Giorgio Grigio Tag Archive

Virgo – L’Appuntamento

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Non è mai facile sposare uno stile Rock Blues potente con testi cantanti in lingua italiana. Ebbene con questa prima opera totalmente autoprodotta, i Virgo ci riescono positivamente. Nati nel 2008 con il nome Papataci arrivano ad oggi  con un diverso nome e qualche cambio di formazione, tra cui l’arrivo del cantante Daniele Perrino. Un sound d’ispirazione americana, duro ed avvolgente, fatto di chitarre elettriche  sempre in primo piano e da basso e batteria precisi e puntuali che dettano il tempo di una musica che dimostra come il Rock cantato in italiano non sia una semplice utopia od un semplice ricordo del passato. I testi delle canzoni si presentano semplici ma molto diretti, introspettivi e con sprazzi di esistenzialismo.

Elemento di non poco conto, per quanto riguarda la struttura dei testi, è la mancanza di particolari espedienti per incastrare frasi e parole il più “onomatopeiche” possibili (seppur in italiano ce ne siano ben poche, non abbiamo la facilità dell’inglese e su questo argomento potrebbe aprirsi un dibattito infinito tra rock italiano, all’italiana,  turco, esiste o no il rock non inglese etc etc.. lasciamo stare) per cercare di seguire il sound. C’è, poi, Daniele Perrino. Il cantante, già noto sulla scena nazionale per collaborazioni con Mario Biondi, dotato di una voce profonda ed intensa accompagna l’ascoltatore lungo tutto l’album in un percorso fatto di disagio, spesso malinconico, e rabbia. L’elettricità del Rock dei Virgo regala impeto e vigore senza mai perdere l’inquietudine dei toni oscuri che traspaiono dai testi, grazie proprio alle interpretazione ed alle doti canore del cantante.  Tra i pezzi più significativi da sottolineare la track d’apertura “Non ti Sogno Più”,  un brano ipnotico con un ottimo groove e tanta energia, la più esistenzialista dell’album “Il Tempo della Memoria” e “L’Appuntamento”, traccia che dà nome all’album, caratterizzata da un clima cupo fatto di nostalgiche chitarre acustiche e prepotenti sonorità elettriche dove la voce del singer si diverte giostrare tra alti e bassi.

Dieci le tracce totale di cui una soltanto in inglese “If It’s Love”, dove tra l’altro se la cavano egregiamente, e questo è un altro punto a  favore  del lavoro.  Un lavoro ben riuscito e da premiare, soprattutto per la personalità, con un buon voto e con tanti ascolti.

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Aa. Vv. – Tutto da rifare. Un Omaggio ai Fluxus

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“Quando non si può tornare indietro bisogna soltanto preoccuparsi del modo migliore per avanzare” scrive Coelho ne L’Alchimista.  Quale modo migliore di avanzare, aggiungo io, se non riscoprendo una perla (per alcuni sconosciuta) del Rock alternativo italiano anni 90? Il passato va studiato, capito e molto spesso omaggiato, soprattutto in questo nostro e tanto amato mondo della musica.  Con Tutto da rifare. Un Omaggio ai Fluxus la Mag Records in collaborazione con la V4V, produce un’opera decisamente interessante celebrando al meglio la storica band torinese. In attività dal 92 al 2001, il gruppo capitanato da Franz Gloria smuove le viscere dei giovani dell’epoca con quattro album in studio di assoluto valore, lavori che, senza dubbio, hanno lasciato un solco fondamentale all’interno della scena musicale alternativa nostrana ed un’eredità importante per le nuove generazioni.

I tanti applausi e l’ottimo riscontro critico non sono mai bastati ai Fluxus per ottenere un importante riconoscimento mediatico, sta di fatto che il talento non mancava (di certo non inferiori ai colleghi più fortunati e caparbi, per certi aspetti, dell’epoca) e che le loro sonorità Hardcore Punk, Noise hanno fatto storia nell’underground tricolore. Sono quattordici le tracce prese dai loro album (Vita in un Pacifico Nuovo Mondo del 1998, Non Esistere del 1996, Pura Lana Vergine del 1998 e Fluxus del 2002), interpretate da alcune delle migliori band del momento. Un lavoro di assoluta qualità grazie proprio ai gruppi che non si sono limitati a canticchiarne le canzoni, ma le hanno reinterpretate, arrangiate, modernizzate, rendendole proprie, senza intaccare il proprio stile e le proprie peculiarità, ma addirittura ostentandole.

