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Recensioni #03.2017 – Los Campesinos! / Someday / Angela Baraldi / Starship 9 / Pieralberto Valli

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Manuel Volpe & Rhabdomantic Orchestra – Albore

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Prova di eleganza e di gusto per il marchigiano Manuel Volpe. La sua mano da produttore e musicista si sente in questo nuovo disco dal titolo Albore pubblicato dalla Agogo Records. Interamente scritto, arrangiato e prodotto da Manuel Volpe, l’album si avvale di un eccellente team di produzione composto da Massimiliano Moccia (Movie Star Junkies), Andrea Scardovi (Sacri Cuori), Kelly Hibbert (Flying Lotus, Heliocentrics) e Volpe stesso con la preziosa supervisione dell’esperto di Afro/Jazz/Fusion Andrea Benini (Mop Mop). L’artwork è ad opera di Edoardo Vogrig. A tre anni circa da Gloom Lies Beside me as I Turn my Face Towards the Lights si ripropone sul mercato musicale con una delle più interessanti uscite del nuovo panorama discografico italiano di questo 2016, un lavoro che come pochi, nasce dalla provincia e visita regioni antiche ed altre lontane portandoci a spasso per i territori latini e quelli arabi, tra i popoli e i cori africani e i metalli preziosi delle grandi città. Un disco sostanzialmente di Lounge che coniuga pochissima elettronica ai suoni reali condotti per mano dalla sua inseparabile Rhapdomantic Orchestra. In questi dieci inediti in studio, Manuel Volpe culla e accompagna, in brani che rischiano la monotonia certamente ma che invece ogni volta sanno come sottolineare il proprio carattere e la propria personalità.

“Basrah”è una traccia molto seducente almeno quanto “Rhabdomancy” che però è più
“spirituale” affrontando temi quali il rapporto che l’artista ha con Dio. Il video di lancio, bellissimo, recita il concetto di viaggio ma soprattutto di divenire: il brano è “Nostril” ed il protagonista è un ragazzo di colore che osserva una Torino sconosciuta perché forse vi ci arriva per la prima volta. Oppure osserva la sua città in un modo che mai prima si era sognato di fare e quello che vede, in ogni caso, è una scoperta. Ed il disco di Manuel Volpe il fondo è così: una scoperta dietro il telaio di brani dolcissimi, scuri, intensi, riflessivi e assolutamente internazionali. Prova di stile contro gli inutili quanto ormai scontati tentativi di trasgressione digitali che si espandono a macchia d’olio in questa scena indipendente italiana.

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Rich Bennett – DiBenedetto

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Ve lo dico senza mezzi termini e senza girarci troppo intorno. L’Ep DiBenedetto, che marchia il ritorno sulle scene dell’artista statunitense Rich Bennett, è quanto di più insoddisfacente mi sarei atteso di ascoltare, viste anche le intriganti premesse che narrano del suo viaggio in Sicilia alla scoperta delle sue origini (Di Benedetto sarebbe proprio il suo cognome primigenio) e quindi della posa in musica di tutto quanto questo trip introspettivo e corporeo nello stesso tempo ha provocato nella sua anima tormentata ma vitale, attraverso l’uso del primo amore, la chitarra. Rich Bennett è artista poliedrico e mai apatico, come dimostrano le sue tante esperienze e le sue diverse collaborazioni (si prenda ad esempio la presenza come tastierista nella band Dream Pop di Brooklyn dei Monocle) eppure, in quest’opera, poco sembra trasparire della natura caleidoscopica che l’ha visto cimentarsi con una varietà stilistica e di generi non indifferente.

Pur se suggestionato, per sua stessa ammissione, da geni del calibro di Bob Frisell, Robin Guthrie e David Sylvian, nell’Ep che potremmo definire omonimo in un certo senso, manca compiutamente la parte più sperimentale, audace, temeraria che esalta i lavori soprattutto degli ultimi due sopra citati e tutto si risolve in quattro brani, interamente strumentali, che provano a musicare un’ideale pellicola nostalgica, nello stile Easy Listening di Burt Bacharach e con un vano sforzo di attualizzare il tutto, attraverso un’elettronica a metà tra Stereolab e Delia Derbyshire. Quattro brani più uno, l’opening “Il Grande Silenzio”, arrangiamento del pezzo del maestro Ennio Morricone, non troppo celato e cardinale punto di riferimento di Rich Bennett, almeno per quest’occasione. Da non trascurare la presenza del musicista newyorkese Jesse Krakow, nel brano “Narcissus”.

Come potrete afferrare, ogni cosa lascerebbe supporre un grande Ep ma le attese sono quanto di più lontano dalla realtà possiate immaginare. Nessuno dei cinque brani, esclusa la cover, riesce a evocare la magia delle terre del mezzogiorno, neanche uno è capace di creare mondi lontani, dimenticati e neppure di eccitare semplicemente. Tutti i brani scivolano stancamente nella noia e in un oblio che si fa pressante, nell’impotenza di un sound spoglio, senza voler essere nudo. La semplicità è pregio e qualità essenziale per chi voglia raggiungere presto il cuore di chi ascolta ma quando diventa banalità, quello che resta davvero è solo il silenzio dopo l’ultima nota.

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