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Aa. Vv. – Streetambula

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Streetambula è la compilation, di ben 20 pezzi in due dischi, che è stata prodotta in seguito all’ottima riuscita del concorso omonimo, svoltosi l’estate scorsa a Pratola Peligna (AQ). Prepariamoci quindi ad una carrellata dei brani presenti nei due dischi della compilation: due canzoni per gruppo più alcuni extra affidati ai De Rapage, vincitori del concorso.  Aprono le danze The Old School, che, come da nome, regalano una ballabilissima “Rock’n’Roll All The Night” da vera vecchia scuola, sorprendentemente solida e frizzante. Nulla di nuovo, ma di certo un Rock’n’Roll che sta in piedi e che avrà fatto agitare una buona fetta di pubblico. Ci spostiamo in zone più raccolte con “Gloom” de A L’Aube Fluorescente, che invece, a dispetto del nome altisonante, si buttano su un Rock alternativo lineare e molto inglese, anche piacevole se vogliamo, suonato con coscienza e scritto con criterio, ma senza guizzi particolari.

Doriana Legge ci fa prendere una piccola pausa con “Palinsesti”, arpeggi in delay, pad iridescenti di synth in sottofondo, voce alternativamente sospesa e teatralmente piena (anche troppo, a volte) accompagnata da cori leggerissimi, e poi si sale a cercare l’esplosione, il climax, che però non arriva: viene solo suggerito da una chitarra distorta e dall’andamento vocale (pesa forse il non avere in organico qualcosa di percussivo – una batteria – che sostenga il crescendo). I De Rapage, vincitori della kermesse, infiammano tutto con l’energica “Il Grande Rock In Edicola”. Sembra di essere tornati a cavallo tra gli anni 80 e 90, sommersi da riff in distorto sostenuto e batterie ossessive, dove rullo e charlie fanno da padroni, a combattere una guerra assai rumorosa con le voci, sguaiate e sporche, come ben si confà all’impianto ironico-divertito dell’ensemble. La potenza live della band è fuori discussione: granitici, anche se non danno molto di più dell’energia grezza che producono.

“Crazy Duck” dei Dem è una sorta di Blues che triangola tra percussioni povere e continue, riff elettrici pieni di ritmo e groove, e una voce femminile che non sbaglia una virgola. Esibizione stralunata e a mio parere molto, molto divertente, che si perde un po’ quando rallenta sugli accordi di chitarra ritmica – ma poi si riprende, folle come in partenza, in un inseguimento allucinato di chitarra e percussioni. Stravaganti il giusto per spiccare nella massa, orecchiabili quello che basta per farmeli riascoltare con piacere. Approvati. Di nuovo Rock energico, questa volta dai Too Late To Wake: “Smooth Body” parte infuocata, cassa in quattro, promettendo assai bene (zona Foo Fighters); poi rallenta, si appoggia su un Rock in inglese più smorto e banale, con una voce che, sebbene calda in basso, non brilla sulle alte. Niente di eccezionale, nel complesso, ma con qualche idea interessante sparsa qua e là.

Un intro sospeso tra gli anni 70 e gli Arctic Monkeys per i Ghiaccio1, che in “Roby” si lanciano in un brano veloce, con sezione ritmica indiavolata e una voce trasformista, che qua e là tocca la timbrica di un Giuliano Sangiorgi qualsiasi. Poi rallentano, si rilassano, e ripartono, con un basso che sembra rubato a prodotti vari di Lucio Battisti. Notevole il tentativo di miscelare mood e generi diversi in un brano di poco più di 4 minuti (la coda scivola verso sonorità Reggae, e aggiunge varietà all’esibizione). La canzone non rimane troppo impressa, ma nel complesso si fanno ascoltare con gusto. The Suricates aprono con un intro Noise a cui seguono arpeggi sognanti, in un racconto Post-Punk straniante e circolare (c’è un po’ di confusione in ambito vocale, ma verso la metà del brano la cosa inizia ad avere un senso e a suonarmi così com’è: una voce che grida, sporca, gonfia di delay, esagerata). Un delirio generale ammaestrato, che riesce a tratti ad ipnotizzarmi. Non male. 

