Hard Rock Tag Archive

Top 3 Italia 2015 – le classifiche dei redattori

Written by Classifiche

I tre migliori dischi italiani di quest’anno secondo ognuno dei collaboratori di Rockambula.
Continue Reading

Read More

Danzig – Skeletons

Written by Recensioni

Glenn Danzig è un artista con un marchio di fabbrica ben delineato fatto di un personale Rock ruffiano, roccioso e a volte strampalato, e una voce inconfondibile sin dai tempi dei Misfits. Come tanti però, anche lui pare ultimamente aver trovato una nuova propria dimensione che non sembra voler più scrollarsi di dosso. Skeletons è il suo ultimo album e rappresenta la totale conferma di questa ritrovata nuova stabilità. Di certo ci sarà chi ne apprezzerà la nuova veste e chi storcerà il naso come qualcuno si accontenterà del suo solito sound e chi pretenderà qualcosa di più. Insomma è come la questione di Iron Maiden o dei Motorhead: restare cosi perché ormai gli anni lo permettono o tornare a stupire ancora una volta? Innegabilmente la prima ipotesi va un po a screditare gli artisti perché è  sinonimo di fermezza, di mancanza di idee e nel peggiore dei casi, sintomo di artisti finiti; nella seconda, invece, c’è il piacere e la curiosità di vedere se c’è ancora un’inventiva o magari un’ “anima”. Le leggi di mercato, i target e i contratti fanno la loro parte ma fino a che punto? Skeletons è un disco che ha davvero poco da dire in quest’ottica, è il classico lavoro di buona fattura di Danzig ma non aspettatevi assolutamente nulla di nuovo. Osservando in maniera pignola il disco, notiamo addirittura che certe melodie, che tanto avevano reso celebre l’ artista, sono diminuite e quasi tutte le tracce hanno una struttura simile. Il sound è sempre pulito, il lavoro in studio come al solito è ben fatto; non ci sono sbavature che compromettano l’ album. Il punto cruciale resta quello citato all’ inizio; di seguito non aspettatevi un platter diverso dagli altri. I fan più accaniti lo apprezzeranno ma gli intenditori del genere volteranno pagina e si dedicheranno sicuramente ad altro.

Read More

Valkyrie – Shadows

Written by Recensioni

Un rock inspirato quello dei Valkyrie, un Rock dalle tante sfumature e dai diversi riferimenti. La band sa bene come amalgamare Doom ed Hard Rock. Shadows è il loro terzo disco, quello che si è fatto apprezzare più di tutti. La band dei fratelli Adams si rifà ancora una volta a pilastri come i Deep Purple, Thin Lizzy e Mr. Big, questo per quanto riguarda il versante Hard Rock, mentre, sulla scia Doom, padroneggia un sound tanto caro ai Kyuss ed agli Spirit Caravan.  Questa terza fatica della band americana mette a fuoco, e questa volta veramente, le potenzialità dei ragazzi. E’ interessante lasciarsi andare ai loro giri di chitarra ed è magnifico lasciarsi trasportare dai loro assoli. Riescono ad alternare, in un pezzo, momenti tecnici e chiassosi dediti al più pungente Hard Rock a momenti oscuri e baritonali del Doom. La melodia è una costante del disco, si fa notare ed apprezzare; la banalità invece è inesistente. Nulla è dato per scontato in questo disco, ogni cosa è al suo posto in maniera artistica. Partendo dall’opener, troviamo una traccia maggiormente strumentale che presenta l’album alla grande; i musicisti partono con una canzone che è un vero e proprio macigno: riff, assoli ed una batteria strepitosa. In “Golden Age” si comincia a sentire la vena Doom; l’andazzo baritonale è molto evidente. La terza traccia, “Temple”, è quella che, con molta probabilità, amalgama al meglio i due stili; per il sottoscritto è la canzone più rappresentativa: chitarre possenti e taglienti allo stesso tempo, accompagnate da un pulsante basso che insieme alla batteria crea una base unica.  “Shadow Reality” è quasi una ballata con ottimi  giri di chitarra ed un cantato coinvolgente.  “Wintry Plains” invece è la traccia che più di tutte ha delle venature psichedeliche; il gioco delle chitarre conduce a quelle sonorità.  “Echoes” invece, la penultima canzone del platter, è tra quelle più belle e a far da padrone sono le chitarre coinvolgenti più che mai. La conclusiva “Carry On” chiude in bellezza attraverso affascinanti melodie create dalle onnipresenti chitarre. Insomma, Shadows è un album di ottima fattura; piacerà a persone di vario genere.

