Mute Records Tag Archive

Ben Frost – Scope Neglect

Written by Recensioni

La capacità di plasmare noise e industrial dentro delle suite meditative raggiunge il suo apex climatico facendo deflagrare la pericolosità allarmante in un vuoto cosmico che si atrofizza e contorce.
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Crime & the City Solution live a Milano per un’unica data italiana

Written by Eventi

L’appuntamento è per lunedì prossimo 4 dicembre all’ARCI Bellezza.
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23 and Beyond the Infinite – Horsedance [VIDEOCLIP]

Written by Anteprime

Guarda in anteprima il video del nuovo singolo della band psych rock.
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Stelle & Dischi – l’oroscopo di Settembre 2019

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Rockambula ti guida tra i presagi astrali e le nuove uscite discografiche.
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‘Chi suona stasera?’ – Guida alla musica live di agosto 2017

Written by Eventi

Swans, Billy Bragg, Ride, Beach House, Liars… Tutti i live da non perdere questo mese secondo Rockambula.

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Gli Swans a Novembre in Italia

Written by Eventi

La band capitanata da Michael Gira arriverà in Italia per presentare il nuovo album The Glowing Man, in uscita il 17 giugno per Young God/Mute Records!

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Swans – To Be Kind

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Trent’anni e non sentirli. Incredibile ma vero: gli Swans si sono formati nel lontano 1983, quando, tra le vie newyorkesi, spopolava il movimento No Wave. In queste decadi i musicisti che hanno ruotato attorno al vero deus ex machina della band, Michael Gira, sono stati numerosissimi, tutti con uno stile proprio che andava ad aggiungere un qualcosa di personale alla musica del gruppo. Tra loro spicca sicuramente la fantomatica figura dell’ammaliante Jarboe, esile nell’aspetto eppure per nulla intimorita nel confrontarsi con i catacombali Neurosis, creando quel capolavoro che risponde al nome di Neurosis & Jarboe, nell’ottobre del 2003.

To Be Kind è, a dirla tutta, il terzo album della seconda vita discografica degli Swans, tornati nel 2010 con My Father Will Guide Me Up a Rope to The Sky, dopo ben 14 anni di assenza. Nonostante questo, il sound non ne ha minimamente risentito: anche quest’ultimo disco non si discosta dai predecessori e il crescendo claustrofobico di “Screen Shot” ce lo dimostra subito, nel suo incedere martellante. Ci trasmettono ansia, un’ansia che provoca dipendenza, che ci invoglia a tenere all’erta i nostri sensi, pronti all’impatto con gli oltre 12 minuti della successiva “Just A Little Boy (For Chester Burnett)”. La summa massima del disco è la mezz’ora abbondante di “Bring The Sun/Toussaint L’Ouverture”: armonie ipnotiche, litanie malate regolate ad arte come un mantra dal sapore di un rituale d’iniziazione. Forse sarà così, perché dopo “Some Things We Do” (sarebbe adattissima a fare da colonna sonora a un film horror), Gira e soci alzano il tiro, dividendo con un muro virtuale questa parte finale dell’album da quella appena passata. Le due canzoni portabandiera di questa nuova virata sono: “Kirsten Supine”, con l’incantevole voce di St. Vincent ad incastrarsi con quella del singer, proiettando dal nulla una spirale sonora indomabile, e “Oxygen”, i cui ritmi Math fanno da contraltare a uno Sludge Rock molto caro ai Melvins.

Ci hanno abituati bene i nostri amici Swans e con l’intensità di To Be Kind, continuano a camminare sulla retta via tracciata dal precedente The Seer. Tempo addietro Michael Gira affermava che: “I cigni sono maestosi, sono bellissime creature con un cattivo temperamento”. Da amante degli animali dico che il temperamento, buono o cattivo che sia, ci sta benissimo purché questi siano i risultati. Lunga vita ai cigni.