Il Disco 1 si chiude con due extra firmati De Rapage che appaiono senza titolo: il primo, che dovrebbe intitolarsi “To Be Hawaii”, è una ballad in cui la band abbandona l’energia grezza del Rock italiano primi anni 90 per darsi alla leggerezza – sempre ironico-demenziale ovviamente. Devo dire che il pezzo sta in piedi anche musicalmente, con quel giro di chitarra facilissimo e per questo bello, paraculo ma bello. E mi sento di dire che avrebbe funzionato alla grande anche ad avere un testo più serio (ma non staremmo parlando più, probabilmente, dei De Rapage). Il secondo extra torna un po’ sul sentiero del già visto, si canta e si sbraita e si picchia e si ride, ritornelli da quattro accordi e strofe goliardiche, sempre suonando sporchi & granitici insieme.

 Passiamo dunque al Disco 2: ecco di nuovo The Suricates, stavolta alle prese con “New Islands”. Intro psichico e allucinato, qualche intoppo qua e là sul nascere nel reparto chitarre, per un brano che stenta a decollare, ma poi si riprende: lento, lungo, ipnotico. Soundscapes di pianoforti, chitarre che si rincorrono, ritmiche incalzanti. L’onda scende, poi risale. Strumentale ed allucinatorio. Torna Doriana Legge, stavolta con un bel palm mute ritmico di chitarre ad introdurre “Scambisti Alla Deriva”. L’impianto è abbastanza confuso, con qualche imprecisione sparsa. Si è sempre dalle parti di una canzone d’autore post: c’è molto Lo-Fi, c’è molta teatralità, manca forse un focus maggiore. Il pathos, invece, c’è tutto. “Lisergia” per i Ghiaccio1: abbandonate le velocità Indie-Rock, ci si butta su un simil-Western con copiosi bending e momenti di frizzante distorsione strumentale. Un po’ peggio, un po’ noia.

I Too Late To Wake iniziano epici e brillanti la loro “Grey For A Day”, un Rock lento e malinconico, che, sempre senza sorprendere troppo, si dimostra composta con mestiere, mentre la voce ancora pecca nel registro alto (purtroppo). “Ngul Frekt Auà”, dedicata agli “alternativi del cazzo con la barba”, è il secondo pezzo “ufficiale” dei sempre più ghignanti De Rapage. La musica s’è ammorbidita e l’intento ironico è più preciso e affilato. Rischiano più volte di scadere nel cattivo gusto tanto per, ma qualche colpo di reni all’ultimo secondo sembra salvarli (il ritornello in dialetto, ad esempio – e chissà poi perché). Mi avevano lasciato con una simpatia inspiegabile nelle orecchie, ritornano un po’ meno luminosi e un po’ più piatti i Dem, che in “Ready If You Want Me” abbandonano la (bella) voce femminile per un cantato maschile più piatto, e un registro, in generale, più seventies. Sempre minimale, sempre percussioni leggere, chitarre frizzante e voci, il brano, sebbene sia sempre fuori di testa e pieno di arzigogoli ritmici e strutturali che proteggono lo spettatore dal disinteresse eventuale, non riesce a rimanermi incollato come quello del Disco 1. Sempre più inglesi e sempre più compatti gli A L’Aube Fluorescente (e più me lo ripeto, più il nome mi sembra figo – fuori di testa, ma figo). “Lizard” è un fascio di luce coerente e orecchiabile, che mi fa muovere la testa a ritmo, scritto bene e con una voce davvero poco italiana. Anche qui, niente di particolarmente nuovo, ma il lavoro è fatto bene, e potrebbe bastare.

Li abbiamo inquadrati nel Disco 1, non fanno che confermarsi qui: The Old School si presentano nella loro “We Are The Old School”, un Rock’n’Roll come dio comanda, e non c’è davvero bisogno che vi dica altro – nel bene e nel male.  Chiudono il party, come sopra, i De Rapage, con due ulteriori extra: sempre Rock energico, sempre la demenza più spinta, con argomento, nello specifico, l’omosessualità e la terribile esperienza di terminare il rotolo di carta igienica (con una variazione-litania: “mestruo, assorbenti, ciclo, vomito”… ci siamo capiti). 

Concludendo questa lunga carrellata di presentazioni varie: la compilation di Streetambula sorprende, e molto, perché una qualità mediamente così alta non era preventivata. Certo, l’audio non è dei migliori, le imprecisioni ogni tanto si fanno sentire, e tante band magari devono ancora mettere a punto qualcosa nei reparti tecnici: ma l’inventiva, la varietà e la passione che si possono trovare dentro questa compilation dimostrano che in giro c’è veramente tanta gente che ha qualcosa da dire. Il futuro sarà fatto di miriadi di band, che vivranno in una galassia musicale sempre più ampia e variegata, e ognuno di noi avrà mille sfaccettature da scoprire, senza doversi per forza aspettare la grande band dei nostri tempi. Iniziamo a guardarci intorno: date un’ascoltata a questa compilation e potreste incrociare qualcuno che vi convincerà a seguirlo con curiosità. Non si sa mai.

