Moby Tag Archive

I DISCHI CHE NON TI HO DETTO | Italia sintetica

Written by Recensioni

I confini tra Rock ed Elettronica sono ormai estremamente labili e da tempo la materia sintetica si insinua anche nelle produzioni nostrane, contaminando e rinnovando la tradizione cantautoriale o rinnegandola totalmente con lo sguardo proiettato oltre i confini della Penisola.
Tra le uscite degli scorsi mesi di questo 2016 abbiamo selezionato alcuni dischi in cui, sebbene giochi di volta in volta un ruolo diverso, la componente Elettro è di certo essenziale e imprescindibile.

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Cold Specks 6/02/2015

Written by Live Report

Cold Specks @ Spazio 211, Torino.

Cold Specks è la voce di Al Spx, cantautrice canadese di Montréal, che nella sua breve carriera vanta già collaborazioni importanti con artisti del calibro di Moby e Swans. Cold Specks è anche un estratto di versi dall’Ulisse di James Joyce, che Al decide usare come nome del proprio progetto (Born in all the dark wormy earth, cold specks of fire, evil, lights shining in the darkness). Cold Specks è in viaggio tra Europa e America per far ascoltare ad una parte di mondo il suo ultimo lavoro, Neuroplasticity; dopo la data al Magnolia di Milano, stasera si esibirà allo Spazio 211 di Torino. Alle 23.30 circa, vestita di un’eleganza semplice e minimalista, Cold Specks sale sul palco insieme ai suoi musicisti e già capiamo che quello che dovrebbe essere, dal nome, un “freddo puntino” è in realtà un incendio emotivo posizionato tra cuore e stomaco. La voce di Al ha radici nel Soul e si porta dietro la potenza ed il calore che lo contraddistinguono. Nell’esecuzione dei brani tocca note altissime per poi riscendere in picchiata, il tutto con grande naturalezza, mentre chitarre, batteria, sax e piano si intrecciano in melodie e battono colpi che esaltano la sua voce, ma mai diventano protagonisti assoluti. Poche volte la vedremo impugnare una chitarra, il suo strumento prediletto è la voce, e proprio con un assolo vocale da pelle d’oca chiuderà il concerto. La potenza della voce cantata contrasta con la sensualità e la dolcezza di quella parlata. Al introduce i pezzi con qualche breve racconto; ci fa sapere che è stata bene in Italia, che ama il Belpaese e ci confessa che oggi è il suo compleanno. Noi, il pubblico, non perdiamo occasione per intonare un “tanti auguri a te” terrificante che si perde al momento del “tanti auguri a…”; lei, che ha un sorriso gentile e probabilmente è anche di buon umore, ci dice anche grazie dopo quello scempio, senza nemmeno insultarci. Mette pace Cold Specks. Dentro, in ogni singola cellula, e fuori, nei silenzi di chi ascolta e non può fare a meno di pensare a quanta luce può sprigionare un freddo puntino nell’universo.

cold 600

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Fiori di Cadillac – Cartoline

Written by Recensioni

Pare che per la realizzazione dell’esordio discografico i Fiori di Cadillac hanno impiegato circa due anni, almeno da quello che leggo sulla loro presentazione promozionale, l’esordio in questione si materializza sotto il nome di Cartoline uscito sotto etichetta Forears. Due anni sono veramente tanti, immaginate in due anni quante cose si possono fare, quante cose possono cambiare e soprattutto quante differenti sensazioni possono attraversare l’intimità di una persona. Ma in due anni è possibile anche concepire qualcosa di sensato dai connotati maturi. I Fiori di Cadillac per qualche motivo che fatico ancora a elaborare mi erano già passati per le orecchie, insomma, provo questa strana sensazione di averli già ascoltati prima di ricevere il disco e consumarlo nella giusta misura che meritano. Sono quei misteri ai quali non riesco mai a dare una spiegazione ma che accetto con una smisurata soddisfazione specialmente quando l’oggetto misterioso in questione è rappresentato da un lavoro come Cartoline. La band campana ci mette dentro una notevole quantità di tecnica ma il valore aggiunto è segnato indubbiamente dall’emotività sperimentale del sound. Io dentro quel sound mi sono perso infinite volte e provavo piacere nel lasciarmi ammanettare dalla loro enfasi, quadrati e armonicamente perfetti anche quando il cantato in italiano non si dovrebbe legare perfettamente al tipo di musica proposto per una questione di orecchiabilità. Lode a questo bravo cantante.