Read More

Recensioni | agosto 2015

Written by Recensioni

????????

Ben Miller Band – AWSOF (Country, 2014) 8/10

Un secondo album spettacolare per il trio Ben Miller, Doug Dicharry, Scott Leeper che unisce in dodici tracce dal sapore Country tutta la propria esperienza e classe, miscelando Bluegrass, Americana e Southern Rock in un sound estremamente tradizionale ma che riesce a non emanare mai lo sgradevole odore di anacronismo.

Gab de la Vega – Never Look Back (Cantautorato, Punk, 2015) 7,5/10

Il cantautore Punk Folk bresciano Gab de la Vega torna e stupisce tutti con dieci nuovi pezzi e un’interpretazione di “Never Talking to YouAgain”, un grande classico degli Hüsker Dü. Un po’ ricorda quanto fatto recentemente da Tv Smith, ma c’è anche tanto di Bob Dylan e Neil Young. Da non lasciarselo sfuggire!

Stearica – Fertile (Post Rock, Math Rock, 2015) 7,5/10

Essere scaraventati al muro dalla potenza del suono non è cosa che succede troppo spesso. Gli Stearica ci riescono, in versione digitale quanto in versione live, a botta di drumming energici, bassi e chitarre distorti.

Lydia Lunch/Retrovirus – Urge to Kill (No Wave, Post Punk, 2015) 7/10

Lydia Lunch scrive il capitolo del progetto Retrovirus, riunendo sul palco Weasel Walter alla chitarra, Tim Dahl al basso e Bob Bert (Sonic Youth) alla batteria. Nove tracce per ripercorrere la carriera della “big sexy noise queen” e una ciliegina sulla torta: la cover di “Frankie Teardrop” dei Suicide.

OoopopoiooO – OoopopoiooO (Sperimentale, Ambient, 2015) 7/10

Due maestri del theremin creano un nome impronunciabile, sintomo di un universo distorto, onirico, pazzoide. Quella pazzia sana, che fa andare oltre le spesse barriere del Pop e mischia strumenti, giocattoli, elettronica, parole e voci che sembrano arrivare dalle zone più nascoste del nostro cervello. Tredici brani che sembrano difficili al primo ascolto ma che alla fine ci sembreranno vicini alle orecchie come ronzii di insetti.

All About Kane – Seasons (Pop Rock, 2015) 7/10

Gli All About Kane alla loro seconda prova discografica intitolata Seasons, confermano l’ottimo esordio con Citizens e aggiungono alla loro dna british un pizzico di sperimentazione che si spinge verso il Pop e l’Alternative. Seasons è un interessante insieme di melodie leggere e mood movimentati; canzoni come “Old Photograph” e “Hurricane” si fanno amare fin da subito per piacevolezza e orecchiabilità. Nonostante spesso la voce del cantante ci ricordi molto Brian Molko dei Placebo, gli All About Kane riescono a mantenere viva la propria identità per tutto l’album, offrendo all’ascoltatore qualcosa di interessante e ben realizzato. Anche se uscito da qualche mese lo consigliamo per tutti i viaggiatori estivi che hanno voglia di una sferzata di aria fresca.

My Own Prison – Sleepers (Hard Core, 2015) 7/10

Cagliaritani, i My Own Prison, dimostrano con questo loro lavoro di conoscere decisamente bene l’hard core e di possedere tutta la tecnica per poterlo personalizzare. Tutto il disco è fondato sull’infuenza grind e su un cantato growl che muove su ritmi serratissimi di basso e batteria (al limite dell’agilità), che non si concedono tregua neppure in “Sleepers Eve”, caratterizzata da un timbro chitarristico dal sapore Indie-Pop, o nella più intima “Temper Tantrum”. Dieci tracce per un full lenght davvero pieno di energia, decisamente per gli appassionati del genere.