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Daughter – If You Leave

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È pieno inverno nel disco d’esordio dei Daughter, uno di quegli inverni che arrivano all’improvviso a spaccare mani e labbra dal freddo, e che sembrano non volersene più andare. “Winter comes, winter crush all of the things that I once loved” canta Elena Tonra in “Winter”, prima traccia di If You Leave, ma non è il canto disperato di chi vede scomparire il suo mondo sotto una spessa coltre di neve. La voce rimane pura, dolcezza e delicatezza conferiscono un tono più soft ai momenti tormentati della vita ampiamente trattati nei testi nell’album, non per sminuirli, ma per renderli semplicemente più leggeri; neve in gennaio che cade lenta e si appoggia, non raffiche di vento che spazzano via tutto.

È un inverno di un bianco minimalista quello dei Daughter, la chitarra di Igor Haefeli non si perde mai in inutili virtuosismi. Il silenzio leggero delle cose si palesa sotto la forma di un suono essenziale e pulito che crea un’atmosfera intima e raccolta con momenti di slancio, certo, (vedi il crescendo con cui si sviluppa “Smother”, vedi le distorsioni nella seconda parte di “Lifeforms”) senza però mai raggiungere momenti di esasperazione. Stesso discorso vale per la batteria di Remi Aguilella, mai protagonista assoluta; con la sua precisione ritmica preferisce spesso mettersi da parte (come nella prima parte di “Youth” ed in molti altri brani) piuttosto che rovinare l’armonia del tutto con un suono invadente.

È come un’ eco continua il disco dei Daughter , una presenza costante a volte più accentuata, a volte poi meno potente, sempre presente ma mai impattante. Un sottofondo, un sussurro, un respiro, ottenuti con effetti di riverbero ed estensioni del suono che conferiscono all’intero album un’atmosfera intima, profonda, ereditata probabilmente dai Bon Iver ma accentuata, rispetto a questi ultimi, dalla presenza della voce femminile di Elena Tonra, molto vicina a quella di Cat Power, intensa ma allo stesso tempo quasi al di sopra dei turbamenti che canta.

È un disco pieno di puntini di sospensione quello dei Daughter, per l’attimo di stupore che lascia al primo ascolto e per il futuro del trio, che se seguirà le orme del loro album d’esordio sarà sicuramente da tener d’occhio.

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I Quartieri – Zeno

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C’è una teoria abbastanza strampalata sull’evoluzione della cultura giovanile che lega le ondate e i riflussi di alcune modalità d’espressione, non solo artistiche, ai cicli solari. Formulata da Iain Spence nell’ormai lontano 1995 e poi più volte modificata e ritrattata, viene esposta anche dal grande Grant Morrison nel suo libro semi-autobiografico Supergods.

Per farvela breve, una versione di questa teoria collega i cicli solari, di 11 anni, a come nascono e si sviluppano le youth cultures. In particolare, si possono (o potrebbero) notare due poli: uno hippie, che si porta dietro la passione per capelli lunghi, vestiti larghi, musica popolare in forme dalla durata mediamente più lunga, droghe psichedeliche, pace, e un interesse maggiore verso la spiritualità; l’altro punk, che implica il contrario, ossia capelli corti, vestiti stretti, musica più corta e immediata, droghe eccitanti, aggressività, materialismo.  Secondo questa teoria, nel 2010 dovremmo essere tornati alla fase hippie, ed effettivamente (per quanto l’ipotesi Sekhmet, questo il nome, non sia basata, ovviamente, su nulla di scientifico) noto uno svilupparsi sempre crescente di situazioni collegate a questo “polo”.

