nel 2013. Il Rock vigoroso e incontenibile dei primi Ep lascia spazio a una più deprimente miscela di Folk, Lo Fi, Slowcore; la voce si rinnova in maniera netta, volutamente monotona, sommessa, abbattuta. Il disco non ha niente di troppo originale, non sembra essere nulla che non si possa evitare di ascoltare eppure ha qualcosa che affascina oltremisura. Ogni brano parla di disperazione, suicidio, tristezza, dolore e ogni altra sventura umana in maniera talmente diretta e coercitiva che quasi pare un derisorio gioco di esorcizzazione del tormento. Credo di non aver mai inteso trattare un tema come la disperazione in modo tanto ingente. Questa era la forza di Esercizi Base per le Cinque Dita, la sua capacità di affrontare un tema delicato in maniera grottesca, quasi irreale, affogando le parole in un sound devastato come le frasi che recita, con uno stile vocale peculiare e incisivo. Partendo da questa premessa, la curiosità verso Disboscamenti era ovviamente tantissima ma con essa la consapevolezza che non sarebbe stato facile continuare il percorso di allontanamento dal sound convenzionale degli esordi eppure evitare un accanimento su quello stile velenoso che caratterizzava Dalle Viscere. C’è ancora un tema centrale nell’opera; questa volta si canta l’assenza, intesa come malinconia, segregazione, confusione, rimpianto, inquietudine e disorientamento. La cosa lascerebbe supporre una specie di capitolo due alla scoperta delle miserie dell’animo umano ma, come vedremo, Esercizi Base per le Cinque Dita riesce al tempo stesso a dislocare dal passato senza però arrivare a tagliare di netto i legacci che lo strozzano a se stesso. Più attenta la cura del suono e degli arrangiamenti, evidentemente grazie al lavoro di Giovanni Mancini, produttore artistico del disco, ma anche grazie all’aiuto di Matteo Panetta al violino, di Luciano Cocco alla batteria e di Simone Alteri alle chitarre. Sono introdotti elementi elettronici e Giovanni Spaziani (è lui l’uomo dietro al moniker) non ha paura di osare, con brani inquietanti e certamente fuori dal comune alternati ad altri indiscutibilmente più sbottonati e conformi agli standard del cantautorato più apprezzato. I punti di riferimento restano gli stessi del passato, De André, De Gregori, Dalla ma stavolta sembra aggiungersi lo stesso Esercizi Base per le Cinque Dita tra le influenze, cosa che può essere vista sia positivamente, come consapevolezza di uno stile personale e ben riconoscibile ma anche come un’incapacità di rinnovarsi davvero con adeguatezza. Disboscamenti è sicuramente il lavoro più curato della sua produzione, solitamente molto grezzo nei suoni, ma stavolta quell’indigenza non lascia crepe nel sound; Disboscamenti è però anche il lavoro più problematico, con l’obbligo incombente di superare il passato e queste difficoltà finiscono per delimitare i termini stessi del disco. Quasi tutti i brani sono un riassunto delle esperienze passate, quelle più Rock degli esordi e quelle più Slowcore degli ultimi tempi e l’impressione è che, anche nei testi, Esercizi Base per le Cinque Dita non abbia lo stesso mordente, con alcune forzature stilistiche di basso livello. Se dunque è evidente una crescita da un punto di vista estetico quello che viene meno è lo spirito di chi canta, come se non credesse davvero a ciò che sta cantando e, per il suo stile che punta moltissimo sull’empatia, è un chiaro punto a sfavore. Un’opera che va certamente ascoltata con attenzione, che io stesso sto ascoltando diverse volte e che mi fa mutare opinione ad ogni ascolto ma che, forse, poteva essere molto di più di quello che non sia in realtà. Se tre anni fa, Esercizi Base per le Cinque Dita aveva tanto da dire, ma non sapeva bene come farlo, ora sa esattamente come fare, ma non sa bene cosa dire.

