MC5 Tag Archive

Dodici Tracce: non la solita playlist #09

Written by Playlist

Una rubrica in cui le illustrazioni di Stefania incontrano gli scritti e le playlist di Claudia, dando alla luce un racconto sonoro a forma di vinile.
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Ty Segall – Manipulator

Written by Recensioni

In questo calderone di produzioni vintage (che tanto piacciono da fine anni 2000 in avanti) potrebbe entrare di diritto anche il ragazzo prodigio Ty Segall. Nato a Laguna Beach e classe 1987. Per chi non lo conoscesse vanta già una vasta produzione discografica con una ottima media di un disco all’anno. Penso che tutti siamo d’accordo nel sostenere che quando si fa revival il rischio di inciampare su un terreno arido di idee è molto elevato. Ma il giovanotto sa che questo e ben altri rischi sono la supposta quotidiana da mandare su per chi vuole vivere di passioni. E allora, senza guardarsi nè troppo avanti, nè troppo indietro, prende il meglio del sound più marcio di fine anni 60 inizio 70 e lo strapazza dentro un vortice di frenesia moderna che già scalpita in “Manipulator”, brano che apre e da il nome al disco. La title track è un viaggio distorto e psichedelico, guidato da un organo strafatto fino al midollo. “Tall Man Skinny Lady” fa intendere che la produzione a sto giro è stata curata sicuramente meglio degli altri suoi lavori. Non disperiamo, il grezzo viene fuori sempre, come la mano di uno zombie che rompe la tomba pronto ad azzannare gole nel più trash dei B-Movie. La chitarra di Ty Segall è un uragano, un fiume in piena pronto a spazzare tutti i fighetti e i loro occhiali con le montature grosse. Altro che facile revival! Attenzione, i compromessi ci sono. E forse sono gli episodi più caratteristici e portano (sempre con spiazzante naturalezza) il disco ad un altro livello. “It’s Over” si avvicina al confine del Brit Pop e pare giocare con un groove che ha il sapore dei tempi splendenti e combattenti dei The Who. La gioiosa “The Clock” riporta il suond acustico che ci aspettavamo. Ad accompagnarlo ci sono archi tanto inattesi quanto magistralmente incastonati in questa perla di melodia antica. La melodia come non mai. Melodia straziata e presa in giro, sia in “The Singer” con i falsetti autoironici che in “Don’t You Want to Know? (Sue)”, ballata scanzonata da pomeriggio londinese di timido sole. “The Connection Man” invece riporta il suono di Ty alle origini, con un bel pezzo Garage fino al midollo e che non rinuncia ad un buon gioco di stile vocale, tanto per non rendere neanche un istante di questo lungo lavoro (sono comunque 17 brani!) banale e ripetitivo. L’assolo in questo pezzo è uno di quei momenti in cui sorridi e capisci quanto sia sincero a volte il Rock’N’Roll. La parte finale di archi in “Stick Around” non ha mezze misure e mi convince ancora di più a sostenere che l’album sia il lavoro più riuscito e completo di Ty. Nonostante si possa pensare ad un gran pastone citando le influenze, che passano da Oasis a T-Rex, da Black Sabbath a Nirvana, dalla psichedelia dei Love alle scorribande degli MC5, tutto con una disarmante armonia. No niente The White Stripes o Black Keys, per loro ormai c’è l’olimpo. Qui si preferisce marcire in questo sporco mondo, ancora pieno di odori sgradevoli, luci offuscate e vecchi fantasmi. Tutto narrato con la facilità e l’onestà di chi corre volentieri un altro gran rischio, bruciandosi ancora con il suono bollente delle sue valvole.

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Vietcong Pornsurfers – We Spread Desases

Written by Recensioni

Beata ignoranza. Quanto mi piacciono i gruppi così diretti e sfrontati. Pochi fronzoli e buona musica rabbiosa. Sbava dalle casse e mischia la sua saliva con il sudore che si genera già dal solo tasto play del lettore CD.
I Vietcong Pornsurfers (e il nome è già un “fottutissimo” programma) vengono dalla Svezia ma per loro fortuna non si sente troppo. Tutto si può dire ma non di certo che siano i soliti cloni di Backyard Babies, The Hellacopters o Hardcore Superstar.Certo, i maestri scandinavi echeggiano non troppo lontani nelle sonorità dei quattro ragazzacci, ma la base rimane ancorata al vecchio Garage Punk americano e all’Hard Rock più veloce e grezzo che ci sia. Allora onore a leggende come Iggy and The Stooges, MC5, Misfits e Motorhead. Il risultato? Rozzo come un topo di fogna e frenetico come un bolide ai 200 kilometri orari.

Il combo è giovane ma ha la faccia come il culo, la sfrontatezza giusta. Lo dimostra allo start con “Marcel”, chitarre distorte al punto giusto (scelta molto apprezzata), cassa e rullante da cardiopalma e la voce di Tom K a metà tra James Hetfield e Rob Tyner.   La bomba è servita e pronta ad esploderci tra le mani. Semplice e d’effetto: nulla di nuovo eppure un sound spensierato, alcolico e per nulla scontato o banale. Come altre band del recente passato i Vietcong Pornsurfers danno grandi speranze al loro genere. Con una terribile facilità sparano fuori un prodotto convinto e moderno, nonostante in tutto questo ci siano i soliti vecchi e ritriti giri di accordi Punk Rock. La stessa sensazione mi è capitata negli ultimi anni con Buckcherry, The Gaslight Anthem e Gotthard. Tutte grandissime band, a mio avviso troppo sottovalutate.

Paragoni a parte, l’album scorre e la sensazione dall’inizio alla fine è quella di correre a più non posso per scappare da una miriade di dobermann incazzatissimi. Nessuna ballata, tutte tracce killer. La botta è reale e lo stomaco la sente tutta. Dall’inizio bassoso molto Danko Jones di “Dead Track” alla viscerale distorsione vocale (lo conoscono bene il Garage eh?) di “Selfdestructive” che sfocia in un assolo impazzito simbolo di una produzione molto libertina ma non per questo meno efficace della miriade di prodotti iperlimati e infiocchettati che invadono la scena. Degne di nota “Deseases” (accompagnata da un divertentissimo video, guardate sotto!): inno alla musica di Lemmy Kilmister, ma anche grido unito per tutti i disadattati che ancora oggi credono in quella illusione che prende il nome di “Rock’n’roll”. Già perché la sensazione è che i “surfers del porno” non abbiano alcuna intenzione di piacere a qualcuno se non a loro stessi. Anche il singolo “I Hate Your Band” non scende a compromessi, nessun ammorbidente, nemmeno quando emergono i coretti più Glam/Sleaze del ritornello.
Non mi resta che rispondere alla domanda che mi affligge ogni volta che ascolto un disco del genere. Il Rock è davvero morto? La risposta più spontanea che mi viene è: vaffanculo, no!

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