Per esempio, se fossimo in un periodo punk, questo bell’album de I Quartieri sarebbe forse di un pop più acustico, più folkeggiante/cantautorale, un po’ più ruffiano, un po’ più paraculo. E invece, per nostra fortuna, siamo nel 2013: la band romana ci regala Zeno, un album denso di Pop Rock sognante e, per l’appunto, psichedelico. Pop Rock perché il Pop sta nella leggerezza e nell’immediatezza catchy di alcuni “ganci” incredibilmente efficaci, nella messa in scena più che accessibile, nelle voci morbide, distanti, e dal timbro assai caratteristico; ma la forma, espansa e avvolgente, dei loro morbidi soundscapes è molto Rock, nell’accezione più ampia del termine. Capiamoci, niente chitarre distorte e batterie fucilate, ma piuttosto uno spirito Rock, molto sixties, per l’appunto: psichedelico, “psiconautico”, pacifico, spirituale, in senso lato; poco materialista, se preferite.  Zeno è una carrellata di visioni spiraleggianti, circolari. Dall’apertura “9002”, una processione lenta, vicina a certi Arcade Fire, fino alla title track, che parte più classica ma poi si apre su movimenti imprevedibili, e ti entra sottopelle con lenta facilità (o facile lentezza, fate voi). Da “Organo”, traccia conclusiva che richiama i Low più ariosi e sintetici, alla mia preferita, “Argonauti”, con quel giro armonico e quella melodia che si fissano là, tra la gola e le orecchie, e lì rimangono, per ore, a ruotare, lente.

 Nel complesso, un’ottima prova quella de I Quartieri, che riescono ad accompagnarci con tranquillità su e giù per tutto il nostro spettro emotivo, anche se, bisogna ammetterlo, Zeno funziona al suo massimo quando si tratta di immergersi nei fondali oceanici: quando naviga a vista, sotto costa, ci rapisce un po’ di meno e si confonde un po’ di più. Ma questa è senz’altro colpa del ciclo solare hippie, che ci condannerà a psicanalizzarci in musica per almeno altri sette anni…

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Ghiaccio1 – The First EP

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“Non crediamo nell’esistenza dei generi musicali, la musica è un fiume ed è unica, dunque nelle nostre canzoni potrete trovare le influenze di numerosi artisti e numerose altre band”.

È così che si presentano i Ghiaccio 1, quattro (ora diventati tre) audaci e bizzarri musicisti del teramano che mossi da una certa genuinità smaliziata e liberi da ogni pregiudizio, fanno con la musica un po’ quel che vogliono. Ho avuto il piacere di vederli sul palco di Streetambula, contest dedicato a formazioni emergenti Pop e Rock che si è svolto lo scorso 31 agosto a Pratola Peligna e ora vi racconto cosa ne penso. È vero, il loro intento è quello di non aderire a nessun genere in particolare; forse ci riescono o forse no. In realtà il filo conduttore del loro primo lavoro, una demo di quattro tracce, è un Pop camaleontico che assume forme e sfumature diverse durante tutti i sedici altalenanti minuti.

“Tic Tac” parte con un liquid guitar, un basso pulsante e una batteria marziale che si fondono in un Funky abrasivo e incalzante che però puzza di un po’ di Negramaro. “Mary” col suo ritmo allegrotto condito da sferzate di feedback e virate Psych Rock, è un evidente richiamo al Folk italiano che inaspettatamente s’incupisce grazie a un infantile e macabro carillon burtoniano. “Lisergia” è di certo il loro pezzo migliore, chiaro è il riferimento all’immortale Psichedelia di stampo floydiano ed è qui che le capacità tecniche dei nostri giovani abruzzesi si fanno avanti, la voce di Alberto Di Festa perde l’inclinazione melodica per farsi più matura e aspra, chitarre e batteria procedono fluide e decise. Nella conclusiva “Labbra e Fauci” di nuovo prepotente il bisogno di Di Festa e compagni di non rispettare nessun canone musicale proponendo un improbabile connubio tra Verdena e le Vibrazioni conditi con un pizzico di misoginia.

È chiaro i Ghiaccio 1 hanno un forte desiderio di sperimentare, quasi per non sentirsi etichettati o incatenati a un genere preciso; il problema è che la loro eterogeneità rischia d’incamminarsi verso l’inconsistenza, o meglio, nella spersonalizzazione. È bene che s’incanalino invece verso tendenze quantomeno più precise e circoscritte, che costruiscano uno stile personale e riconoscibile, è questo ciò di cui hanno necessariamente bisogno i Ghiaccio 1 e non c’è niente che gli impedisca di riuscire.

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Luca Mancino – Libera

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Il dubbio su Luca Mancino e il suo ultimo album Libera mi è venuto già alla lettura del comunicato stampa che lo accompagnava: “…un concentrato di semplice tradizione pop-rock italiana, che non si risparmia di percorrere strade giù [sic] battute […]Ecco l’esordio di Luca Mancino, cantautore molisano che fa il suo ingresso nel mercato discografico con un lavoro che ha tanto da dire, con la semplicità e l’ingenuità di chi non ha la presunzione di inventarsi e di voler stupire”.