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“A Metà”, il nuovo video di Eleuteria

Written by Senza categoria

Mi chiamo Eleuteria, il mio nome significa Libertà e sono una cantautrice e violoncellista”. Si presenta così Eleuteria, songwriter-violoncellista autrice di “A Metà”, nuovo brano che arriva come videoclip su YouTube a tre anni dall’omonimo ep d’esordio (2012) e anticipa a sua volta un futuro lavoro discografico previsto per i prossimi mesi. “A Metà” è una pop ballad leggiadra e vorticosa che rappresenta al meglio lo stile di Eleuteria e viene accompagnato da un suggestivo videoclip da oggi su YouTube per la regia di Alessandra Pescetta realizzato in un hotel dismesso a Riva del Garda. Il brano è stato suonato insieme a un piccolo gruppo di valenti musicisti bresciani che si muovono agilmente fra musica classica e pop formato da Ottavia Marini (Karenina) al pianoforte, Laura Masotto al violino, Francesco Zini (Karenina) al basso ed Enrico Brugali (Karenina, Le Capre a Sonagli) alla batteria.

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Top 3 Italia 2015 – le classifiche dei redattori

Written by Classifiche

I tre migliori dischi italiani di quest’anno secondo ognuno dei collaboratori di Rockambula.
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Other Houses – Bad Reputation

Written by Recensioni

Avete presente una band di nome Hollow Sunshine, mediocre formazione a metà tra Shoegaze e Funeral Doom Metal? Probabilmente no! Other Houses non è nient’altro che lo pseudonimo del vocalist di quella band, Morgan Enos ma non aspettatevi nulla in questo Bad Reputation di quell’esperienza passata. Proviamo a mettere da parte la copertina orrida che ritrae Enos photoshoppato male davanti al pianeta Saturno (almeno quello mi pare, non ho mai amato la geografia astronomica) photoshoppato male davanti ad un cielo carico di stelle e lasciamo anche perdere la scelta dei caratteri che neanche in un b-movie anni 80. Concentriamoci sulla musica del cantante multistrumentista (chitarre, batteria, synth, laser) aiutato solo al basso in “Yellow and Starship” da Reuben. Bad Reputation è fondamentalmente un album di un Songwriter Pop che prova a contaminare quest’attraente vitalità di facile ascolto con elementi propri di stili diversi e più settoriali, dal Lo Fi, al Post Punk, al Grunge, al Folk passando per una Psychedelia cosmica propria di qualche decennio fa. Tutto questo è fatto con molta cautela e l’aspetto melodico resta decisamente il nucleo palese dell’intera tracklist insieme agli arrangiamenti semplici ai limiti della banalità. La voce è fastidiosa, arrancante e i suoni scelti per arricchire lo scheletro strumentale dell’opera e l’apparato melodico sono ai limiti della decenza. Le stesse melodie, sulle quali si potrebbe provare a cercare l’ancora di salvezza, sono poco incisive, quasi bozze di qualcosa che non è mai nato, aborti artistici d’ispirazione malsana. Se l’idea era di omaggiare i grandi nomi del Pop Rock statunitense anni Sessanta/Settanta oppure quella di riprendere la strada delle band Power Pop Lo Fi degli Ottanta non possiamo che costatare un fallimento senza via di scampo.