Solkiry – Sad Boys Club (Post Rock, 2015) 6,5/10

A due anni di distanza dall’album d’esordio, torna il quartetto australiano con il suo dinamico Rock strumentale di chiarissima ispirazione mogwaiana. Un disco potente e variegato, che riesce a cullare tutto lo spettro di emozioni che si accavallano nei sogni ad occhi aperti e che ha l’unico difetto di mostrarsi troppo incapace di osare davvero, risultando troppo banale e ripetitivo nella scelta pura dei suoni.

A Minute to Insanity – Velvet (Grunge, Stoner, 2014) 6,5/10

Il Grunge non è morto. Gli A Minute to Insanity da Cosenza lo dimostrano con orgoglio in questo ep. La chitarra e la voce “consumata” di Francesco Clarizio, insieme al basso di Antonio Trotta e alla batteria di Francesco Lavorato, ti riportano lì, in quegli anni Novanta che non sono ancora messi in archivio del tutto.

Attribution – Whynot (Rock’n’Roll, 2015) 6,5/10

Potente e autorevole questo Whynot dei bergamaschi Attribution, album che mescola un’attitudine classicamente Rock and Roll ad una commistione di generi che invece di risultare indigesta esalta le qualità di ogni singolo componente (prezioso l’uso dei fiati). Da ascoltare soprattutto il divertente Funk di “Scofunk” e la bella rivisitazione di “Cold Turkey” di John Lennon.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Ep (Stoner, Noise, Hard Rock, 2013) 6,5/10

Un vero e proprio calderone: fondete Stoner, Noise e Hard Rock e otterrete la giusta ricetta sonora; un sound che appartiene più all’America che all’Italia e forse in questo la lingua non aiuta molto (sarebbe stato più giusto cantare in inglese!). Nonostante ciò un lavoro maturo negli arrangiamenti e perfetto nella registrazione

Snow in Damascus – Dylar (Elettronica, Shoegaze) 6/10

Atmosfere cupe e sonorità che spaziano tra Elettronica e Shoegaze, per un disco d’esordio che nel complesso suona come un buon lavoro di tecnica, ma che non colpisce per la sua originalità.

Moira Diesel Orchestra – Moira Diesel Orchestra (Alternative, Post Grunge, 2014) 6/10

Orfani degli anni Novanta, i MDO ricercano costantemente sonorità a metà tra il Seattle sound e dei seminali Litfiba. Tra qualche errore di gioventù e troppi eccessi di imitazione emergono alcuni momenti interessanti come “Nostema di Posizionamento Globale” o “Ardore” che per qualche minuto cancellano i molti reminder. Rimandati.

The Moon Train Stop – EP (Rock, Alt Pop) 6/10

Echi sixties per il trio piemontese all’esordio. Un Pop alternativo luccicante, divertito, ritmato, senza eccessiva originalità ma competente. Quattro brani suonati bene, cantati così così. L’inglese non rende benissimo. Non lasciano (ancora) il segno.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Di Blatta in Blatta (Stoner, Noise, Hard Rock, 2015) 5,5/10

Quando si incide un disco che ha il grave compito di succedere a quello d’esordio si pretende qualcosa di più; purtroppo in questo lavoro si mette in evidenza solo la bravura. Mancano i contenuti e le idee nuove. Un piccolo passo indietro quindi è stato fatto nonostante il gruppo si sia aperto ad un lato più “oscuro”.

Night Gaunt – Night Gaunt (Doom Metal, 2015) 5,5/10

I romani Night Gaunt fanno loro l’essenza dei Candlemass unendola alle cupe atmosfere dei Katatonia e alle accelerazioni di puro stampo Celtic Frost. Si resta sempre nell’ambito del Doom Metal, fedeli a un registro prestampato. Senza infamia né lode.