Al che mi chiedo: è davvero presunzione, voler inventare, o inventarsi (?), o voler stupire? Non è ciò che ha spinto la musica, anno dopo anno, disco dopo disco, sogno dopo sogno? Sono troppo idealista, forse, e dovrei leggere questo disco per quello che è: un prodotto commerciale (nel senso proprio della parola: destinato alla vendita). Ma perdonatemi, ho una certa impostazione mentale che, purtroppo, non me lo permette. Di certo non è l’unica possibile, e forse non è neanche quella giusta, ma è la mia, e sono condannato ad utilizzarla ogni qualvolta mi capiti di dover dare una sbirciata al mondo.

E quindi: Libera è un disco prodotto egregiamente dal certamente capace Domenico Pulsinelli, e si snoda in nove canzoni di un Pop-Rock italiano dei più triti mai sentiti. Fantasmi vari infestano le tracce di questo disco, soprattutto nel timbro e nell’uso della voce (Ligabue, Negrita, Enrico Ruggeri). Poco, pochissimo, riesce ad aggrapparsi e a farsi ricordare, in particolar modo nei testi, che non brillano certo per originalità.

In sostanza, e senza perderci troppo tempo: un’operazione del genere ha senso se è il mezzo per dare spazio ad un performer eccelso, istrionico, eccentrico, che si appoggia sul già sentito per stracciare sul loro campo altre realtà dello stesso tipo, passate e non, che hanno già dimostrato di saper dare qualcosa. Purtroppo non mi sembra che Luca Mancino abbia queste qualità: se avesse cercato di crearsi un suo spazio sarebbe di certo risultato più interessante. Ma, a quanto pare, non ha la presunzione di inventarsi, e quindi rimane la copia sbiadita di altri cento identici prodotti.

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Giorgieness – Noianess EP

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Noianess è l’Ep di debutto dei Giorgieness, trio di Morbegno (Sondrio) formato da Giorgia D’Eraclea (voce/chitarra), Samuele Franceschini (bassista) e Andrea De Poi (batterista). Tre ragazzi che vogliono uscire dal mucchio provando a mescolare testi taglienti accompagnati a del sano Rock italiano. Quattro brani veramente curati che mostrano l’impegno e la voglia di emergere a tutti i costi.

Nel complesso l’ascolto scivola fino alla fine del disco senza problemi, soprattutto per l’ilarità dei testi che contengono situazioni sentimentali tipiche dei nostri giorni: Incomprensioni (“c’era più anima sotto quel grasso / ora da lucida vedo tutto”, conversazioni telefoniche (“magari sta sera ti chiamo ho visto che mi è finito l’orgoglio / e se sei così gentile da prestarmene un pò”), farfalle nello stomaco (“con le farfalle che hai  messo sotto vetro / e nel tuo stomaco finiscono i tramonti”) e bisogno di spazi propri (“buona notte amore / dimmi che posso stare ancora nel tuo letto troppo grande per un po’ / e se ti manca l’aria e non puoi respirare / allenta le catene ma non le spezzare”). E sono proprio i testi la parte forte del disco uniti ad una potente voce piena, a tratti aggressiva, che però, per i miei gusti, fa troppo uso di compressori vocali che tendono a sterilizzarla. La melodia è ben studiata e in sé ha tutto ciò che serve ad una canzone per rapire il pubblico con un mood altalenante di riff aggressivi e melodie suggestive. Non a caso la produzione è stata affidata ad Andrea Maglia chitarrista solista che si affianca ai Tre Allegri Ragazzi Morti nei loro ultimi Tour. Un buon prodotto che suona Pop per intenderci.

I Giorgieness con questo Ep si buttano nella mischia del Pop Rock Italiano, terreno scivoloso e già carico di personalità. Per questo dovranno tirare spallate per farsi breccia nel mainstream nostrano, perché quest’album è a questo che punta!!!

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Human Thurman – Bye Bye Umani

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Gli Human Thurman escono con quest’album, primo full lenght, Bye Bye Umani. Un saluto all’ipocrisia umana, una critica alla modernità, un disco che attraversa i temi “umani” più generali con frizzanti melodie che assomigliano a dei jingle pubblicitari. Una via di mezzo tra Caparezza e Tonino Carotone con sprazzi di Indie Rock qua e là. Gli Human Thurman sono Giovanni (Voce, Chitarra), Armando (Rap, Samplers, Sax, Regia), Emidio (Rap, Visuals), Regina (Voce, Cori), Gianluca (Basso), Domenico (Chitarre,Pianoforte,Tastiere), Adriano (Batteria,Percussioni), Enrico (Tape Noises) e quest’album si rivela un viaggio musicale variegato. In ogni traccia si possono ascoltare le sfumature dei singoli in un piacevole mix di strumentazioni diverse. Ogni artista da il suo contributo producendo un’onda musicale che sfuma e sfocia in diversi percorsi sonori.