Questo è certamente un pregio che rende onore e dà ancora  più valore al tributo ai Fluxus, in fondo una cover ha senso se fatta musicalmente propria, solo così può assumere il significato preposto e presentarsi come una celebrazione, altrimenti nulla la renderebbe differente da una canzone cantata al Karaoke cercando di imitare Elvis. Band più o meno note, dunque, si alternano per più di un’ora di musica vera unendo il vecchio al nuovo con rispetto e originalità. Senza citare tutti gli artisti segnaliamo la bella apertura dei Majakovich con “Giro di Vite”, la bellissima interpretazione dei Marnero con “Nessuno si Accorge di Niente”, “Questa Specie” eseguita dal gruppo milanese Nient’Altro che Macerie e la intensa “Talidomide” interpretata da Gli Altri, che celebrano al meglio la musica, i testi e la carriera dei Fluxus.

Tanto bravi questi gruppi, insomma, da creare un legame come meglio non si poteva, tra avanguardisti di un tempo e i “ragazzacci” di oggi.

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Arcade Fire – Reflektor

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Skippando a piè pari i 10 minuti della hidden track iniziale, sono andato subito alla traccia numero uno “Reflecktor”, canzone che da il nome al nuovo e quarto album in studio degli Arcade Fire. Spinto dalle prime note caratterizzate da un groove danzeresco (audio doverosamente a palla) mi sono alzato e incamminato lungo il corridoio di casa con un’andatura lenta ma ritmata e sicura. Con una giravolta alla Derek Zoolander (chiaro, verso destra) mi sono diretto in cucina e tra un movimento pelvico  e l’altro mi sono fatto un caffè, in scioltezza e sempre danzando sentendomi figo che manco George Clooney. “Prende questo sound!” ho pensato. Non avendo ancora capito assolutamente niente della canzone perché troppo intento a sentirne le vibrazioni, ho messo la tazzina nel lavandino e mi sono ridiretto zompettando verso la camera per ascoltare più attentamente l’album e scrivere due righe per Rockambula. Ebbene, a fine ascolto (un paio di ascolti per la verità) il mio pensiero è stato questo: ”Dopo aver spaccato le palle per mesi con una campagna pubblicitaria continua (aggiungo ora: prassi, che non amo molto, ma che sta oramai diventando sempre più comune nel mondo della musica mainstream dai Daft Punk, per esempio, ai Pearl Jam), è questo il tanto ostentato ed atteso lavoro degli Arcade Fire? Beh, allora ben vengano tutte le strategie di marketing invasive possibili, se portano a lavori del genere, perché l’album non spacca le palle, spacca e basta”.

Un’opera molto più elettronica e corposa, un misto di Funk Rock, elementi Reggae, Dance- Hall con influenze tribali nate dalle percussioni di stampo Haitiano, paese d’origine di Regine Chassagne e dai frequenti viaggi in Giamaica, luogo dove la band ha registrato tra l’altro, l’album. Un disco doppio piaciuto ai molti e criticato dai pochi che ne hanno visto un lavoro troppo laborioso, caratterizzato da eccessive percussioni e dall’inutile aggiunta di strumenti nuovi quali, per esempio, il sax. Uno stato confusionale, insomma,  che porta a mischiare percussioni e strofe in lingua francese al classico sound disco anni 80.  I soliti che non riescono mai a concepire evoluzioni, cambiamenti e voglia di sperimentare di una band ma che si aspettano sempre la copia dei primi album. Noiosi. La bellezza di Reflektor sta proprio nella sua diversità e novità. È un album ricco dove il gruppo canadese si inerpica per selciati sperimentali un po’ più lontani dal loro standard, mettendosi alla prova, sbattendosene e regalando qualcosa di diverso. Il prodotto è energico, ridondante, piacevole e dove lo zampino di James Murphy (LCD Soundsystem), specialmente in pezzi come “Reflektor” e “Here Comes the Night Time”, si fa sentire eccome.

Una band seria che risulta divertente, senza però mai abbandonare il lato oscuro della loro musica, quel dark che li ha sempre caratterizzati; a partire dalla copertina: il dramma di Orfeo di Rodin che cede alla tentazione di voltarsi e guardare Euridice destinandola all’Ade. Per non dimenticare poi le menate, che tanto piacciono a Win Butler, Kierkegaardiane e che ci permettono, citando appunto il filosofo danese, di descrivere al meglio l’opera della band: ”Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere.” L’album narra di mali esistenziali, di amore, delle difficoltà nello stare insieme, delle moderne crisi di relazione e della ribellione contro l’affermazione di se stessi, il tutto con un linguaggio molto accessibile. Lungo? Onestamente un po’ si, soprattutto alcuni pezzi, come l’intro, “Awful Sound” oppure “Supersymmetry” che tendono ad appesantirlo leggermente, anche seò mettono ancora di più in risalto le tracce più brevi ma belle cariche come “Normal Person” o “Flashbulb Eyes”.  Noioso? Proprio no, sempre ricco di suoni interessanti, pieni, sensati nella loro mescola e coinvolgenti lungo tutto il percorso dell’album.

