Mumford and Sons Tag Archive

La playlist del lunedì #19.11.2018 | Anna Calvi, Foxwarren…

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… Kate Bush, La Rappresentante di Lista, Rancore, Villagers e tanti altri

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Oregon Trees – Hoka Hey

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Oddu – Genealogia delle Montagne

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Li si conosceva già, e non solo nell’underground piemontese, quando erano i Baroque. Sonorità Pop anni ’80, tastiere tastiere tastiere, smalto scuro sulle dita e declamato teatrale. Molto del progetto Baroque è rimasto negli Oddu, per quanto la formazione sia cambiata e siano cambiate anche le influenze, le matrici, l’età anagrafica (che comunque non è un dato trascurabile) e l’intenzione.

“Quattro Inverni” ha un’intro fresca, che dall’Indie americano scende nel cantautorato nostrano alla Tozzi, mentre “Nella Prossima Vita” strizza l’occhio al Folk Pop dei Mumford and Sons. E in due sole tracce gli Oddu sono riusciti a farci capire la babilonia di ispirazioni che sottostanno alla fase compositiva. “Atlanti Perduti” è figlia dell’esigenza di raccontare e raccontarsi, con quelle liriche impegnate e il cantato che piega il virtuosismo alla narrazione semplice e lineare; “Mostro Cammina” sa di pioggia e Francia, per dirla con Paolo Conte. Personalmente, poi, mi ha ricordato tantissimo La Rue Ketanou (se non li conoscete sarebbe più che opportuno rimediare). Con “I Buchi sul Sedere” sbucano le ceneri dei Baroque, gli anni ’80, una certa nostalgia Glam. “Un Cuore Buono” apre in maniera molto intima e introversa, con la delicatezza del piano che tratteggia un’atmosfera un po’ cupa, che si trasforma, di nuovo, in Popular, in Folk.
E gli Oddu sembrano, fin qui, averci fatto vedere tutto quello che sanno, pure forse in maniera un po’ troppo articolata e complessa. Eppure non abbiamo ancora sentito tutto: “Battisti” è una sorta di scherzo elettronico citazionistico, da Battiato (più che da Battisti) a “Jump” di Van Halen, dai Bluvertigo dei tempi d’oro a contrappunti Jazz.
L’unico leitmotiv che sembra davvero omogeineizzare la produzione degli Oddu è la nostalgia per un passato musicale glorioso, come sembra confermare anche “Non Fate Mai la Carità”: a tutti gli effetti un semplice brano cantautorale, dove però (e forse, per i tempi che corrono, stranamente), non si guarda a Capossela o Mannarino, ma più indietro, a Rino Gaetano e De Gregori, senza neppure pensare di scomodare l’inflazionato De Andrè. E’ una scrittura complessa quella degli Oddu, elitaria, macchiata dalla saudade aristocratica per i bei tempi che furono, più che animata dall’entusiasmo borghese.
“Savona 12 dicembre 2011” completa il quadro dell’eclettismo della band. Troviamo tutto: la formazione accademica, lo studio del pianoforte, il litigio con le maglie larghe del Pop-Rock. La chiusura di “Genealogia delle Montagne” è aulica e imponente sul piano fonico, un tributo al Progressive Rock, per tornare al principio.

Non è un disco semplice. Affatto. Manca qualcosa che guidi l’ascoltatore in un percorso, manca un’unità di intenti e narrazione, ma, lasciatemelo dire, è forse uno dei più interessanti lavori indipendenti che mi sia capitato di ascoltare. Un grande potenziale che spero gli Oddu sappiano incanalare nella giusta direzione comunicativa e sviluppare.

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Town of Saints – Something to Fight with

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Vengono dal nord i Town of Saints: Harmen Ridderbos (voce e chitarra) è olandese, Heta Salkolahti (voce e violino) è finnica e fanno coppia fissa nella vita privata e in quella artistica da quando si sono conosciuti in Austria e hanno iniziato a fare i busker. L’incontro con il batterista Sietse Ros sancisce la nascita di una formazione completa che ha fatto del live il suo trampolino di lancio. Something to Fight with, disco d’esordio, segue infatti una lunga serie di concerti in tutta Europa e un Ep di sette tracce, Never Sleep. Sin dalle prime due tracce, “Stand Up” e “Trapped Under Ice”, si chiarificano due punti importanti: questi ragazzi sono tecnicamente molto bravi e fanno un Indie Folk super sentito ma che non sembra mai saturo di nuovi contributi. Debitori, per quanto riguarda le chitarre soprattutto, ai Band of Horses, come si sente chiaramente in “Direction”, non disdegnano neppure la lezione degli Arcade Fire o degli Of Monsters and Men, come emerge in “Euphrates” dove le volute del violino contrappuntano il canto e quasi ci trasportano in un ideale pub irlandese con davanti una bella stout scura dalla schiuma densa.

“Going Back in Town” ha un’introduzione più malinconica che lascia subito spazio a un duetto vocale acceso e ritmato, in cui lo scambio melodico richiama Angus e Julia Stone, soprattutto per il cantato della Salkolahti, molto affine a quello della Stone o della islandese Soley. Un trattamento molto simile viene impiegato per la costruzione di “Dress Up Night”, resa più particolare dalle sincopi con cui dialogano violino e batteria. I riferimenti ai precedenti del genere continuano a sentirsi distintamente ancora in “Easier on Papier”, mentre la ben più movimentata title track, “Something to Fight With” sembra un incontro tra i Mumford and Sons e i Gogol Bordello. Freschissima e quasi Pop è “Carousel”, leggera e particolarmente disimpegnata, che cede il passo a un ben più riflessiva “New Skins”, che inizia come una ballad cantautorale e di nuovo viene rincanalata nell’universo Folk dall’ingresso del violino. A chiusura di un metaforico cerchio, il disco si chiude con “Stand Up II”, brano che racchiude con una certa perizia i tratti distintivi di questa band: le sonorità calde del violino abbracciano quelle delle chitarra acustica ma si contrappongono a quelle della chitarra elettrica, la batteria marca i sedicesimi a decretare l’importanza della pulsione cinetica, il cantato costruito solo sulla vocale a contribuisce a un crescendo dinamico che conclude il pezzo ex abrupto.

Qualcuno ha già scritto che i Town of Saints non aggiungono e non tolgono nulla a formazioni ben più grandi (per fama, competenza ed esperienza). Tendenzialmente sono d’accordo. In fondo è roba già sentita. Eppure vale la pena concedersi un’oretta piacevole con questo disco, che se proprio non aggiunge niente di nuovo, quanto meno contribuisce, con un punto di vista in più, a rendere composito il genere.

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