Tra i brani più interessanti possiamo ascoltare il singolo “Laika”, “DublinLullaby”, “la Fiera Delle Vanità”, “Dancing With Uma Thurman” e “Aspettando il Diluvio”.

Un album eterogeneo che si lascia cavalcare tra un sax e una voce rap, tra samplers e pianoforte lasciandoci in bocca il dolce e l’amore del nostro bellissimo paese. Anche se a dir la verità si sente la mancanza di una trama che dia un identità nitida agli Human Thurman o forse bisognerà solo aspettare perché sulla strada giusta già ci sono.

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LaCorte – Grande Esposizione Universale

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La grande esposizione universale nasceva come termine per indicare le grandi esposizioni tenutesi fin dalla metà del XIX secolo in giro per il mondo. Viene da chiedersi cosa lega LaCorte, gruppo composto da quattro giovanotti brianzoli, al mondo delle EXPO. Senza dubbio il titolo del loro nuovo album, Grande Esposizione Universale ma non solo. Insieme dal 2008, dopo un EP e un album registrati in presa diretta, escono con 10 brani, alcuni nuovi altri tratti dall’album “Percezioni Di Vita Distorte”, dal sound più definito e curato. Genuini, senza troppi fronzoli, Pop nell’accezione più positiva della parola, universali nel senso e nelle sonorità, come le celebri esposizioni. Ecco il legame che cercavo. Se si ascoltano con cura le parole si coglie in prima battuta come i testi lineari, non necessariamente fioriti e ricchi di richiami a mondi iperuranici, sono diretti, immediati, comprensibili e le emozioni di cui parlano sono reali e facilmente percepibili. Essere universali da questo punto di vista spesso richiede doti di sottrazione, piuttosto che di aggiunta e i brani rispecchiano la magica regola anche sul lato musicale: un basso, due chitarre e una batteria sono quello che basta ai LaCorte per confezionare i loro pezzi. Ci sono brani come “Peter Parker e Mary Jane” e “Provinciale Per Il Paradiso”che suonano subito come possibili hit da raccolta e che sicuramente un pubblico ampio apprezzerebbe. La voce di Davide Genco è piena, rotonda, poco spigolosa e senza perdersi in eccessivi virtuosismi, aggiunge il giusto colore ai brani, in “7 Vite” si riesce ad apprezzarla in pieno sotto questi aspetti. Sebbene come già detto i dieci brani svelino l’anima pop del gruppo la scelta di non cadere nel trappolone del lento melanconico alla The Calling li premia. La seconda parte dell’album, invece, svela generose influenze provenienti dal mondo del rock. Ascolti senza dubbio di spessore, come da loro stessi citati sui loro canali web, che si concretizza con l’aggiunta di suoni distorti e una batteria più dinamica come in “Contro Di Te”. Nel complesso tutto suona bene, ma i brani inediti, a discapito di quelli ripresi dal precedente lavoro, hanno maggiore forza e presa, probabilmente perché figli di un percorso di crescita del gruppo stesso, che ci auguriamo continui e li porti a proseguire nel lavoro di perfezionamento. Nel non sarà l’album che li porterà alla ribalta, ma rappresenta senza dubbio un ottimo passo.

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Elya – Il Mio Canto è Questo Rock