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Mimosa – La Terza Guerra

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Attrice teatrale e cinematografica, ancor prima musicista, Mimosa Campironi esordisce con La Terza Guerra, un disco che racconta storie di donne ed amori, a volte violenti, a volte sbagliati. In undici brani viviamo una serie di capitoli in cui le carriere parallele della cantautrice si coniugano in continuazione come se ci trovassimo davanti a una risposta italiana alla statunitense Amanda Palmer: rimembranze del suo Dark Cabaret sono, difatti, presenti nella titletrack. E il che non disturba. Veniamo mandati indietro ai tempi del film muto e della comicità di fine Ottocento. “Arance” e “Fame D’Aria” ci ricordano con veemenza che ci troviamo nel 2015 e Mimosa regala magie con il suo pianoforte, molto più contemporaneo. E anche questo non è un male. “Gli Effetti” torna sui binari isterici dei Dresden Dolls: teatralità e giocosità a iosa. Dal sorriso alle lacrime in quanto la successiva “Fakhita” è dedicata alle donne trovate uccise in Africa, di cui spesso non si conosce neppure l’identità. Un episodio toccante che fa lievitare il voto di almeno mezzo punto. Delle seguenti composizioni segnalo “Voglio Avvelenarmi un Po’”, che gode di una ritmica che segue appieno la voce recitata dell’artista. Purtroppo sul finire regna una certa stanchezza dove il messaggio delle canzoni deturpa le canzoni stesse. Teatrale, sognante, triste, talvolta divertente: La Terza Guerra è tutto questo e molto più. Un album attuale concepito nel passato da una mente che ha un’esperienza enorme a dispetto dei suoi ventinove anni. Il confine tra arte e musica non è mai stato così labile.

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Frisino – Tropico dei Romantici

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Tropico dei Romantici non è un nuovo parallelo terrestre dedicato agli innamorati, ma è il titolo dell’album di debutto di Antonio Frisino, in arte solo Frisino. Pugliese di nascita, è un cantautore giovane ma al tempo stesso “d’epoca”, che propone un Pop immediato, orecchiabile con marcati richiami a melodie d’antan e uno stile che trae spunto dai grandi cantautori italiani degli anni 60 come Battisti ed Endrigo, ma anche da autori più moderni come Dalla, Conte e Venditti, senza escludere i contemporanei Di Martino e Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti. Tropico dei Romantici è un album classico dove la forma canzone strofa-ritonello-strofa è padrona assoluta, anche se i vincitori indiscussi sono i ritornelli coinvolgenti e diretti, dei veri e propri tormentoni già dal secondo ascolto, come nei brani “ Lontanissimo” e “Che Cosa Vuoi da Me”. Frisino, da bravo cantautore, pone molta attenzione alle storie che racconta e come, anticipa il titolo, il territorio sul quale si muovono i dieci brani è l’amore, sentimento che impregna totalmente i testi, che si tratti di riflessioni amorose, storie reali o incontri immaginari. Il punto di vista si sposta di frequente, a volte è personale altre è quello di un semplice narratore, ma da qualsiasi prospettiva Frisino ci propone un ritratto spesso amaro a tratti nostalgico del sentimento per eccellenza. Si parla di tradimento in “Con o Senza di Te”, di rimpianti amorosi in “Domani è un Altro Giorno” o rotture disastrose in “Le Tue Parole”.  Nonostante le pene d’amore narrate le melodie, altro punto fondamentale del disco, sono leggere, ritmate, ammiccanti, i suoni sono puliti, ariosi senza ombre e tormenti atavici. La delicatezza di Frisino e degli arrangiamenti dona ai brani intensità e veracità privandoli della parte più oscura e cupa. Tropico dei Romantici è un album per cuori teneri, per la maggior parte autobiografico, ma che racconta esperienze e sentimenti universalmente condivisibili che generano immediata empatia e coinvolgimento. I brani sono fatti per essere ricordati facilmente e richiamano alla mente le canzoni di Dalla e Battisti, che hanno cresciuto due, se non tre generazioni d’italiani. Un debutto promettente per un genere, quello cantautoriale italiano, sempre più ricco e vario.

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Alex Gavaghan – Binman of Love

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L’ex chitarrista della band Garage/Blues cult dei The Cubical, si cimenta nel suo primo lavoro solista con queste dodici tracce di cantautorato old style realizzate con la collaborazione di Keith Thompson. Brani intensi e melodici, minimali nell’arrangiamento ma non per questo meno capaci di evocare l’immediata ricerca di godimento del Pop come ovviamente scavare nella parte più emozionale della percezione sonora.