La classica opera da ascoltare donandogli le giuste attenzioni, ma al tempo stesso possibile colonna sonora delle nostre faccende quotidiane da stoppare, riprendere e magari skippare su qualche pezzo. Il risultato sarà sempre e comunque ottimo. Ascoltatelo e basta. Se potete, fatelo senza l’utilizzo di cuffie o auricolari ma lasciate che il sound invada i vostri timpani e la vostra casa globalmente. Ciò che vi rimarrà sarà sicuramente la sensazione di aver ascoltato uno dei migliori album del 2013, e se non avete idee per i regali di Natale e conoscete qualche sciagurato che non ha ancora comprato o ascolta questo disco, eccom fategli il giusto presente. Pure Gesù bambino sarà contento. E così sia.

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Mooth – Slow Sun

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In un misto di riff ossessivi, frequenti cambi ritmici e una voce gridata si districa il blend sound dei Mooth. Nati dalle ceneri dei Koan, (dalle ceneri si fa per dire, in realtà hanno cambiato solo il batterista) la band, originaria di Pavia, colpisce per la particolarità del loro stile. Posizionarli, infatti,  all’interno di una delle solite categorie musicali, più specificatamente del Noise Rock, risulta un’impresa abbastanza ardua. Un connubio di Sludge, Math Rock e Hardcore Punk con i classici rallentamenti del Doom crea un melting pot di suoni e generi che racchiude tutto e si colloca nel niente. Perché proprio dal niente e dal tutto si forgia la musica dei Mooth. Una mitragliata complessità strutturale impazzita, aggressiva ed energica ricca di suoni distorti e frequenze ritmiche destabilizzanti e allo stesso tempo attimi di quiete, di silenzio e  di improvvise e brevissime pause che conferiscono ancora  più valore all’uraganica scarica di bad vibrations.

Con Slow Sun, opera di debutto edita per la Martinè Records, sparano otto tracce che ci immergono in un’atmosfera disturbante dove paranoie, frustrazioni e problematiche giornaliere vengono scaricate con furia ossessiva grazie  alla voce psicotica del cantante- chitarrista che esprime con tono il rifiuto dell’oppressione.Ottima la tecnica che i quattro musicisti dimostrano di possedere e l’intreccio qualitativo tra strumenti e voce dimostrando un’esperienza di sicura rilevanza.Tra i pezzi più significativi e meglio riusciti dell’opera possiamo indicare l’opener “Debra DeSanto Was a Heartbreaker”, “Skeletons” , la complessa “Red Carpet on the Hillside” e il tormentato brano si chiusura  “Fletcher Mcgee”.

Slow Sun si dimostra in tutto il suo complesso un gran bell’esordio tant’è che a fine ascolto ci si chiede se davvero questi quattro martelloni siano di Pavia o meno (non che in Italia non ci siano mai state band di rilevanza nel mondo del Noise Rock o nel Post Hardcore, ma per ovvie ragioni i riferimenti finiscono sempre in altri stati).  Un’opera originale che va premiata soprattutto per l’unicità stilistica dei Mooth che nell’amalgama di generi differenti crea il proprio ed unico stile.

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Never Trust – Morning Light

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Parte dal 2009 la lunga rincorsa dei Never Trust alla conquista di una posizione di rilievo all’interno del panorama Hard Rock italiano e non. Step fondamentale di questa ardua e sempre onorevole impresa, i Nook Studios di Cleveland, USA, dove la band lombarda registra il loro primo album intitolato Morning Light.  I premi ai contest, le perfomance come opener a colleghi più affermati e gli ottimi live,  diventano, già dall’acquisto del biglietto per gli States, un cereo ricordo, un passato reale, ma solo nell’esperienza formativa personale della band. Per tutto il resto del mondo, conta poco, quasi nulla. Tutto ruota intorno a quelle 11 tracce registrate in terra straniera. Troppo importante l’impatto del primo disco per commettere errori e rischiare di cancellare tutto ciò che di buono li ha portati fino a Cleveland. Ebbene, i Never Trust tornano dal paese a stelle e strisce con un prodotto assolutamente interessante. Fin dalle prime battute della canzone di apertura “Fade Away” il loro Hard Rock (nel loro stile risuonano echi degli Halestorm, dei Fireflight o dei Paramore) e il timbro di voce ringhioso della bravissima cantante Elisa Galli lascia piacevolmente soddisfatti.