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Poesia e rabbia nel nuovo disco del cantautore Elya. Un lavoro maturo che arriva a piantarsi come una pietra miliare nel cammino artistico di uno spirito fedele alla linea del rock d’autore. Sei brani aperti dalla hit “Il Mio Canto è Questo Rock”. Pezzo di pura espressione vocale dove il cantautore riesce a trasmettere a pelle, complice anche un testo ben calibrato, la sua carica emotiva. Capacità espressiva legata a sonorità ritmiche, calde e sempre incalzanti anche nel secondo brano, “La Luna Ora lo sa”. Più riflessiva e melodica la terza traccia “Ci Sei tu”, che denota ancora una volta, la buona fattezza dell’intero disco. Ottimi arrangiamenti e tanta cura che per l’ascoltatore, diventano un vero e proprio marchio di fabbrica. Un risultato forte, ottenuto dalla produzione artistica curata da Fabio Pignatelli, storico bassista dei Goblin earrangiatore dei maggiori cantautori italiani fra i quali Antonello Venditti. Un valore aggiunto che si somma alle collaborazioni di Toti Panzanelli (chitarrista – Ferro, Concato, Pravo, Venditti), di Alessandro Canini (batterista e produttore artistico – Fabi, Gazzè, Mengoni, Venditti) e di Fabio Colella (batterista -Molinari, Bosso, Neil Zaza). Collaborazioni arricchite dai preziosi contributi di composizione ottenuti da Elya e da Giuseppe Ferroni. Duo che insieme agli arrangiamenti di Pignatelli hanno dato vita anche alla quarta traccia “L’Incantanta”.Pezzo che parte da una rivisitazione di un antico canto della zona della città dell’Aquila, per diventare un invocazione d’amore, quello vero, che va oltre l’apparenza del corpo e del viso. Unione d’anime scolpite in poco più di tre minuti e mezzo da una ritmica coinvolgente e da un canto ispirato ed emozionante. Nel disco c’è anche spazio per una composizione di Beppe Frattaroli (compositore – Turci, Tosca e collaboratore musicale di Paola Gasmann, Montesano, Pagliai). Ritmi cadenzati nella quinta traccia: “Capita Anche a te”. Un messaggio a non lasciarsi andare e non smettere di inseguire i propri desideri. Chiude il disco, ma solo per il tempo di ricominciare l’ascolto, una riuscita cover di “Quanto t’Amo”di Johnny Hallyday scritta in italiano da Bruno Lauzi. Elya ha voluto che il ricavato ottenuto dalla distribuzione del disco venisse devoluto alle Missioni Francescane del Burkina Faso in Africa.

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Amari – Kilometri

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Spazio e tempo sono due concetti astratti che vanno di pari passo. La musica poi sembra essere la loro concreta attestazione. Il tempo è quello endogeno del metro, del ritmo, della scansione sillabica, degli accenti. Lo spazio è l’orizzontalità dello spartito, il cursore che scorre sul vostro lettore, ma anche il luogo reale in cui ne fruite e quello immaginario in cui vi conduce. Gli Amari ci offrono la loro ultima fatica, Kilometri, come unità di misura di un’ideale dimensione spaziale anzitutto ma anche, conseguentemente, temporale,  in cui l’ascoltatore viene sospeso e condotto sin dal principio, da “Aspettare, Aspetterò”, in cui il ciondolare ritmico a tratti dub scandisce il tempo e imita una camminata spensierata, sottolineata dalle rime, ma smascherata nella sua vera essenza riflessiva dal verso “Capire se il mio tempo ha lo stesso valore del tuo”. “Ti Ci Voleva La Guerra” è un brano ironico, in cui l’artista sembra riflettere sulla propria condizione, affermando che  “Per rompere la bolla non basta una canzone”. E si capisce subito che questi ragazzi nascondo una grande serietà dietro la maschera dell’ironia e delle rime scontate sul modello sanremese, come conferma “Africa”, in cui la frase “Prova a spiegare la provincia a chi sta in Africa” ci rimanda in un attimo alle ultime discussioni politiche sull’accorpamento degli enti provinciali se non addirittura sulla loro abolizione, così come ci porta a riflettere sui tanti immigrati stoccati in case di accoglienza di cui si sente parlare per due giorni per poi dimenticarsene. Il singolo di lancio, “Il Tempo Più Importante” è la canzone più dichiaratamente riflessiva: una ballata pianistica in cui ci si concentra maggiormente sull’amore e sul tempo, che “non c’è più”, la cui ripetizione ossessiva viene scandita alla maniera di Francesco-C. Azzeccato è il dialogo che si intreccia tra basso, tromba e voci in “Il Cuore Oltre la Siepe”, mentre la mia personalissima coccarda per il miglior testo va a “La Ballata del Bicchiere Mezzo Vuoto”: il pretesto del ricordo del corteggiamento diventa occasione per meditare su se stessi, i propri cambiamenti e le pirandelliane centomila proiezioni del sé negli occhi degli altri. “A Questo Punto” a me ha ricordato il terremoto de L’Aquila. Non credo assolutamente fosse il riferimento primario per la costruzione del brano, che sviluppa ancora una volta una riflessione sull’individuo, ma la citazione della “casa dello studente” e il protagonista del testo che trema, mi ha ricordato quei tragici fatti. La title-track, “Kilometri”, è la più fumosa, densa e cupa di tutto il disco, costruita su una melodia arpeggiata e ipnotica in cui addirittura l’apertura del charlie della batteria diventa tematico. “Rubato” riassume perfettamente l’iniziale considerazione sul tempo e lo spazio: “La domanda non è dove, ma quando”.
Gli Amari sono una band facile da ascoltare e difficile da recensire; il disco non è immediato nella sua profondità, ma non fatica certo a farsi studiare. Ben riuscito davvero.