Lo stile, per quanto abbia la capacità non risultare anacronistico, pesca a piene mani nel Rock statunitense anni 50 e 60, nonostante le origini dell’artista siano nel Regno Unito ed egli operi a Liverpool. Si passa agevolmente dal movimentato Rock’n Roll ad un più consono Pop solo vagamente sporcato dall’attitudine Rock del britannico. Altri elementi caratterizzanti questo Binman of Love sono da ricercarsi nel Doo-Wop, con le dovute cautele del caso, nel Pop barocco appena accennato nei momenti più aggraziati, ovviamente nella tradizione Folk e Country. Una certa tendenza al Lo Fi talvolta regala briciole di Psych Pop, così come l’immediatezza e la leggerezza di taluni pezzi finiscono per scivolare nel Teen Pop e nel Bubblegum. Un disco che quindi, non solo riesce a suonare come un gradevole ascolto senza troppo impegno, ma che pare quasi un moderno compendio di tutta una tradizione yankee di cui la riscoperta pare essere dietro l’angolo.

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Laura Marling – Once I Was an Eagle

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Piccole sirene incomprese si fanno grandi. Proprio così a furia di rimestare nei fondi insondabili di certe sfighe personali e non si finisce prima o poi di farsi le ossa e crearsi il giusto quadrato d’ascolto in cui dilatare finalmente il confine delle righe scritte tra la musica e darle in pasto al vento e agli ascolti di massa. La cantautrice inglese Laura Marling si è fatta donna a tutti gli effetti e in questo Once I Was an Eagle il suo vecchio involucro di eterna adolescente di autrice del “vorrei” scompare dietro le quinte e al su posto arriva una “fragilità fortificata”, perfetta per non far passare più insidie e paure a venire.

Ha vinto la scommessa col mondo intero questa bella artista e mette in mostra una lunga sequenza di brani per stabilire la distanza tra sé e i limiti della creatività figurativa, la sua ora è una musica e una parola cantata profonda ed evocativa, rimangono in qualche pizzo i fantasmi e i diavoletti del suo ieri tristagnolo, ma poi un modo di guardare negli occhi nuovo appare, ripulito e meno chiuso. Magari ci vogliamo soffermare un attimo sul suo sofismo musicale? Siamo sempre sugli equilibri tenere e acidi di un Folk basicamente acidulo, ma le aperture che la Marling offre si sentono eccome, come del resto gli innesti di atmosfere di ricerca che sfiorano il Tibet e certe sue sensazioni “I Was an Eagle”, “Take The Night Off” o l’ancient Folk di casa propria “Once”, “Undine” tutte cose che hanno le tinte inconfondibile del nero notte, quello si che non è mai cambiato, ma rimane il segno distintivo di una donna musicista che nel suo nuovo mattino ascolta ancora quelle voci invisibili, ed è questo il valore intrinseco del tutto.

Chitarra acustica, una Joni Mitchell nel cuore e i Pentagle nei ricordi, gingilli indiani e ambientazioni boschivo/intimo come tele da riempire, offrono una cantautrice in piena forma, una dolcezza screziata sempre sul filo teso  della malinconia da ascoltare al buio e accarezzarla con delicatezza, una melodia femmina che rende al massimo se presa nei momenti viola della sera “Little Love Caster”, nei mandala percussivi di “Pray For me” e nel piccolo capolavoro di “Little Bird” un canto in solitaria assoluto che parla, dice e pensa in salsa latin la sua saudade di brezze e forme di donna, quella donna che la Marling orami calza tra cambi di scenario, di arcobaleni ed effetti ricchi di pathos.

Come si cambia, diceva la Mannoia, e al diavolo se non è vero!