Marco Spiezia – Life in Flip-Flops (Cantautorato, Swing 2015) 5/10

Semplicità ed immediatezza sono le caratteristiche principali di questo disco che non fa ascoltare nulla di nuovo ma che diverte. Canzoni (quasi) sempre veloci ma dai ritmi abbastanza simili. Forse il cantautore sorrentino Marco Spiezia dovrebbe (e potrebbe) osare di più.

The Junction – Hardcore Summer Hits (Indie, Pop Punk) 5/10

Per i tre padovani, il secondo album è una nuova prova con pretese ridotte al minimo sindacale. Pezzi tirati quando basta per provare a non annoiare, qualche buona melodia, un inglese che si tradisce spesso e tantissime banalità, in una miscela di cliché Indie Rock e qualche incursione nei territori del Punk Rock (Pop meglio) da bermuda, occhiali da sole e infradito.

Read More

New Babylon – My New Baby

Written by Recensioni

Prendete cinque ragazzi romani che hanno il Rock nelle vene, in presenza maggiore persino del sangue. Ecco a voi materializzarsi i New Babylon, gruppo con quasi un decennio di musica alle spalle che dopo essere tornati con una nuova line up nel 2012 dopo un breve periodo di pausa arrivano finalmente alla prima prova discografica dopo circa due anni. Cinque brani per l’ep My New Baby interamente registrato, mixato e masterizzato da Danilo Silvestri e Daniele Scaramella al Green Mountain Audio presso lo Stex Sound di Roma. Puro Hard Rock tipico degli anni Ottanta concentrato in soli diciotto minuti di assoluto piacere sonoro! Ecco come si potrebbe sintetizzare questo lavoro in appena una riga… Del resto se queste canzoni fossero state pubblicate in un disco dei Gund N’ Roses o degli EnuffZ’nuff non avrebbero certo fatto cattiva figura…
Davvero strano se si considera le origini musicali di Matt e Pane che fecero parte dei thrashers Enemynside… Ma Wolf (voce), Matt (chitarra e cori), Jonna (chitarra e cori), Pane (basso e cori) e Sergente (batteria e cori) ce la mettono davvero tutta e dimostrano infatti il loro valore sin dalle prime note di “Can’t Stop”, in cui il gruppo scarica tutta la sua energia sonora.
“Any Given Day (Big Brother)” inizia con una splendida apertura (davvero azzeccata!) di batteria che scandisce il tempo e dà il La al resto del gruppo ed è sinceramente un peccato che duri solo poco più di tre minuti. La titletrack è certamente l’episodio migliore del disco, sia per il suo sound grezzo sia per le sue liriche e per i riuscitissimi backingvocals; in “The Big House of Love” invece colpisce subito il grande lavoro effettuato dalle chitarre soprattutto negli assoli, semplici ma mai banali e sempre duri ed incisivi. La favola giunge purtroppo al termine con “One Step Further” in cui ci sono persino rimembranze di Iggy Pop and Stooges.
Probabilmente i New Babylon non avranno inventato nulla di nuovo con questo disco ma come dicevano i Rolling Stones: “It’s only Rock ‘n Roll but i like it!”. E piacerà pure a voi (statene certi!). PS: Le ultime notizie sulla band riportano un nuovo cambio di formazione con l’entrata alla voce della nuova cantante Cris che ha già esordito col gruppo dal vivo e che sarà al microfono anche per la prima trasferta in Inghilterra al The Iron Road di Evesham il prossimo 11 aprile.