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David Bowie – The Next Day

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Dopo dieci anni, il Duca Bianco è tornato a farsi sentire con un disco nostalgico e dolente, “The next day”, quattordici tracce che rompono un silenzio – molti indicano per scarsa creatività – in cui sono sorte idee, malelingue e istintività represse circa una fine non annunciata dell’arte di Bowie, col senno di poi degli ultimi flop discografici; invece è qui con i suoi occhi glaciali e  sessantasei anni sulle spalle a togliere dubbi e a rimettere in circolo la sua stupenda immagine deluxe in continua trasformazione.

Ma se la fisicità oramai risente di lente demolizioni, la musica e l’alchimia affatto, certo un disco che stringe immagini e proiezioni di un uomo artista che comincia a fare i conti con sé stesso, con le sue debolezze, fragilità, tanto che la tracklist ci riporta indietro, in quella Berlino del 1997 in cui l’artista ridava fuoco alle vampe electro del suo rinascere, di quell’essere eroe anche per un solo giorno ma intero e compiaciuto “Where are we now?”. Quindi un Bowie preoccupato per il futuro e per il presente, preferisce voltarsi indietro e lo fa con tonalità sobrie, eleganti, minimali, con una poesia che pare odiare gli spazi aperti preferendo rifugiarsi negli anfratti dell’anima, e se questo potrebbe sembrare una specie di annullamento o smarrimento interiore, ebbene si, lo è fino in fondo e bestialmente bello.

Prodotto dal fido Tony Visconti, The Nex Day è un riscrivere il passato interiore ed artistico, ed è pure un ritirare fuori con garbo certe magnetizzazioni che strappano ovazioni interiori quando “ripassano” la memoria i lustrini e gli strass argentei di Ziggy “Valentine’s Day”,  le ombre notturne di “Love is Lost”, la lisergia”Seventies” che trema nella titletrack o il lipstik che ancora emana fluorescenze glammy tra le bracciate divistiche di “How Does The Grass Grow?”; si,  tutto prende la cornice ed il suo immancabile passe partout di un impressionismo vivo, di un eroismo oltre il tempo che Il Duca Bianco non se la sente più di nascondere,  e ce lo manda a dire con una opera d’arte. un disco stupendo, di “rinascimento” delicato, tutto sommato, come una candida tela di ragno.

E’ vero, i Grandi non tradiscono mai.
http://youtu.be/md5zxN20-2s

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Plunk Extend – Marvellous Kaleidoscope Rollercoaster EP

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Divertente quest’album. All’inizio mi aspettavo un nulla di eccezionale, parto sempre prevenuto. La verità è che non vado a braccetto con il Pop e le sue storie. Mi fanno quasi sempre troppa tenerezza. Ma stavolta mi stavo sbagliando. I Plunk Extend hanno conquistato la mia simpatia. Mi è capitato di iniziare ad ascoltarli durante un viaggio e mi hanno tenuto compagnia con il loro modo di ironizzare alla vita. Di loro dicono che questo è un album di transizione tra il loro precedente lavoro American Glories (2011) e il prossimo che uscirà nel 2014. Sono già in studio. Un album di transizione dunque dove cercano di far trovar la luce a tutti i brani orfani che hanno lasciato per la strada in questi sette anni di carriera. Si sente il cambio di approccio tra un pezzo e l’altro. In quest’album c’è di tutto, dalla ballata d’autore al Rock più energetico. Ogni brano racconta una storia a se e non c’è un filo conduttore. Solo, semplicemente, cose rimaste troppo tempo nel cassetto. Un bell’album di musica leggera italiana direi. La mia preferita tra tutte le tracce che ho ascoltato è sicuramente “Please Don’t Kill my Soap Bubble una divertentissima traccia, molto ironica, sul come fare musica, scrivere canzone, formare una band e tutti i problemi, le paranoie, le critiche che ci sono in mezzo. Una bella ballata in stile Ska è “Amer”, la traccia che chiude l’album. Bella carica. Una nota di demerito invece alla traccia di apertura dell’Ep “The Istant Life of Seamonkeys”troppo simile a “Discoteca Labirinto dei Subsonica. In finale un ottimo Ep di musica italiana leggera che invece di stufarmi mi rallegra e mette il sorriso. Viva il Rock!!!

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