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Goldfrapp – Tales of Us

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Incredibile. Sono tornati i Goldfrapp. Chi l’avrebbe mai detto. Proprio quando non ci si sperava più e neanche ci si pensava più, il duo pubblica Tales of Us e già dal titolo si potrebbe capire di che disco si tratta. Sicuramente un concept album, non tanto nel senso Prog del termine, quando nella profondissima omogeneità di mood, contenuti, tono e filo conduttore narrativo. Il disco si apre con “Jo”, molto cadenzata, ripetitiva, ossessiva, con un delay vocale che crea un incredibile effetto pioggia battente, perfetto per l’autunno in cui Tales of Us fa la sua apparizione. “Annabel”, nonostante l’andamento flemmatico e arpeggiato non è mai scontata: molto cinematografica, con cadenze armoniche e melodiche del tessuto strumentale che spesso e volentieri ingannano sulla loro risoluzione. La malinconia e l’inquietudine proseguono in “Drew”, apparentemente leggera con quel suo inizio da scherzo pianistico che viene subito appesantito dalle sferzate tonali minori. “Ulla” è delicata e sensuale, mentre “Alvar” è un brano onirico e senza tempo, a cavallo tra la ballata medievale e le sonorità Folk nord-europee. Forse l’unico brano del disco a tradire sinceramente una nota positiva. Non mancano neppure gli anni 90, che in “Thea” acquistano quasi un gusto vintage. Purtroppo arrivati a questo punto ci si è un po’ stufati. Il cantato è complessivamente monocorde. L’omogeneità di cui parlavo prima e che, per certi aspetti, potrebbe essere un dato incredibilmente positivo sul piano compositivo e stilistico, finisce per annoiare l’ascoltatore almeno: finisce per annoiare me e ci si rende conto che Tales of Us potrebbe essere perfetto a piccole dosi, a sezioni interrotte e usate come soundtrack per qualche film, ma non certo per un ascolto da cima a fondo di un full-length. Perfetta a scopo cinematografico sarebbe proprio la “Simone” che passa quasi inosservata, così come la fumosa “Stranger”, che pare arrivare direttamente dagli anni 50, perfettamente identica per toni a tutti i brani precedenti ma forse con quel tanto appeal che basta a renderla più catchy. “Laurel” vive della luce riflessa della precedente, mentre con “Clay” si ritorna a sonorità vagamente più Folk: la chiusura è fresca, positiva, inaspettata. Forse un messaggio di speranza? Forse la fine della stagione fredda che porterà alla rinascita della primavera? Chissà. Nel frattempo i Goldfrapp ci danno un disco che non è assolutamente un capolavoro, né sembra avere alcuna velleità di esserlo. É una narrazione di ciò che è (autunno, malinconia, precarietà), con un piccolo barlume finale di quella speranza che è sempre l’ultima a morire.

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Nick Cave & The Bad Seeds – Push the Sky Away EP

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Capita una volta l’anno dover recensire un album così, un gigante così. Uscirà il 19 Febbraio “Push the Sky Away” il nuovo EP di una delle personalità più contorte del panorama rock mondiale.
The Big One nel suo genere, oscuro e malinconico, per me un mostro. Dall’Australia il grande ritorno di Nick Cave & The Bad Seeds. Solo uno come lui poteva dare un nome così ad un album. Come se volesse chiudere un ciclo che ha avuto inizio nel suo primo album “From Here to Eternity”.  In ombra. Tutto quello che dirò sarà scontato. Quindi lasciate perdere e ascoltate l’album. Questa è una questione personale, non una recensione. Una lunga storia, struggente. All’epilogo di una carriera fatta di personaggi in ombra, sulla vita, sull’amore, sulla “tradizione”. Perchè We go down with the dew in the morningcome ci racconta in We No Who U R la traccia che apre questo EP.
Ma facciamo una pausa. Quest’album viene fuori dopo 5 anni di silenzio dopo l’esperienza di “Dig!!! Lazarus, Dig!!!” in cui si stacca un altro pezzo dei Bed Seeds, Mick Harvey ex chitarra elettrica, chitarra acustica, basso, organo. Uscito dalla band nel 2008 e preceduto già da Blixa Bargeld (ex chitarra, voce. Uscito dalla band nel 2003). Quindi toccherà prendere quest’album col giusto orecchio, preparato a ad ascoltare un Cave che va verso le origini con i Bad Seeds rimasti.
La formazione ufficialmente sarebbe di 12 componenti. Ma sottolineerei Warren Ellis viola, chitarre, in primis. I due  hanno collaborato, tra il 2005 e il 2009, a varie colonne sonore. Una sintesi a noi utile per capire quest’album potrebbe essere Nick Cave & Warren Ellis. Quindi un tentativo di ritorno alle origini musicali dove si sente la mancanza di alcuni componenti del gruppo e la centralità dei pezzi è lasciata alla sua voce, alle sue storie, alla sua malinconia e alla bravura di Ellis.  Una catarsi al rovescio dove si contano i cocci esistenziali.