Read More

Lykaion – Heavy Lullabies

Written by Recensioni

Quanti cambiamenti in casa Lykaion. Conosco questa band da quando esordirono, ebbi modo di ascoltarli live e d’intervistarli. In quegli anni alla voce c’era Tiziana Palmieri e i Lykaion erano un quintetto appena nato dedito ad un Gothic Rock simil HIM, Katatonia e Sentenced. Nell’ arco di dieci anni la band si è rivoluzionata, ha abbandonato le vecchie e decadenti sonorità per innescarsi in un roccioso Hard Rock capace di miscelare lo stile dei Crashdiet, dei Negative, degli Airbourn e dei Poisonblack. La vena triste e malinconica è rimasta, infatti, come già detto prima i Lykaion si accostano musicalmente ai Poisonblack, attuale band di Ville Laihiala (ex Sentenced). Parlando della cosiddetta “vena malinconica” troviamo un abissale differenza tra i Lykaion di dieci anni fa e quelli di adesso. Il disco che andremo a trattare si intitola Heavy Lullabies, già da qui dunque ci si può fare un idea su dove si andrà a finire, questo non vuol dire che bisogna essere banali e scontati perchè in un modo o nell’ altro il disco ha le sue chicche interessanti. Si tratta di un album che equilibra quasi tutto: melodia e aggressività, sound pulito con quello più distorto. La maggior parte delle tracce, anche per come ha fatto intendere il titolo del disco sono delle ballate studiate (non fraintendiamo il termine) nei minimi dettagli. “For Love” è il primo effettivo brano dopo un dolce intro, la titletrack appunto, e racchiude tutte le peculiarità di questo disco (è stato girato un video per questa canzone). La successiva “Anthem” gioca molto sul piano-forte e su dei cori che si faranno ricordare facilmente. “I Dont’ Love You Anymore” è la classica canzone strappalacrime, calma e con il ritornello che non si scolla più dalla mente. Altri pezzi forti di Heavy Lullabies sono ancora: “End Of Time” che vanta ancora una volta di un eccellente melodia e musicalità e “Accept Yourself” che almeno personalmente considero uno dei cavalli di battaglia del disco con i suoi assoli ed i suoi giri di chitarra. I Lykaion hanno subito una trasformazione evidente, già il cambio di voce dal maschile al femminile mescola in un certo senso le carte in regola, in più, metteteci il sound che parte Doom per poi sfociare in un massiccio Hard Rock. Con molta onestà apprezzo tantissimo i Lykaion di ora, chiaramente hanno ancora da dimostrare questa svolta è sostanzialmente un nuovo punto di partenza, ma parliamo di ragazzi che hanno la musica nell’ animo e che difficilmente steccheranno. Sono fiducioso.

Read More

Hard’n’Heavy & Doom Festival 2015

Written by Senza categoria

L’Hard’n’Heavy Festival è alla sua prima edizione a Genova all’interno del FIM-Fiera Internazionale della Musica, evento giunto alla terza edizione. Un Festival che regalerà a musicisti, professionisti del settore e appassionati del genere, due giornate piene di musica Hard Rock, Heavy Metal e Doom Metal. Dalle prime ore del pomeriggio del 15 e 16 Maggio si susseguiranno numerosi gruppi sul palco verde della Fiera del Mare di Genova fino alle ore 24. Tra le bands presenti segnaliamo EPITAPH, MASTERCASTLE, GUNFIRE, THE BLACK, BUD TRIBE, VANEXA, PERSEO MIRANDA, WONDERWORLD, H.A.R.E.M., BLUE DAWN, …headliners delle due serate saranno lo storico vocalista JOE LYNN TURNER (ex Rainbow e Deep Purple) e il grandissimo tastierista, chitarrista e cantante KEN HENSLEY (ex Uriah Heep). Il 17 Maggio invece ci sarà la terza edizione del Riviera Festival PROG al quale parteciperanno incredibili formazioni tra le quali i GOBLIN REBIRTH, gli UT NEW TROLLS, i riformati CHERRY FIVE (Pre-Goblin), gli EMERSON, LAKE & PALMER Project e l’ex frontman della PFM BERNARDO LANZETTI con i BEGGAR’S FARM.

