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Don Boskov – Istruzioni Per Allontanarsi Ancora Un Po’

Written by Recensioni

I Don Boskov vengono da Terni, Umbria, la regione che fa Stato a sé tanti sono i gruppi che dà lì provengono, tutti autori di un sound di una qualità che scavalca di parecchio quello della musica odierna sfornata nel nostro Paese. L’EP d’esordio Istruzioni Per Allontanarsi Ancora Un Po’ ci regala un succulento Emo/Postcore sulla scia dei Gazebo Penguins e dei Chambers. A differenza di quest’ultimi la componente Math Rock è ridotta al minimo, a favore di sonorità più dirette, come dirette sono le liriche che, senza troppi giri di parole, ci vengono sputate in faccia brutalmente. E’ facile riconoscere gli At The Drive-In nel brano di apertura “Tutti Hanno Già Deciso Per Gli Altri”, anche se le loro influenze vengono mescolate in un calderone arricchito dai diktat dello Screamo italiano. La successiva “Caverna” ha un inizio soffuso con la chitarra armoniosa che stona piacevolmente con le parole disperate gridate da Matteo. La più calma delle cinque canzoni presenti sul disco è senza dubbio “La Miseria Dell’Inverno”, dove la batteria rimane silente in disparte prima di emergere ruvida in tutta la sua violenza. “A Casa Anche Oggi” ci regala un po’ di melodia senza destabilizzare l’ascoltatore, ormai preda di spasmi sonori irrefrenabili. L’ultimo brano “Antenna” è anche il più articolato visti i numerosi cambi di tempo ed atmosfera, mostrandoci il lato camaleontico del sestetto umbro, capace di passare dai Glassjaw ai Fine Before You Came con una naturalezza disarmante. Un EP che sa già di consacrazione. Alla faccia del mainstream e di chi si ostina a sottovalutare la scena indipendente italiana.

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Don Boskov

Written by Interviste

Ci sono gruppi in Italia che si distinguono facilmente dalla massa per qualità e concetti; I Don Boskov sono sicuramente fra questi, portando avanti la loro musica e le loro idee con l’obiettivo raggiunto di ricamarsi una schiera di fedelissimi fans.

Come nacque il progetto Don Boskov?
La storia dei Don Boskov è molto banale: sei persone iniziano a suonare insieme senza sapere bene cosa fare e verso quali “generi” indirizzarsi. Probabilmente questa mancanza di idee chiare ci ha permesso di portare avanti un progetto musicale il più possibile privo da incasellamenti.

Da chi siete stati influenzati?
Nei nostri ascolti c’è una linea sottile che parte dalle atmosfere dilatate del Post-Rock e arriva al Postcore americano (quello di band come Norma Jean e The Chariot). Noi cerchiamo di colmare la distanza tra questi due “generi”.

Di cosa trattano i vostri testi?
Abbiamo quasi tutti 30 anni, abbiamo ormai perso la spensieratezza dei 20 e viviamo una fase piena di dubbi e instabilità come tutti i nostri coetanei. Osserviamo come le paranoie proprie della nostra generazione si esprimano in tanti modi e c’è un gran casino anche per quanto riguarda i rapporti, che sono il tema centrale dei nostri testi. In alcuni casi si tratta di storie autobiografiche, in altri il riferirsi ad una terza persona, spesso una “lei”, serve come pretesto per parlare dei dubbi e delle delusioni dei nostri tempi.

Come nasce in genere un vostro pezzo?
Cerchiamo di lavorare in maniera corale, partendo da un semplice spunto, di solito un giro di chitarra. Lavoriamo parecchio sulle parti di ciascun strumento, ci confrontiamo e ci incazziamo se serve, ma cerchiamo di produrre qualcosa che piaccia a tutti, mettendoci singolarmente sempre in discussione. Spendiamo un po’ di tempo in più in questo senso, ma scriviamo sempre pezzi di cui siamo parecchio soddisfatti. Grandi pacche sulle spalle a fine prove.

Possibile fare Emocore con il piano? (come vi è venuto in mente?)
Il realtà dagli At the Drive in ai Blood Brothers, diverse band Postcore e Screamo hanno usato occasionalmente sintetizzatori e piano. Noi ne facciamo semplicemente un uso più massiccio, con la convinzione che il piano fornisca una gamma amplissima di possibilità compositive e armoniche.

Esiste una scena italiana per questo genere secondo voi?
Ci sono moltissimi gruppi bravissimi che fanno Postcore in Italia. Per citarne alcuni: Fine Before You Came, Death of Anna Karina, Lantern, Ruggine e altri.

Avete mai l’impressione che nell’Hardcore sia già stato tutto detto?
E’ probabile, per quello noi pensiamo che può essere usato come uno degli elementi compositivi e non come genere inteso in senso classico. L’Hardcore non è il nostro genere, cerchiamo di non cadere nella trappola dell’incasellamento forzato che alla domanda: “che genere fate?” rispondi senza difficoltà: “Hardcore!”. Detto questo, pensiamo che l’Hardcore sia solo un mezzo per poter comunicare l’universo intero senza troppi fronzoli, in modo diretto e disperato. Quando abbiamo questa esigenza, nei pezzi, allora è lì che la vena “Hardcore” viene fuori.