Notizia dell’ultim’ora invece è quella che vede Barry Adamson primo bassista dei Bad Seeds (uscito dalla band nel 1986) unirsi alla band per il tour 2013 (in Italia l’11 luglio al Summer Lucca Festival).
Ascoltando i testi, accompagnati come ho detto dalla viola/violoncello di Ellis, Cave come suo solito ci porta in posti oscuri. Apre il suo armadio degli scheletri e inizia a vomitare su tutto quello in cui non è riuscito a credere nella sua vita. La traccia che da il titolo all’album è emblematica “Push th Sky Away” che canta sul ritornello. La disillusione dell’amore. Visto come rapporto destinato a finire. Oppure in “Higgs Boson Blues” dove ci narra i suoi dubbi sul razionalismo e come, conosciamo tutti il bosone di Higgs, esso si voglia sostituire a Dio. Un Dio che sta scomodo a Cave in “Jubilee Street” dove ci racconta tutta la brava gente che predica bene e razzola male. Il solito Cave malinconico, viscerale, tetro. Ma pure sempre Cave. Un gigante che in quest’album non ci presenta niente di nuovo ma ci porge il conto. E tocca ascoltarlo……………..

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“Diamanti Vintage” Depeche Mode – Violator

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Risultato della felice idea di unire le ombre wave con i singulti dark, il nuovo percorso artistico dei Depeche Mode centra perfettamente le mire del successo oltre ogni limite, successo che già con il precedente Black Celebration si poteva presagire anche per via della prestanza artistica di Anton Crobjin che ne cura maniacalmente i video ed i make off, e “Violator” già nasce con il lusso e la potenza del disco per eccellenza della band, quella sacralità musicale che tagliò per sempre i freni alla loro trasgressività color pece.

Un opera capitale dell’elettronica, atmosfere cupe, violacee e malate sconvolgono l’intera stesura, una perfetta risintonizzazione del sound in cui Gahan e soci nuotano e sollevano con arguzia e professionalità eccelsa, tanto che con questo disco realizzano l’apice e la mondialità degli anni della “controriforma” wave; il disco che poi contiene le “colonne sonore di una generazione”, di quelle masse che si sono riconosciute in pezzi come “Personal Jesus”, “World in my eyes” o in “Halo”, “Enjoy the silence”, tracce che sono rimaste incastonate nella storia della musica rock come i comandamenti della Bibbia. Gli anni Novanta sono portatori di rivoluzioni varie e variopinte, ma i segreti custoditi dai DM hanno l’obiettivo preciso di travalicare le mode e gli affanni pop, loro inventano un marchio che avrebbe dovuto proiettarli in un futuro di lucidità e libertà totale, ma la droga è dietro all’angolo e non tarderà molto a disintegrarne gli impatti positivi e la prorompente notorietà.

Tuttavia rimane un testamento – in questo capolavoro scuro – che supera barriere e geografie temporali, tracce indelebili che hanno letteralmente consumato ascolti ovunque anche se i fantasmi del passato sono tutti qui riuniti a dare “festa magnificamente mesta” alla tracklist: chi non ricorda le onde strazianti che tracimano dolore Smithiano in “Waiting  for the night”, il minimalismo computerizzato di “Policy of truth”, la tenerezza fosca dell’armonia che tinge “Blue dress” cantata da Martin Gore o la finale “Clean” in cui Gahan pare intravedere un fievole raggio di sole ad illuminare la sua anima costantemente in pena? Gli anni passano come una scure sul capo, ma la dolcezza amara di questo caposaldo è intatta, immacolata e maledetta come i miracoli di agnostici fati, e i Depeche Mode paiono non essere mai svaniti del tutto, la loro anima lacerata ancora gira un’ossessione a cui rendere conto.

Disco di buio basilare come la luce.

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