Fiera di Genova (Genova – Foce)
Piazzale Kennedy 1 16129 Genova
(dalle ore 10,00 alle 24,00)

PROG FIM 600

Read More

The Fire – Bittersweet

Written by Recensioni

Cosa succede quando un musicista, preso da un irrefrenabile istinto creativo, esce dall’universo in cui si trova per entrare in un’altra dimensione che lo porta a comporre un pezzo, interpretare una cover, sperimentare nuove sonorità? E cosa succede quando il suo operato, figlio dell’istinto primordiale di fare musica, non si colloca apparentemente in un progetto preciso? I The Fire si sono posti l’interrogativo, e si sono dati una risposta con Bittersweet, un EP uscito per Ammonia Records, che raccoglie appunto tutti quei pezzi che rappresentano degli esperimenti sonori, non inseribili in nessun LP in quanto non attinenti al percorso sonoro in esso contenuto e che addietro sarebbero andate a costituire la B-side di un vinile. Il dubbio che subito mi assale è: non avrebbe forse senso dare anche ad un EP un’organizzazione più organica, secondo un percorso sonoro ben definito? Ma i The Fire sembrano essere consapevoli e responsabili del modo in cui stanno gestendo la faccenda, e così Bittersweet raccoglie volutamente cover nate per altri progetti, pezzi nati a seguito dell’evoluzione di riff adottati per il soundcheck, canzoni che provengono da situazioni diverse e momenti della vita distinti, tutte racchiuse in un unico lavoro che ne consente l’ascolto ed evita che possano perdersi nell’oblio. E così troviamo “Bittersweet” dal sound duro accentuato dalla voce piena di carattere di Olly Riva, seguito da una cover di “Roxanne” dei Police in chiave decisamente più rockeggiante dell’originale; a seguire “She’s The One” e la ballata “Lonely Hearts”. Per finire le due cover “Dr Rock” dei Motörhead e “Train In Vain” dei The Clash, quest’ultima interpretata per sola voce e chitarra con percussioni minimaliste. Nel complesso si tratta di un buon lavoro, buona produzione e arrangiamenti, anche se il tutto è privo di quel guizzo artistico capace di renderlo particolare.

Read More

Hell in the Club – Devil on My Shoulder

Written by Recensioni

Attendevo con entusiasmo questo secondo capitolo degli Hell in the Club, band formata da membri dei Secret Sphere e degli Elvenking. Partiamo col dire che qualche anno fa ebbi modo di ascoltare Let the Games Begin, il loro disco d’esordio e ne rimasi veramente affascinato per l’intraprendenza e il talento dimostrato. Ora è il momento di Devil on My Shoulder. Anche questo disco è di stampo Hard Rock e sarà sicuramente apprezzato dai fan dei L.A. Guns, Twister Sister, Motley Crue e Skid Row. Cosa ha di particolare questo nuovo album di Davide e soci? Fondamentalmente poco o niente ma è suonato ad arte, l’album presenta riff e assoli di una certa caratura e ci sono melodie e giri di chitarra che farebbero gola agli Aerosmith o ai Mr. Big. Un album dall’ascolto facile ti prende se fai un giro in auto, se fai jogging o magari chiuso in stanza per scuoterti un po’, è sempre il momento giusto per Devil on My Shoulder. Volendo dividere i momenti e abbinarli alle diverse tracce potremmo dire che “Bare Hands”, “Whore Paint”, “Save Me” e “Snowman Six” sembrano composte proprio per andare in giro per la città con le cuffie nelle orecchie e l’apposito walkman (perdonatemi l’antichità ma ci sono affezionato) godendosi i vari paesaggi. Con la titletrack, “Proud”, “Pole Dancer”, “Toxic Love” e la conclusiva “Night” ci sta bene un infinito giro in macchina, avete presente quando accendi il motore e gironzoli senza meta con i propri pensieri? Ecco resa l’idea. Si balla ondeggiando con “We Are the Ones”, “Muse” e “No More Goodbye”, queste potremmo considerarle le tracce più calme del platter, le classiche canzoni che le balli cantando. Insomma Devil on My Shoulder è un album veramente raffinato e gli Hell in the Club divengono una realtà da non sottovalutare. Senza ombra di dubbio la Scarlet Records ha fatto centro tenendo con se questi scatenati ragazzi che al di fuori di tutto hanno ancora tanto da mostrare.

