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The Antlers – Familiars

Written by Recensioni

Dimenticatevi tutto, le ferie, le non ferie, il mare, la spiaggia, le partite a carte, i selfie, il lunedì, il lavoro… prendete tutto appallottolatelo, accartocciatelo, insomma dategli la forma che volete e buttate via, recatevi nel vostro posto felice e rimaneteci per un paio d’ore, Questo è a grandi linee quanto vi serve per ascoltare Familiars l’ultimo lavoro full lenght dei The Antlers. Perdere le connessioni mi sembra la definizione migliore per questo disco nel quale, come di consueto per Silberman e compagni,  la forma canzone, tradizionalmente concepita, si perde quasi completamente in un flusso emotivo, a favore di brani che si costruiscono su schemi di suoni che tendono a ripetersi, dove le parte orchestrale capeggiata dalla tromba di Darby Cicci, si ritaglia una parte molto importante di sostegno ed enfasi. Il risultato è un flusso musicale caldo e avvolgente ma mai caotico. La formula vincente sta proprio nel ricercato equilibrio tra struttura ed emozione, tra un basso che avvolge la melodia, la raffinatezza leggera del piano e la maestria nella gestione minimale dei synth, base imprescindibile per tutti i nove brani. Su questo tappeto di suoni palpabili come immagini e fortemente evocativi si stagliano i versi di Peter Silberman, drammatici e introspettivi, che uniscono un pervasivo senso di tristezza ad una forte analisi e conoscenza di se stessi, spinta al limite, fino al distacco da un proprio sé vecchio e irriconoscibile.

Un lento bruciare tra paranoie, fantasmi e redenzione, il tutto sussurrato, sottolineato attraverso l’uso del falsetto. Un ascolto catartico, dai suoni dilatati ed eleganti che ti proietta in un mondo soffice e doloroso con apici d’intensità in brani come “Doppelgänger”, “Director” o “Hotel”. Senza dimenticare il pezzo d’apertura, nonché primo singolo, “Palace”, che esprime appieno la sapienza e l’accuratezza con cui sono stati concepiti i brani che accompagnano l’ascoltatore dentro la storia, senza sovrastarla me prendendone parte, come una vera e propria colonna sonora con lievi arrangiamenti dal gusto Jazz. Nessun colpo di scena eclatante o cambi di direzione scuoteranno il lento percorso che da un palazzo interiorizzato si sviluppa per poi riflettersi su se stesso alla ricerca di un nuovo rifugio familiare. Diverso dai precedenti Hospice e Burst Apart, meno elettronico ed effettato, più orchestrale e minimale, alla ricerca di una morbidezza e leggerezza tipiche del sogno. Un disco da ascoltare con calma per apprezzarne la profondità e lasciarsi toccare le corde della propria emotività.

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