Canzoni cariche di adrenalina che aumentano i battiti cardiaci e spingono a smanettare sul tasto + del volume, grazie ad un’ottima batteria che smartella come deve, chitarre decise e violente, precisi assoli. L’energia che trasmettono in ogni pezzo è notevole e il loro sound corposo e allo stesso tempo melodico rende l’album davvero godibile fin dal primo ascolto. Pezzi come, per esempio, “Honey”, “Lucky Star” o “Against the Tide” sono corroboranti ed intense, palesano senza mezzi termini la grinta e la passione dei quattro musicisti. Non mancano, inoltre, momenti leggermente più soft come le belle power ballad “What is Mine”, “Heartbreak Warning”  o “Rebound” le quali regalano momenti più orecchiabili, alleggerendo l’album e mettendo ancora di più in evidenza le doti vocali della cantante.

L’aria degli States ha decisamente giovato alla tempra dei Never Trust, i quali possono ritenersi davvero molto soddisfatti di questa opera prima. Un lavoro completo e ben arrangiato carico di grinta e sudore della fronte che rappresenta esattamente l’essenza musicale di questa giovane band. Se riusciranno a conquistare tutti sarà solo il tempo e l’ascoltatore finale a  deciderlo. Noi per ora alziamo i pollici e lasciamo che il Rock faccia il suo corso.

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Nero & the Doggs – Death Blues

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Un uomo nero, nero, nero / Un uomo nero siede sul mio letto / un uomo nero, non mi fa dormire tutta la notte / L’uomo nero/ muove il dito/ su un libro abominevole…”

Si apre con la famosa poesia L’Uomo Nero di Sergej Esenin, poeta russo morto impiccato nel 1925, recitata dal grande Carmelo Bene, il nuovo album Death Blues di Nero & the Doggs. E si capisce subito che non sarà una passeggiata nel parco. Tensione alta, atmosfere Dark, sound incazzato e una voce che esprime rabbia e malessere.  Nero e la sua band creano un luogo tenebroso, torbido e ansioso e nel quale perdersi, sfogarsi e, per i più tosti (ma sensibilmente disagiati),  rifugiarsi. Il leader della band, cantante e bassista, si aggira per le strade, di Milano dal 2009 e da allora i suoi guaiti aspri e rabbiosi sono stati accompagnati da vari musicisti e dalla inseparabile batterista Grace. Un sound radicato nella cultura Garage/Punk degli anni ‘60/’70, ma che nell’underground della città meneghina trova e forgia la propria personalità. È lui l’uomo nero di Esenin che si appoggia sul vostro letto e con una musica che esce dai tombini e dagli scantinati cruda, oscura e marcia vi avvolge, vi scortica e vi sbatte in faccia una dura e amara realtà insana, tossica e corrotta. Così in una cupa atmosfera tra spasmi paranoici e rabbiosi disorientamenti esistenziali si snodano le 10 track della band milanese.

Con “Sweet Confusion” partono subito forte spazzando via la calma dell’intro “Uomo Nero” e ci catapultano di rabbia nel loro mondo del Punk Rock, con un pezzo che rievoca molto gli intramontabili The Stooges. Tutta la loro malsana indole viene fuori con l’emblematica ma efficace “Feel the Death”. Se in passato “qualcuno” aspirava a farsi accendere il fuoco, oggi Nero invita a farselo portare via  “Come and take my fire / I wanna feel the Death”, canta con decisione. C’è anche tanto amore nell’opera come, per esempio, nella track “Damaged Love”. Ovviamente, è un amore sofferente, sanguinante fatto di pianti e menzogne, irrimediabilmente rotto che merita solo la morte totale: “Take the gun and shoot”, invita Nero parlando alla sua baby. Un mondo dove nell’amore non esiste serenità e in “Love is a Jail”, pezzo nel quale la band abbassa un po’ il ritmo ma non la passione, l’amore diventa una cella, che porta all’alienazione e ed impazzire.

Follia e deviazione mentale sono temi ricorrente nell’intero album. “You know i’m sick baby” è il “mantra” che ripete costantemente il cantante inSin City”, accompagnato da un ritmo incessante e potente che rende la sua psicosi reale; così come è sempre lo squilibrio che accompagna il sound della aspra  “Insanity.  La band, oltre a spingere molto su testi non proprio convenzionali, imprime a molte canzoni un sound sostanzioso e completo dove al classico ed arrabbiato trio chitarra, basso e batteria spesso si aggiungono armonica, viola e piano (come per esempio nella già citata “Love is a Jail” o nella più rilassata “Blue Moon White Light”, track più calma di tutto l’album, o nella canzone che da il nome all’opera “Death Blues”), caratterizzando sempre di più in maniera inconfondibile il loro stile.

“L’uomo nero / muove il dito / su un libro abominevole / e, con canto nasale, sopra di me / come un monaco su un morto / mi legge la vita […]/  cacciando nell’anima angoscia e paura..” e tanto, tanto Rock’n’Roll.

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