Read More

Highway Dream – Wonderful Race

Written by Recensioni

La fiera del clichè. Purtroppo questo e poco di più ci lascia questo disco dei cremonesi Highway Dream. Una grande esplosione di tecnica, di suoni pomposi, di brani troppo fini a se stessi. L’impressione di una band molto determinata, ma poco coesa e poco permeabile. Il gruppo, nato nel 2008, piazza un macchinone in copertina e sfodera un titolo a dir poco prevedibile. Wonderful Race è un mix tra Hard Rock di matrice anni 80 (Europe, Scorpions su tutti) con parecchie influenze che strizzano l’occhio al Metal più classico (il confine poi è davvero sottile). Insomma nessun rischio, nessuna aria nuova, ma anche nessuna frizzantezza nel puro revival. Il disco rimane incastonato in un non preciso periodo e si perde in fretta in architetture complicate e poco efficaci. La voce di Isabella Gorni è potente e precisa, ma non ha la cattiveria e l’arroganza dell’Hard Rock. I chitarroni pesanti fanno da padroni già in “Unbelivable”, riff con basso bello pompato che ricorda vagamente i fasti dei primi Van Halen. La melodia però è povera nel ritornello per nulla memorabile e con un raddoppio di batteria alquanto discutibile (ad onor del vero la mia allergia al doppio pedale non mi aiuta per niente!). La stessa formula si ripete pressochè immutata in “Don’t Let You Die”, il tutto si disperde di nuovo in parti strumentali ipercomplicate: assoli velocissimi, incastri basso e batteria poco direzionati al nudo e crudo groove. In “Highway Dream” c’è almeno un’aria 80’s che dona un po’ di senso al suono tamarro della sei corde e ai suoi incessanti assolazzi (spesso anche ben studiati e melodici in mezzo al mare di note). Lasciamo stare poi “Many Reason” dove oltre al mio “amico” doppio pedale intervengono anche sbrodolature di basso. La sensazione è che la grintosa Isabella arranchi, in un disco ricco di brani non propriamente adatti alle sue corde vocali poco rudi.

Anche le scelte sonore sono poco convincenti, poco graffianti e penalizzate dalla scarsa amalgama, la cura nel mix non sembra essere stata minuziosa. In ogni caso gli Highway Dream suonano obiettivamente bene e in alcuni frangenti sembrano avere i numeri per fare molto di più. Lo si sente nella tanto aspettata ballata “Let Me Be Your Breath”, dove ci attende un bell’arpeggio che ricorda “Californication” dei Red Hot Chili Peppers. E finalmente almeno sentiamo qualche atmosfera diversa, più aperta, ma comunque ancora troppo disgiunta e vaga, la tecnica e l’intenzione di volare ci sono ma sono frenate dal songwriting sempre troppo ancorato a terra e da idee che paiono rinchiuse in schemi scolastici. L’ultimo pezzo la dice lunga già dal titolo: “Born to Be a Rockstar” presenta solo un bello stacco alla Black Sabbath, sotterrato dal contorno piatto e insipido. La “fantastica gara” finisce qui e, ad essere onesto, mi sembra solo un gran luccicare di una bella auto con il motore pompato. Per dare spettacolo servirebbero forse qualche ammaccatura in più e dei guidatori ben più spericolati. Il motore c’è, speriamo che al prossimo giro venga fatto fumare come si deve.