Per intenderci (e sono parole loro) trovano influenze in band come Radiohead e Mercury Rev. Cartoline si apre con “Il Ministero dell’Amore” e la ritmica innaturale (alla Radiohead) si sovrappone prepotentemente ad un cantato bello e immediato. La durezza della pasta esce subito allo scoperto. “Io Resto Qui” viaggia sulla stessa sintonia della precedente, ambienti umidi ed emozionalità alle stelle. Tutto resta sugli stessi contesti fino ad arrivare alla più intima e personale “Prima” nella quale i Fiori di Cadillac lasciano molto spazio a riff mielati e coinvolgenti. Soltanto palpitazioni in “Dissolvenza/Stacco”. Acidi e psicologicamente confusi in “Canzone in Scatola”, qualcosa mi ricorda il caos intelligente dei primissimi Bluvertigo, niente di scontato insomma. Ironia della sorte in “Fuori Nevica” (perché fuori nevica davvero) dove le atmosfere sembrano quelle affrontate quasi perennemente da Moby ma molto più rockettare e con un finale ai limiti del Post Rock. Sorrisi e pianti in “Jonny”, il disco è quasi finito e molte cose si sono ficcate sotto pelle. “Le Tue Cartoline” suona come una gradevole chiusura del disco, un brano che sembra prenderci per mano e accompagnarci all’uscita con estremo desiderio di vedersi nuovamente. I Fiori di Cadillac registrano un esordio discografico di indiscusso fascino, dentro Cartoline possiamo trovare tutto quello che cerchiamo, bisogna avere cervello e buon gusto. I Fiori di Cadillac sono una delle migliori uscite di questo duemilatredici stronzo e funesto, un esordio che ti scoppia in faccia. Non potevano iniziare meglio.

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Hey Saturday Sun – Hey Saturday Sun

Written by Recensioni

Lento è il viaggio verso le stelle, lento è un movimento nello spazio. Questa è musica che richiede pazienza, calma ma forse parliamo addirittura di meditazione e di sogno. Richiede una serata tranquilla per far viaggiare i propri pensieri, spararli nel cielo stellato lontano e pacifico, senza aver paura di farsi trasportare chiudendo gli occhi. L’esordio discografico del musicista umbro Giulio Ronconi in arte Hey Saturday Sun (ispirazione palesemente tratta dal brano del duo elettronico Board of Canada) non è nulla di ciò che vorrei ascoltare la mattina appena sveglio, in qualsiasi tipo di viaggio (terreno) o mentre redimo la mia coscienza facendo la mia corsetta amatoriale. Però è sicuramente un prodotto raro per intensità e per il suo sound, mai banale e mai relegato ai comodi schemi dei generi musicali.

La lunga intro affidata a “Pulsewidth Noise” ci rimanda subito ad un’altra dimensione, meno carnale ma non per questo fittizia, mentre “Silent Kid” fa l’occhiolino all’elettronica viva di Moby e ci detta un passo molto soffice e lento, sappiamo però che piano piano di strada ne faremo molta. Gli echi e i vocalizzi di Marta Paccara conferiscono l’atmosfera giusta e il pianoforte rarefatto pare avere i tasti congelati e dipinge in aria immense praterie mischiate a enormi palloncini fluttuanti. La cavalcata New Age “The Other City” è una precisa descrizione di paesaggi stellati, mentre “Lullaby” finalmente azzarda anche la batteria e richiama i tanto attesi anni 80. Sorpresa! Ecco le chitarre di “1.9.8.9”, il pezzo più forte e scellerato del disco. Senza esagerare questo è il momento più Pop e ciò non ci dispiace affatto. Rullate decise e voci si scontrano, si amalgamano come nuvole in rivolta. Tutto però rimane quassù e il contatto con il suolo è un lontano ricordo. Le due metà di “Museum of Revolution” sono un vortice, un fiume in piena, una cascata di sensazioni a fior di pelle. Una carrellata di suoni che non si limita ad essere un semplice esercizio. La carica e la botta da me tanto adorate sembrano rinchiuse in una teca di vetro da cui escono solo leggeri sussurri, suoni non per questo però privi di forza: viscerali anche se visionari, ma soprattutto positivi.

Un bel sogno possiamo dire, mai troppo finto da sembrare pura immaginazione. Hey Saturday Sun è il sole calmo di una domenica di inverno, quello che non ti aspetti, che ti scalda appena appena sbucando dalla finestra, entra nelle tue coperte e si unisce alla tua dormita godereccia. Una sensazione di respiro di aria buona a pieni polmoni, lontano dalla merda quotidiana che ci tocca ingurgitare.