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Calcutta – Forse…

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È scientificamente provato che vivere l’esperienza del viaggio nel tempo ha pesanti ripercussioni sul fisico e sulla mente. Io, ad esempio, ne ho vissuta una proprio di recente ed ora mi sento debilitato e fuori forma, faccio fatica a concentrarmi ed a portare a termine qualsiasi semplice azione quotidiana. A parte lo shock di essere catapultato ai giorni della mia adolescenza dove tutto sapeva di brufoli e marmellata, il trauma più grande è stato trovarmi faccia a faccia col me stesso di 20 anni fa che, traslucido di fronte allo stereo, mi ripeteva: “Non farlo, nooo!”. Un evidente caso di paradosso temporale, che avrà pesanti conseguenze sul mio futuro e forse anche sul mio passato. Forse prima di quell’incontro ero un ricco e lardoso figlio di puttana che se ne stava stravaccato sul suo yacht a contare soldi e prendere il sole… Ma veniamo al punto.
È successo che con estrema curiosità ho inserito nel lettore del mio stereo questo Forse… di Calcutta, un giovane cantautore di Latina che si propone forte solo della sua voce e della sua chitarra acustica, e già penso ad una di queste nuove leve dell’indipendenza nostrana tutta barba, occhiali da nerd e melodie esili esili pronte a buttarti nella malinconia e nella depressione. Invece nulla di tutto questo. Parte la prima traccia, Senza Aciugamano, che è da subito molto piacevole e ricorda lievemente i Grant Lee Buffalo per ritmica ed impatto, ma non solo… Il brano si fa ascoltare senza alcun impedimento e prosegue naturalmente fino alla fine, ma è netta una sensazione di deja-vu che ne permea l’esecuzione. Non riesco a capire cosa sia, bisogna andare avanti…
Solo al terzo brano il collegamento è ovvio. Me ne rendo conto quando davanti a me si materializza il poster di Lucio Battisti che mia cugina teneva orgogliosamente sulla parete più grande della sua camera e che ora è proprio qui, davanti a me, evocato dal timbro rauco e distante del nostro Calcutta. Mica roba da poco, direte voi. E no, rispondo io, ma ce ne sarà davvero bisogno? Vado avanti e non mi scoraggio, anche se i miei jeans sono improvvisamente diventati a vita alta. Calcutta si muove bene fra liriche accattivanti e acrobazie semantiche, ti lascia canticchiare ciò che hai appena ascoltato imprimendotelo bene in mente, a volte anche abbandonando strade già tracciate per avventurarsi in interessanti escursioni meno melodiche come in Nicole o nella spiazzante Il tempo che resta sing along, ma l’impressione che resti troppo ancorato al passato è evidente nella maggior parte dei passaggi. Intendiamoci, non che sia un plagio del buon Lucio con tanto di motocicletta e hp, ma questo Forse… ne respira appieno le arie peraltro conosciutissime e si confonde un pochino col già ascoltato. Pregevolissime sono comunque le citazioni (Arbre Magique), simpatico il tormentone dell’amico Enrico (Enrico), trascinante il non-sense (Cane) e interessanti le liriche (Pomezia, dalla quale Flavio Scutti ha tratto anche un video), ma forse non abbastanza per convincere chi ne è incuriosito ad apprezzare in toto il progetto che tuttavia si fa ascoltare ed apprezzare in quanto ad esecuzioni ed idee. Purtroppo la pesante eredità a cui si aggancia e che mi trasporta indietro nel tempo ne sminuisce la preziosità e non ne premia la bellezza anche se, ed è da rimarcare, è di certo un buon disco. È da sottolineare che il nostro si deve essere già cimentato col buon Lucio nazionale e che ne è sicuramente profondo conoscitore nonché artista che ha saputo far suo uno stile piuttosto che limitarsi ad imitare, ma per farsi conoscere ed apprezzare dal pubblico per le sue doti cantautoriali forse dovrebbe discostarsene ancora.
Comunque dal giorno in cui ho ascoltato Forse… comincio a rimpiangere i pantaloni a vita alta: controindicazioni da viaggio nel tempo.

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