Read More

Magnum – Escape From the Shadow Garden

Written by Recensioni

I Magnum sono leggenda, questo è risaputo, tutto ciò che toccano diventa oro senza (quasi) mai commettere un passo falso. Il loro Hard Rock risulta sempre sublime ed unico, riconosci il loro stile tra milioni di altri, hanno dato insegnamenti senza dare troppo nell’occhio come già fatto da qualcun altro più conosciuto; che poi, se dobbiamo dirla tutta, molti di questi non hanno nulla in più di Bob Catley e soci. La band inglese si ripropone con un nuovo disco intitolato Escape From the Shadow Garden. Parliamo di un lavoro che sicuramente si mantiene saldo sui canoni dei Magnum ma fa parte, molto probabilmente, di quella schiera poco ispirata della loro discografia. Sembra quasi che abbiano ripescato dal loro repertorio tutte le Hit traendone per ognuna l’elemento principale per poi miscelare il tutto in un unico calderone, da qui Escape From the Shadow Garden. Queste non è certo un capolavoro come Vigilante, Sleepwalking o On A Storyteller’s Night ma racchiude in se alcuni dei pregi dei gloriosi titoli citati. C’è da notare un particolare: pare che tutti questi elementi abbiano portato i Magnum su di una tendenza Power e non a caso l’accoppiata chitarra/tastiera molto più marcata rispetto al solito, la dice lunga. L’apertura del disco spetta a “Live Till You Die” una traccia dagli ottimi riff di chitarra, un pezzo che nel bene o nel male si fa notare. Passiamo direttamente a “Cryining in the Rain”, brano composto da chitarre rocciose ed anche qui, ancora una volta, si sente la sensualità della voce di Bob Catley. Con la successiva “Too Many Clowns” ci si comincia scuotere trasportati dalle graffianti chitarre; “Midnight Angel” mette in risalto le tastiere, non a caso queste ultime creano interessanti melodie, di quelle che ti rimangono nella mente, tirando il pezzo per una durata di circa sette minuti. “Don’t Fall Asleep” invece è la più sensuale del disco: lieve, melodica e con un ritornello molto orecchiabile, probabilmente uno dei cavalli di battaglia di Escape From the Shadow Garden. I ritmi tornano ancora una volta molto veloci in “Burning River” dove le chitarre prendono ancora una volta il completo controllo della scena. Arriviamo direttamente a “The Valley of Tears”, la canzone di chiusura, caratterizzata da ottimi riff e dalle tastiere marcate, aggiungeteci la solita voce di Bob ed otterrete un altro pezzo che non passa assolutamente in secondo piano. La carriera dei Magnum è intensissima, come ben sapete sono in circolazione dalla fine degli anni settanta ed i passi falsi che hanno commesso sono pochissimi, se si parla di loro si parla di un’ altra pietra miliare dell’Hard Rock, arrivare ai giorni nostri con un onesto disco è roba da pochi.

Read More

The Black Rain – Water Shape

Written by Recensioni

“Qual è la forma dell’acqua? Semplice: l’acqua non ha forma!”

Così The Black Rain spiegano il titolo del loro ultimo disco, Water Shape: un fil rouge estremamente sottile, quasi impercettibile, praticamente inesistente, che lega le undici tracce di questo concentrato di Hard Rock di stampo Eighties. I quattro bolognesi in realtà passano i minuti a giocare con i grandi paradigmi dell’Hard Rock: riffoni di chitarra, batteria esplosiva, una voce che vorrebbe essere potente e centrale (e spesso però non convince), tematiche universali trattate in maniera banalotta (“Mesmerize”), scampoli di ribellione spenta e attaccaticcia, che inizia a suonare ridicola (“Rock’n’roll Guy”, peraltro una ballad molto orecchiabile), il tutto in un inglese che potremmo definire approssimativo. Water Shape provoca quel bruttissimo effetto dejà vu che fa sorridere fin dalle prime note del disco, quando alle nostre orecchie arriva questo sunto di altre mille realtà Rock che non ci dice niente di nuovo, neanche per sbaglio.

Con questo non voglio dire che Water Shape sia necessariamente un brutto disco: probabilmente può essere assai piacevole per un amante del genere, che può trovare infiniti topoi rimescolati e riutilizzati in appena undici tracce. Inoltre The Black Rain è un gruppo che suona compatto (anche con una produzione non eccelsa che ogni tanto li penalizza), musicisti di sicura bravura e con qualche idea (sempre senza uscire dal recinto, intendiamoci) a cui il nostro lato più istintivo può, a spezzoni, agganciarsi. Però non ci troviamo niente di nuovo, qua dentro, nessuna variazione interessante rispetto al già sentito, nessun azzardo, nessun salto nel vuoto, e il valore dei brani non è così importante da farli uscire dall’immensa massa dei rocker vecchio stampo che riciclano lo stesso genere dagli anni 80. Un disco che può essere apprezzato dagli appassionati di questo tipo di sound, ma che all’ascoltatore in cerca di qualche brivido in più regala solo una comoda noia, come acqua che, pur avendo mille e una forma, non ha mai un sapore.

Read More