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Nuovo album per Moby

Written by Senza categoria

Uscirà il 30 settembre e si chiamerà Innocents il nuovo album di Moby, anticipato dal singolo A Case For Shame. Il nuovo lavoro discografico del polistrumentista eclettico prevede la partecipazione e la collaborazione di diversi artisti, da Wayne Coyne, leader dei Flaming Lips, a Mark Lanegan, da Damien Jurado a Cold Specks, Inyang Bassey e Skylar Grey.
L’album è gia in pre-order su iTunes.

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W-H-I-T-E – III

Written by Recensioni

Cory Thomas Hanson è l’artista e musicista di Los Angeles che si nasconde dietro il nome W-H-I-T-E. Già nel 2008, quando prendeva vita il suo percorso artistico, era chiaro che Hanson non avrebbe certo intrapreso la strada calma e pulita della melodia tradizionale e del cantautorato. Sceglie il nome d’arte W-H-I-T-E per esprimere fin da subito alcuni concetti fissi nella sua mente, per dare l’idea di quell’attrazione trascendentale che la luce bianca ha verso ogni creatura e la sua necessità di allietare e nello stesso tempo “bruciare” i sensi saranno una prerogativa di tutte le sue opere. I primi full lenght sono Sunna del 2009 e Twin Tigers di due anni più giovane. Dopo queste esperienze studio inizia una lunga traversata per il mondo, che lo porterà anche in Europa dove si esibirà con Mikal Cronin. Proprio durante queste scorrazzate soniche inizia a prendere vita III; W-H-I-T-E scrive e registra parzialmente i pezzi “on the road” (non vanno sottovalutate le soste parigine e il ritorno alla città natale) per quasi tre anni. III è una sorta di sunto, di raccolta di questo lungo tempo passato a registrare. Il risultato è qualcosa di prodigiosamente celestiale.

Se ”Intro” somiglia in modo imbarazzante al pezzo d’apertura di Palace degli Chapel Club non ci s’illuda e non si pensi che vi sia alcun tipo d’influenza Neo-Gaze. Ciò che accomuna III alla scena di cui fa parte la formazione britannica di Lewis Bowman e Michael Hibbert è solo una certa vena dreamy, celestiale, spirituale, incorporea. Un po’ la stessa che si respira in alcuni brani dei Radiohead (“I Wasn’t Afraid”), considerando anche che la voce di Cory Thomas Hanson, ricalca per timbrica la stessa proprio di Thom Yorke. Non mancano reminescenze di psichedelia sixties e folk barrettiano fatto di voci melodiose e note ossessive come incubi colorati e passaggi in cui il Dream-Pop acquista una vena bucolica (“Can’t Fight The Feeling”, “Friends”) e naturista. Nella seconda parte, prevale invece l’aspetto più duro, freddo e sintetico della proposta di W-H-I-T-E, che miscela le ritmiche tipiche dei Club anni ’90, il cantautorato statunitense di vecchia data e la storica scuola dei precursori dell’elettronica applicata alla New Age e all’Ambient (“Pretty Creatures”, “Lost”) con la musica cosmica in stile Tangerine Dream (“Deep Water”).

Assolutamente gradevoli anche i momenti più essenziali, legati indissolubilmente alla linea melodica e dalla forte ispirazione Radiohead dei momenti più intimi (“Demons”), cosi come riuscitissimo suona l’incontro tra psichedelia e Dream Pop in “Swim”. Nella parte conclusiva troviamo sperimentazioni che sembrano miscelare le basi irriverenti e Lo-Fi tanto care a Beck, altro genio di Los Angeles, con il Pop-Rock britannico (“Wet Jets”) mentre III si chiude con il pezzo più oscuro, freddo, ambiguo dell’opera di W-H-I-T-E, ricco com’è di ossessioni e speranza (“Building On”).

È lo stesso Cory Thomas Hanson a spiegare bene la sua opera. “Ho iniziato a scrivere con l’idea di John Lennon che fa una registrazione sulla luna con Cluster e Eno a fare da produttori. Il tutto remixato da Moby”. Io aggiungerei questo. Pensate a brani scritti da John Lennon, cantati da Thom Yorke e suonati dai Pink Floyd con i Tangerine Dream a gestire la parte sintetica, il tutto sotto la supervisione di Cluster ed Eno e mixato da Moby. Rende ancor meglio l’idea.

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