Avete condiviso il palco con band quali Gazebo Penguins, OvO, Majakovich e Kill Your Boyfriend…Com’è stato aprire per loro?
Oltre che musicale, per noi è stata un’esperienza umana. Abbiamo avuto la possibilità di conoscere persone interessanti con il quale ci siamo confrontati. Un discorso a parte va fatto per i Majakovich, con i quali abbiamo suonato più di una volta e con i quali c’è stima ed amicizia, tale che hanno deciso di supportarci con la loro etichetta, la Metrodora Records.

Internet: rovina della musica oppure mezzo di comunicazione che vi può avvicinare a masse di fans?
La possibilità di poter ascoltare qualsiasi artista gratis, ha cambiato la musica in meglio. Sono tristi le persone che snobbano il presente e i gruppi giovani, convinti che il periodo d’oro della musica sia quello della loro infanzia. Non hanno la curiosità di sapere come si evolve nel tempo l’arte. In realtà ogni decennio ha portato con se i propri geni (se esiste un periodo d’oro del Rock comunque è quello che va dal 1965 al 1975, ma che ormai ha rotto veramente il cazzo). In questi ultimi 20 anni sicuramente sono nati una quantità enorme di artisti meravigliosi anche grazie a internet. Il mercato musicale invece si è indebolito, ma è inutile lamentarsene.

Siete orientati politicamente?
Proveniamo da una città storicamente comunista e in noi permane una coscienza di sinistra che, ci fa pensare, per esempio, che gli stranieri non siano un pericolo, e che il sistema economico in cui viviamo sia decisamente migliorabile. Ognuno di noi ha il proprio punto di vista nei confronti della società e ognuno di noi vive la cosa in maniera del tutto personale cercando di slegarsi il più possibile dalle ideologie e analizzando in maniera lucida il mondo in cui viviamo. Però non ce la sentiamo di essere portabandiera di chissà quale innovativa o scardinatrice propaganda politica e cerchiamo di fare ciò che ci viene meglio.

Progetti futuri?
Vogliamo suonare il più possibile dal vivo. Stiamo scrivendo pezzi nuovi perché vogliamo che l’Ep diventi un disco di almeno 8 – 10 tracce e intanto stiamo anche scrivendo le sceneggiature dei prossimi due video, uno dei quali accompagnerà un pezzo che è una chicca per gli amanti del pop anni 90. Un saluto per tutti i lettori di Rockambula.

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Majakovich – Il Primo Disco Era Meglio

Written by Recensioni

Come si evince dal titolo, Il Primo Disco Era Meglio è il secondo lavoro del trio umbro Majakovich. Ultimamente è molto semplice associare l’Umbria al simpatico Luca Benni e alla sua etichetta To Lose La Track, la quale ha confezionato, insieme ad altre etichette discografiche (Metrodora Records e V4V Records), questo disco. Gli alfieri indiscussi della To Lose La Track si chiamano Gazebo Penguins. Se pensi a loro è impossibile non farsi venire in mente la barba di Capra, fautore, guarda caso, del booking de Il Primo Disco Era Meglio. Tuttavia i tasselli del puzzle non ancora hanno finito di combaciare: il refrain di “La Verità (E’ Che Non La Vuoi)”, con le sue curvature Emo Rock, può tranquillamente essere scambiata per un brano dei “pinguini”. Assonanze si notano anche con il coro di “Devo Fare Presto”, simile, eppur dissimile, a “Calce” dei Fast Animals And Slow Kids, conterranei (e le coincidenze paiono non cessare mai) dei Majakovich. Attenzione però a non scambiarli per delle pallide imitazioni di band un pelo più blasonate, perché è necessario avere ben stampato un concetto nel cervello: il terzetto in questione, se ci si mette, è in grado di sovvertire addirittura il naturale svolgersi degli eventi.

Il basso granitico di “Perché Francesco Migliora”, sgranocchierà sassi finché non verrà interrotto dal tenerissimo pianoforte che introduce “Colei Che Ti Ingoia”. Praticamente la tempesta prima della quiete. Due punti focali che fanno lievitare il voto sono senz’altro i testi e le melodie dannatamente catchy. Se poi i due fenomeni entrano in rotta di collisione, ci potremmo trovare a cantare a squarciagola in coda alla cassa di un supermercato E io non me lo scordo quell’inferno. Faceva troppo freddo, ritornello di “L’Hype Del Cassaintegrato”. I quaranta minuti circa che compongono Il Primo Disco Era Meglio, vanno via che è una bellezza, sono pochissimi gli scivoloni nell’autocompiacimento. Esempio lampante, in questo senso, sono gli arpeggi infiniti posti nel finale della malinconica “Una Vita al Mese”. Ma è un’eccezione, un minuscolo neo di un lavoro che non mostra mai il fianco e non ha punti deboli evidenti.

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