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Hell in the Club – Devil on My Shoulder

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Attendevo con entusiasmo questo secondo capitolo degli Hell in the Club, band formata da membri dei Secret Sphere e degli Elvenking. Partiamo col dire che qualche anno fa ebbi modo di ascoltare Let the Games Begin, il loro disco d’esordio e ne rimasi veramente affascinato per l’intraprendenza e il talento dimostrato. Ora è il momento di Devil on My Shoulder. Anche questo disco è di stampo Hard Rock e sarà sicuramente apprezzato dai fan dei L.A. Guns, Twister Sister, Motley Crue e Skid Row. Cosa ha di particolare questo nuovo album di Davide e soci? Fondamentalmente poco o niente ma è suonato ad arte, l’album presenta riff e assoli di una certa caratura e ci sono melodie e giri di chitarra che farebbero gola agli Aerosmith o ai Mr. Big. Un album dall’ascolto facile ti prende se fai un giro in auto, se fai jogging o magari chiuso in stanza per scuoterti un po’, è sempre il momento giusto per Devil on My Shoulder. Volendo dividere i momenti e abbinarli alle diverse tracce potremmo dire che “Bare Hands”, “Whore Paint”, “Save Me” e “Snowman Six” sembrano composte proprio per andare in giro per la città con le cuffie nelle orecchie e l’apposito walkman (perdonatemi l’antichità ma ci sono affezionato) godendosi i vari paesaggi. Con la titletrack, “Proud”, “Pole Dancer”, “Toxic Love” e la conclusiva “Night” ci sta bene un infinito giro in macchina, avete presente quando accendi il motore e gironzoli senza meta con i propri pensieri? Ecco resa l’idea. Si balla ondeggiando con “We Are the Ones”, “Muse” e “No More Goodbye”, queste potremmo considerarle le tracce più calme del platter, le classiche canzoni che le balli cantando. Insomma Devil on My Shoulder è un album veramente raffinato e gli Hell in the Club divengono una realtà da non sottovalutare. Senza ombra di dubbio la Scarlet Records ha fatto centro tenendo con se questi scatenati ragazzi che al di fuori di tutto hanno ancora tanto da mostrare.

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Superhorrorfuck – Death Becomes Us

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Superhorrorfuck: un nome che già lascia intendere per esteso l’obiettivo di questo quintetto veronese (rimaneggiato per 3/5 dalla loro line-up originale) che dal 2005 “terrorizza” mezz’Italia con le sue esibizioni sanguigne, irriverenti, fatte apposta per quella fetta di pubblico ancora affascinata dalla teatralità grandguignolesca tipica del re del trash Alice Cooper. Quel che terrorizza di più, in verità, è proprio il loro concept che racchiude quel che di più pacchiano, forzato e grossolano gli anni Ottanta ci hanno offerto. I riferimenti musicali ed estetici dei Superhorrorfuck sono più chiari dell’eccentrico make-up del loro frontman Dr Freak, una sorta di Dee Snider incrociato con un Marilyn Manson un po’ troppo acchittato e dal cantato sguaiato; per completare quest’immagine effetto photoshop, metteteci pure una punta del più aggressivo Axl Rose, se volete. Tutta la scena Street Metal e Glam Metal anni Ottanta (Motley Crue, Twisted Sister, Guns N’ Roses) viene rimescolata all’Horror Punk caro a band inarrivabili come Cramps e Misfits, il tutto senza brillare né per inventiva né per originalità, scadendo in un’avvilente banalità.

Musicalmente la proposta dei Superhorrorfuck non si discosta affatto dai suoi punti di riferimento storici sopra citati: pezzi tirati, riff ed assoloni Hard Rock, coretti e refrain melodici presi dai Bon Jovi più struggenti, ma tutto ciò avviene senza convincere, senza coinvolgere. Già dalla prima traccia “Dead World I Live In”, s’intuisce lo sterile tentativo di riesumare dalle tombe zombie, cannibalismo e satanismo finendo per mettere sul piatto un minestrone kitsch che rende l’ascolto del brano insipido. “Voodoo Holiday” è un pezzo di puro Rock N’ Roll che, per quanto semplice e parodistico, incarna perfettamente il pensiero di questi aspiranti zombie nostrani: “Can you guess how it feels being a rockstar living-corpse? Zombie slayers stalking me to blow away my head, horny groupies huntin’me to blow me on my bed […] Stress is bad for living dead, i need a Voodo holiday!”. E a questo punto quasi rinuncio all’esplorazione dei testi per paura di ritrovarmi di fronte frasi fatte e logore. L’intro drammatico di “The Ballad of Layla Drake” sembra far presagire qualcosa di differente, le tastiere sataniche in sottofondo rendono il brano quasi interessante, ma l’effetto dura poco e si torna subito a danzare con i morti.

Gli episodi migliori del disco sono “Break Your Shit” dalla ritmica spedita e punkeggiante e “Horrorrchy Pt. III, The Lord”, un buon brano Heavy Metal ma questo non basta: Death Becomes Us non può essere salvato neppure da un rito Vudù. Forzatamente controcorrente, forzatamente sopra le righe in realtà non provocano, non stupiscono per presenza scenica, né colpiscono per la qualità della loro musica. Forse destinati a rimanere confinati nella loro nicchia ma probabilmente non desiderano neppure uscirne.

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